31 dicembre 2007

Chi la spara più grossa

capodanno molotovSi narra che in una valle dolomitica ai confini fra Veneto e Trentino si combattano in notti come questa battaglie a suon di botti in cui vince chi la spara più grossa, come avviene del resto anche in altri settori. L’appuntamento è per questa sera, ore 24 circa, con qualche anticipo giusto per scaldarsi, quando dalle baite disperse tra i pascoli a 2 mila metri di quota partiranno petardi e razzi che poi lasceranno il posto a bombe in piena regola. Chiariamo subito un concetto: per far casino in un vicolo cittadino ci vuol poco, come sa bene ogni monello. Basta gettare un “raudi” in un cassonetto per far credere a chi dorme lì sopra che siamo entrati in guerra. Per ottenere lo stesso effetto in alta quota, tra i pascoli aperti e le pareti di roccia ben lontane, ci vuole tutt’altro impegno.
Dirò quello che ho visto, anzi sentito. Correva l’anno 2000, o giù di lì, quando mi ritrovai da quelle parti ospite del proprietario di una baita, con l’accordo che lui avrebbe pensato al cibo e io avrei provveduto ai botti. Per fare bella figura filai dritto in armeria (scartando senza indugio cartolerie e negozi di giocattoli vari) dove scoprii che per andare sul sicuro bisognava investire in esplosivo un terzo della tredicesima. E così feci.
Con il bagagliaio pieno di armamenti (tutta roba legale, intendiamoci, benché proveniente dalla Cina) mi presentai alla baita all’imbrunire impaziente di dar fuoco alle micce. A mezzanotte in punto feci partire un razzo, quindi i miei onesti fuochi e infine - io, ardimentoso fuochista, certo di avere su di me gli occhi della valle, soprattutto quelli delle donne - seguendo alla lettera le istruzioni accesi il pezzo forte: una specie di mortaio da cui partiva un cipollone che poi esplodeva in cielo facendo piovere una pioggia di scintille colorate. Niente male, mi dissi, e soddisfatto, mi ritirai per il brindisi mentre dal basso mi raggiungeva un tonfo sordo che chiarì subito a tutti cos’erano i botti che avevamo sentito fino a quel momento: umili scoregge.
Un altro boato arrivò dall’altro lato della valle e poi un altro, con un botta e risposta che continuò a lungo. Mi spiegarono che a fronteggiarsi c’erano - come sempre - due rivali montanari che avevano condiviso, probabilmente, lo stesso curriculum dinamitardo: entrambi appartenevano alla categoria di quelli che già all’asilo facevano scoppiare le miccette, quelle rosse in vendita nella scatoletta da cinquanta. Solo che loro - per distinguersi - le tenevano fra le dita durante l’esplosione. Crescendo avevano amplificato la potenza dei petardi più seri - parliamo di “raudi”, “mini ciccioli” ma soprattutto “magnum” - facendoli scoppiare nelle lattine vuote di birra, quindi nelle bottiglie e infine, non contenti, si erano avviati alla carriera di bombaroli acquistando botti regolari solo per aprirli, recuperare la polvere nera e utilizzarla - parole loro - in modo serio, ad esempio compressa all’interno di tubi arrugginiti. Poi trovarono altri canali di approvvigionamento che qui non posso scrivere, soprattutto perché non li conosco.
Comunque, stavo lì umiliato ad ascoltare i due vicini che si “scambiavano gli auguri” finché sentimmo il terreno vibrare forte mentre un lampo illuminava il cielo: «Carburo» disse qualcuno che aveva l’aria di saperla lunga.
Poi altri botti, che potevano essere delle fucilate in serie (da quelle parti, si sa, è pieno di cacciatori) e infine circolò la voce che come sempre accade fu la moglie di uno dei due a mettere termine alla sfida, impedendo al marito di far saltare con una pallottola la bombola del gas oppure - come già aveva minacciato l’anno prima - di tirar fuori dal fienile quella riserva mitica di tritolo, su cui da anni in paese correvano strane voci.
Attorno all’una di notte tornò il silenzio e io pensai: «L’anno prossimo farò di meglio». Invece rimasi fermo al mio livello, mentre ai due professionisti - così dicono le voci - toccò di fronteggiarsi da un letto all’altro di una stanza d’ospedale.

