Si narra che in una valle dolomitica ai confini fra Veneto e Trentino si combattano in notti come questa battaglie a suon di botti in cui vince chi la spara più grossa, come avviene del resto anche in altri settori. L’appuntamento è per questa sera, ore 24 circa, con qualche anticipo giusto per scaldarsi, quando dalle baite disperse tra i pascoli a 2 mila metri di quota partiranno petardi e razzi che poi lasceranno il posto a bombe in piena regola. Chiariamo subito un concetto: per far casino in un vicolo cittadino ci vuol poco, come sa bene ogni monello. Basta gettare un “raudi” in un cassonetto per far credere a chi dorme lì sopra che siamo entrati in guerra. Per ottenere lo stesso effetto in alta quota, tra i pascoli aperti e le pareti di roccia ben lontane, ci vuole tutt’altro impegno.Dirò quello che ho visto, anzi sentito. Correva l’anno 2000, o giù di lì, quando mi ritrovai da quelle parti ospite del proprietario di una baita, con l’accordo che lui avrebbe pensato al cibo e io avrei provveduto ai botti. Per fare bella figura filai dritto in armeria (scartando senza indugio cartolerie e negozi di giocattoli vari) dove scoprii che per andare sul sicuro bisognava investire in esplosivo un terzo della tredicesima. E così feci.
Con il bagagliaio pieno di armamenti (tutta roba legale, intendiamoci, benché proveniente dalla Cina) mi presentai alla baita all’imbrunire impaziente di dar fuoco alle micce. A mezzanotte in punto feci partire un razzo, quindi i miei onesti fuochi e infine - io, ardimentoso fuochista, certo di avere su di me gli occhi della valle, soprattutto quelli delle donne - seguendo alla lettera le istruzioni accesi il pezzo forte: una specie di mortaio da cui partiva un cipollone che poi esplodeva in cielo facendo piovere una pioggia di scintille colorate. Niente male, mi dissi, e soddisfatto, mi ritirai per il brindisi mentre dal basso mi raggiungeva un tonfo sordo che chiarì subito a tutti cos’erano i botti che avevamo sentito fino a quel momento: umili scoregge.
Un altro boato arrivò dall’altro lato della valle e poi un altro, con un botta e risposta che continuò a lungo. Mi spiegarono che a fronteggiarsi c’erano - come sempre - due rivali montanari che avevano condiviso, probabilmente, lo stesso curriculum dinamitardo: entrambi appartenevano alla categoria di quelli che già all’asilo facevano scoppiare le miccette, quelle rosse in vendita nella scatoletta da cinquanta. Solo che loro - per distinguersi - le tenevano fra le dita durante l’esplosione. Crescendo avevano amplificato la potenza dei petardi più seri - parliamo di “raudi”, “mini ciccioli” ma soprattutto “magnum” - facendoli scoppiare nelle lattine vuote di birra, quindi nelle bottiglie e infine, non contenti, si erano avviati alla carriera di bombaroli acquistando botti regolari solo per aprirli, recuperare la polvere nera e utilizzarla - parole loro - in modo serio, ad esempio compressa all’interno di tubi arrugginiti. Poi trovarono altri canali di approvvigionamento che qui non posso scrivere, soprattutto perché non li conosco.
Comunque, stavo lì umiliato ad ascoltare i due vicini che si “scambiavano gli auguri” finché sentimmo il terreno vibrare forte mentre un lampo illuminava il cielo: «Carburo» disse qualcuno che aveva l’aria di saperla lunga.
Poi altri botti, che potevano essere delle fucilate in serie (da quelle parti, si sa, è pieno di cacciatori) e infine circolò la voce che come sempre accade fu la moglie di uno dei due a mettere termine alla sfida, impedendo al marito di far saltare con una pallottola la bombola del gas oppure - come già aveva minacciato l’anno prima - di tirar fuori dal fienile quella riserva mitica di tritolo, su cui da anni in paese correvano strane voci.
Attorno all’una di notte tornò il silenzio e io pensai: «L’anno prossimo farò di meglio». Invece rimasi fermo al mio livello, mentre ai due professionisti - così dicono le voci - toccò di fronteggiarsi da un letto all’altro di una stanza d’ospedale.