P.S. volete avere un'idea dei botti che si possono ottenere con il carburo? date un'occhiata QUI

23 dicembre 2007

La mia lista di Natale

lista di natalePer non restarne vittima ho deciso di affrontare il Natale con professionalità. Così, con largo anticipo, mi sono seduto al tavolo di fronte a un foglio bianco e ho cominciato a compilare la lista di cose da fare entro il 25 dicembre, anzi entro il 23 per non avere brutte sorprese e garantirmi un margine di recupero in caso di emergenze.
Per cominciare al meglio ho usato lo sporco trucco di inserire in cima alla lista un compito già eseguito, quindi ho scritto "albero" e "presepe" e poi - con il morale alle stelle - li ho cancellati al volo tirandogli sopra una riga e me ne sono andato a letto soddisfatto.
Il giorno successivo - e quelli dopo ancora - mi sono concentrato sulla programmazione delle incombenze deciso a mettermi in azione solo quando avrei avuto un quadro completo della situazione. Ma riga dopo riga di fronte a quel listone in crescita, con il Natale che si avvicinava pericolosamente, è cominciata a salirmi un'ansia, anzi un'angoscia che mi prendeva al mattino, appena sveglio eppure già schiacciato dagli impegni che mi ero assunto di fronte al grande evento.
Era giunto il momento di mettersi in moto: accusando le Poste di ritardi e inefficienze ho tirato una riga sulla voce biglietti d'auguri e mi sono sentito molto meglio. Ricordandomi che avevo due regali da riciclare ho dimezzato il parco doni pronto a passare ai punti successivi. Con un'occhiata alle previsioni meteo ho deciso che non era necessario (ancora) montare le gomme da neve sull'auto e con grande soddisfazione ho tirato un'altra riga.
I passi successivi sono venuti di conseguenza: sono sopravvissuto alla cena aziendale (via un'altra riga); mi son detto che quel tizio che ogni tanto mi allunga una notizia potevo salutarlo anche dopo le feste e ho cancellato il suo nome dalla lista; calcolando che noi giornalisti a Natale stiamo a casa appena due giorni ho tirato un po' di righe sui libri che mi ero proposto di leggere e sopraffatto dalla quantità di richieste di denaro che varie associazioni mi avevano spedito ho risolto il problema gettandole nel fuoco e conquistando in un sol colpo cinque righe della lista, dopo una strenua lotta contro i sensi di colpa che mi ha lasciato indebolito.
Volevo andare a fare gli auguri al presidente perché mi hanno detto che a palazzo i giornalisti ricevono il regalo di Natale ma quel giorno ero impegnato fuori dal palazzo e mi sono consolato con una voce in meno sulla lista. Infine ho astutamente delegato a un altro ramo familiare la gestione del cenone di Natale, inviti compresi, disponibile a qualsiasi acrobazia parentale anche per il pranzo ("fate di me ciò che volete") pur di poterci tirare sopra un'altra riga.
Restava il punto dolente: scrivere un "fdp" sul Natale, così li chiamo io i "fuori dal palazzo" quando ne parlo con i colleghi. Due anni fa m'ero salvato perché per un calcolo dei festivi il giornale di domenica non usciva, l'anno scorso la feci franca perché eravamo in sciopero, quest'anno non c'è scampo ma ad occhio e croce tra una trentina di righe potrò considerare esaurito anche questo compito e traccerò l'ultima riga della lista che mi ha rovinato metà dicembre e che si è rivelata inutile, zeppa di incarichi buoni solo a togliere il sonno ma talmente trascurabili da cadere (irrisolti) sotto un tratto di penna senza che il mondo se ne accorga.
In anticipo di due giorni, con questo foglio scarabocchiato (che poi sarebbe la mia lista) a prendere fuoco nel camino posso finalmente rilassarmi e pensare alla mia ultima incombenza, l'unica che veramente mi sta a cuore tanto che per tenerla a mente non l'ho dovuta scrivere su un pezzo di carta. Ognuno di noi di cose così a Natale ne ha almeno una: tutte diverse, grandi e piccole, per noi molto importanti. Basti sapere che il tempo guadagnato gettando via la lista servirà per preparare un regalo di Natale al mio bambino, uno di quelli che non si comprano nei negozi e che richiede un minimo di impegno. Che nessuno tra le vittime delle mie righe, sapendo questo, si senta trascurato.

P.S. Buon Natale a tutti!

P.S. C'era un'altra cosa che mi stava a cuore dire ma l'ho scritta sulla Città invisibile.

17 dicembre 2007

La settimana del signor G.

Il primo giorno di sciopero dei camion il signor G. ascoltò la notizia dei blocchi stradali alla radio, mentre di buon mattino guidava la sua auto per andare al lavoro, e pensò che era una cosa seria. Allora lui - che si vantava di essere un tipo previdente, non per niente nel 1973 quando non aveva ancora trent'anni era passato attraverso la crisi energetica, quelle sì che erano emergenze - mise la freccia a destra e per non sbagliare si fermò alla stazione di servizio a fare il pieno di gasolio: «Dovrei averne per una settimana almeno» disse soddisfatto mentre laggiù al casello autostradale vedeva formarsi le prime colonne di tir.
La sera di quel giorno, ascoltando il radiogiornale, il signor G. pensò che era davvero una cosa seria e si chiese - previdente com'era - se non fosse il caso di studiare un percorso alternativo per il giorno successivo. Avrebbe potuto telefonare al dottore del piano di sopra per accordarsi e dividere in due l'uso dell'auto risparmiando in questo modo il carburante oppure (a mali estremi, estremi rimedi) andare al lavoro con la moglie come non accadeva ormai da vent'anni sebbene facessero, su per giù, la stessa strada: «Deciderò domani mattina» stabilì. E più non ci pensò.
Il secondo giorno di sciopero dei tir, ascoltando la radio mentre viaggiava solo nella sua grande auto con il serbatoio pieno, il signor G. si sentì molto intelligente perché mentre il giornalista raccontava del latte che cominciava a scarseggiare gli venne in mente quel distributore automatico gestito dal contadino del paese dove avrebbe potuto rifornirsi. Ma per non sbagliare mise la freccia a destra e si fermò all'ipermercato dove, previdente come non era stato mai, riempì il bagagliaio di ogni genere di prima necessità che gli veniva in mente, senza badare al prezzo né al luogo di provenienza perché non era certo quello il momento di andare per il sottile. Acquistò anche tre confezioni d'acqua minerale perché non era mai stato convinto che nella sua zona l'acqua del rubinetto - come gli dicevano - fosse la stessa che poi finiva imbottigliata.
La sera di quel giorno, quando ormai era chiaro che l'Italia (Trentino compreso) era in piena emergenza, il signor G. placò l'ansia da automobilista ricordandosi di quegli articoli sulle auto a gasolio che viaggiano con l'olio di semi nel serbatoio, proprio quello in vendita al supermercato: «Mal che vada mi salverò con un paio di bottiglie» pensò rilassandosi sul sedile.
Il terzo giorno di sciopero dei tir - dopo aver gonfiato le gomme della bici che non usava più dal 1973, ma che ora poteva tornargli utile - il signor G. si mise al volante e dopo aver collegato il telefonino al vivavoce (oltre che previdente era un tipo diligente) chiamò l'azienda dei trasporti che lo rassicurò spiegandogli che da casa sua alla città c'era (sorpresa!) un autobus ogni venti minuti e che loro non avevano certo problemi con le scorte di gasolio.
La sera di quel giorno, leggermente diffidente, il signor G. apprese dall'autoradio che i camionisti erano vicini ad un accordo con il governo, ma non volle abbassare la guardia e si coricò beneficato da un'improvvisa illuminazione: «Il treno!» pensò. Quel trenino per pendolari che fermava alla stazione del paese ma che lui - immaginando carrozze piene di massaie e giovani studenti - non aveva preso mai: «Domani potrebbe essere il giorno giusto» mormorò. E dormì beato.
Il quarto giorno di sciopero dei tir il signor G. - seduto nell'auto familiare dove viaggiava sempre solo - apprese che lo sciopero era finito e tirò finalmente un sospiro di sollievo osservando la lancetta del serbatoio semi pieno che lui vedeva mezzo vuoto: basta con gli autobus, car-sharing, bicicletta, carburanti alternativi e addirittura il treno. Dopo una settimana di passione (maledetti camionisti, come si permettono di mettere i pali tra le ruote alla gente che lavora?) poteva tornare, finalmente, alla normalità.