P.S. volete avere un'idea dei botti che si possono ottenere con il carburo? date un'occhiata QUI
Per non restarne vittima ho deciso di affrontare il Natale con professionalità. Così, con largo anticipo, mi sono seduto al tavolo di fronte a un foglio bianco e ho cominciato a compilare la lista di cose da fare entro il 25 dicembre, anzi entro il 23 per non avere brutte sorprese e garantirmi un margine di recupero in caso di emergenze.
Una nuova categoria di sommelier sta crescendo accanto agli esperti del vino che da anni popolano il Trentino: i degustatori del latte crudo. Si possono trovare, armati di bottiglia a collo largo, a nord della città, preferibilmente la sera quando cala il sole e arriva da Aldeno il furgone carico di un centinaio di litri di latte appena munto. Non basta lo sconto (un euro al litro, quando il latte d'alta qualità ne costa in negozio 1,26) a spiegare perché un padre di famiglia prende l'auto e va in periferia a fare il pieno al distributore automatico. E' più probabilmente una reazione allo scippo dell'industria che per anni ci ha fatto credere che il latte sia un prodotto asettico che chissà come esce dalla centrale finito, inscatolato, sterilizzato e senza grassi. Al distributore invece no: si tratta forse del metodo d'acquisto che più avvicina il consumatore alle mammelle della vacca, ad eccezione della stalla che - diciamo la verità - con il suo odore di letame, lo sporco e d'estate anche le mosche farebbe passare l'entusiasmo anche alla naturalista più convinta.
Ho un inceneritore in casa e nemmeno lo sapevo. L'ho scoperto l'altro giorno guardando il telegiornale regionale quando, con un occhio al cielo nuvoloso e l'altro al termometro in picchiata già mi preparavo a “stizar”, cioè ad attizzare il fuoco anche se il termine italiano non rende l'idea delle sensazioni che stanno dietro il semplice gesto di accendere la stufa. Sullo schermo c'era un assessore della provincia di Bolzano che spiegava come le stufe a legna siano tra le principali fonti di polveri sottili, di non bruciare cartacce o altri rifiuti perché producono – orrore! – diossina, di andarci piano con la legna verde e di chiamare lo spazzacamino per tenere in ordine la canna fumaria.
C'erano anni in cui l'annuncio di riportare le lancette un'ora indietro evocava notti prolungate (possibilmente tempestose) da godere a letto preferibilmente consapevoli, nel dormiveglia mattutino, del caldo regalo guadagnato in primavera quando quell'ora andò sacrificata.

Se ti piace la folla, se non ti danno fastidio l'odore di sudore e gli schiamazzi, se il rumore dei motori a fondovalle per te è una musica, se consideri il tempo passato in coda un'occasione per riposarti, allora sali ai 3.152 metri del Piz Boè in una domenica d'agosto: troverai tremila persone (per la maggior parte arrivate con la vicina funivia del Sass Pordoi) che hanno avuto la stessa, fantastica, idea. Poi incolonnati sul sentiero che ti riporterà a valle, dove avrai lasciato l'auto nell'immenso parcheggio del passo Pordoi e torna a casa soddisfatto per aver vissuto un'esperienza forte: la montagna usa e getta, quella che le agenzie turistiche propongono a chi non ha tempo per una settimana sulle Dolomiti ma deve concentrare in sette giorni Venezia, Riva del Garda, Innsbruck, il Mart di Rovereto e se la stagione è quella giusta - tappa d'obbligo - i mercatini di Natale. Se invece tutto questo ti rende un po' triste, sali lassù di lunedì, magari anche in funivia (che in fondo è una gran comodità) e bevendo un the caldo sulla terrazza della Capanna Fassa scoprirai un'altra montagna.
C'era una volta l'autostop, l'attività di chi alza il pollice a lato della strada per chiedere un passaggio. Ci sono tre motivi per fare l'autostop: necessità, voglia d'avventura o sensibilità ambientalista. Poiché un'auto ce l'ho e le avventure un po' mi spaventano è sempre stato per evitare di muovere invano una vettura che mi sono trovato sul marciapiede, con il pollice fuori, sfidando le frecciate di familiari e amici che consideravano il gesto poco dignitoso.