08 dicembre 2007

La lampadina fulminata

E' stato un sabato bestiale. Tutto è cominciato l'altra sera quando il vicino – con cui da qualche anno siamo rivali – ha inaugurato la stagione delle feste dando corrente alle luminarie che (sospetto) aveva montato sui balconi già in agosto per non arrivare secondo al grande appuntamento. Così – mio malgrado – sono salito in soffitta a recuperare quello scatolone impolverato in cui teniamo due file di luci di Natale. Dopo una mezz'ora impiegata a sciogliere i grovigli (resta un mistero come i cavi elettrici riescano ad annodarsi in qualunque modo vengano riposti) ho trattenuto il fiato mentre infilavo la spina nella presa di corrente: luce! Ma è stata la seconda fila a tradirmi, priva di vita al primo, secondo, terzo e quarto tentativo finché – ormai in preda allo sconforto – mi sono rassegnato al peggio. Incapace di trovare la lampadina fulminata ho raccolto il cavo e sono corso al negozio, sorvegliato a vista dal vicino che si godeva dal balcone il suo imponente Gran Pavese.
Pensavo di cavarmela sostituendo la lampadina rotta ma poiché noi – inteso come noi uomini moderni – non abbiamo tempo da perdere, ho scoperto che bisogna cambiare l'impianto in blocco, anche perché i cavi come il mio li producono a Taiwan e poi li spediscono in Europa a bordo di una nave. Le lampadine di riserva invece no, le tengono per loro.
Non saranno venti euro a mettermi sul lastrico, ho pensato di fronte al commesso un po' impaziente: “Va bene” ho detto. Ho pagato e sono rimasto a gironzolare nel negozio con due cavi in mano, anche quello guasto, senza riuscire a rassegnarmi a gettare tutte quelle lampadine “mute” sapendole buone (tranne una). Restare è stato l'errore che ha fatto del mio sabato un sabato bestiale. Credevo di avere un televisore quasi nuovo ma ho scoperto di tenere in soggiorno un cassone obsoleto che in poco tempo – giura il commesso – sarà inutilizzabile. Credevo di avere una telecamera decente e ho scoperto di essere il triste proprietario di un giocattolo buono al massimo per immortalare i compleanni visto che – tanto per dirne una – registra le immagini sul nastro invece che su un disco rigido. Credevo di avere un computer al passo con i tempi e ho scoperto che l'apparecchio su cui scrivo gli articoli sarebbe in realtà una scatola imbarazzante per cui – giura il commesso – tra un po' non ci saranno nemmeno in giro i programmi (sic!). Per darmi un tono ho tirato fuori il telefonino (nel ramo telecomunicazioni pensavo di andare sul sicuro: fotocamera, telecamera, lettore musicale, scheda di memoria da due giga) ma l'ho rimesso in tasca al volo quando ho visto un ragazzino, avrà avuto sedici anni, tenere in mano il modello successivo che è doppio in tutto, prezzo compreso.
Lì, in quella giungla di cartelli, offerte e concessioni di pagamenti agevolati, confesso di essermi sentito un po' sfigato. Ho iniziato a immaginare la mia nuova vita con un televisore a schermo piatto appeso al muro. Dimenticando che la sera io lavoro mi sono visto fortunato proprietario di un pacchetto di programmi, calcio compreso (che non guardo), per consolarmi con il telecomando in mano di quant'è dura l'esistenza. E se ancora non mi bastasse – lei mi pare un tipo esigente: parola di commesso – potevo sempre accendere l'home theatre, per godermi un film come se fossi in platea (tanto ormai – dice il commesso – al cine chi ci va più?).
Mi sentivo preso in trappola quando dal cesto dei dvd un po' vecchi e superati, quelli in vendita a 9,90 euro, mi è venuto in soccorso quel film del 1999 in cui Brad Pitt, protagonista di Fight Club (non solo un film, un vero inno contro il consumismo) appoggia la birra al tavolo e dice: “Ehi amico, le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Ciao commesso – gli ho detto – devo pensarci sopra un po'. Così sono corso a casa e prima ancora di rispondere al fuoco luminoso del vicino mi sono rivisto – per la terza volta – Surplus, un documentario di Erik Gandini che le televisioni commerciali non trasmettono (perché non trovano nessuna azienda disposta a metterci la pubblicità nelle pause, ma su internet si trova) che spiega perché, soprattutto quando le strade si riempiono di luci e colori, ci coglie l'ossessione del consumo.

P.S. all'inizio di Surplus (che in Google Video è pubblicato integralmente anche se a bassa risoluzione) vedrete molte immagini girate a Genova nel 2001.

03 dicembre 2007

Vittima dell'autovelox

Sono una vittima dell'autovelox di Egna, uno dei 19 mila automobilisti che nel giro di dodici mesi ha versato 2 milioni di euro nelle casse del piccolo Comune, anche se in realtà le 19 mila multe non corrispondono ad altrettanti cittadini: io - ad esempio - sono stato fotografato due volte in pochi giorni. Dopo la seconda multa, essendo una persona civile, ho accantonato il desiderio di prendere a mazzate quell'occhio elettronico che mi scruta quando passo, ho rinunciato a comprare una bomboletta spray per dipingere il mio dissenso sulla facciata del municipio, ho scartato l'idea (che pure mi era sembrata buona) di sfrecciare sulla statale a 140 all'ora con la targa coperta dalla scritta "bye bye sindaco". Ho acceso invece il computer per scrivere una lettera e dire gentilmente ciò che penso al primo cittadino, Alfred Vedovelli. Poiché non mi ha risposto (e poiché ieri non potevo essere assieme ai miei "colleghi" che in segno di protesta sono sfilati, molto lentamente, per le vie di Egna) eccomi qui a lamentarmi.
Prevedo già il moto di ribellione del lettore che giunto a questo punto dirà: «Giornalista, hai sbagliato, paga e fai silenzio». E invece no, la vicenda merita approfondimento. In quel di Egna ci sono due autovelox: uno sulla statale del Brennero (l'incubo di migliaia di automobilisti) e l'altro sulla statale delle Dolomiti (l'incubo mio e di molti altri trentini diretti in val di Fiemme). Parlerò, naturalmente, del secondo. Quel modello Traffiphot installato in centro abitato per verificare che le auto rispettino il limite di 50 all'ora. Ebbene in quel tratto di strada c'è da tempo immemorabile anche un semaforo "intelligente" che dà il via libera alle auto rispettose dei limiti e ferma quelle fuorilegge: quel giorno - è il caso mio - mentre il semaforo mi dava il via libera l'autovelox mi fotografava mentre superavo il limite di un chilometro (all'andata) e di tre chilometri (al ritorno).
Prendere una multa dove si sa che c'è un autovelox è da stupidi. Prenderla per un chilometro in più è da Fantozzi. Prenderla mentre un semaforo ti rassicura sulla tua (presunta) lentezza fa disperare. E così mi sono sentito io quando mi sono arrivate a casa - una dopo l'altra - due lettere verdi con il conto di 96 euro da pagare. Con quei foglietti in mano mi sono rivisto come in un film viaggiare lento, lentissimo, su quella strada che percorro mille volte, con l'occhio incollato alla lancetta fissa sui 50 all'ora, certo che non avrei mai preso la multa. Anche perché non pensavo che ci fosse in giro qualcuno così perfido da tarare l'autovelox per fare le foto a chi supera il limite di un chilometro appena. E invece c'è. A Egna.
Sentendomi stupido ho composto il numero di telefono che c'era sulla multa perché, come tutti i multati, dovevo urlare a qualcuno il mio dissenso. Ero pronto a insultare il mio interlocutore e invece - sorpresa - mi sono scoperto a consolare prima una donna e poi un uomo che hanno avuto la sventura di rispondere al telefono: «La prego di scusarci - mi hanno detto - non siamo noi che decidiamo queste cose, fa tutto il sindaco. Noi gliel'abbiamo detto che tutto questo ci pare esagerato. Telefonate come la sua ne arrivano ogni giorno, non sappiamo più cosa rispondere, se la può consolare sappia che Vedovelli non risponde nemmeno a noi. Tenga conto che è in buona compagnia: stupidi come lei ce ne sono 19 mila». Ah. Io per la cronaca - caro sindaco - ero il numero 13.014 e 14.027 e quello che mi fa rabbia non sono i soldi che ho dato al Comune di Egna e che saranno usati per il terzo autovelox ma la pingue percentuale pagata ai proprietari (privati) della diabolica macchinetta. A Vedovelli due consigli: 1) rispondere alle lettere non è un dovere ma segno di buona educazione; 2) se vuole battere cassa faccia come il doganiere di quel famoso film con Benigni e Troisi: chi siete? cosa portate? sì, ma quanti siete? un fiorino! Almeno ci faremo una risata.

P.S.: si intitolava Non ci resta che piangere.

P.S.: QUI trovate tutto sul famigerato autovelox.

P.S.: dimenticavo, terzo consiglio al sindaco Vedovelli: perché non si dota di questo modello evoluto di autovelox?

29 novembre 2007

Questione di stile

Sono qui che mi concedo una fetta di pane tostato con il miele, leggendo la Repubblica fresca di stampa ed ecco che l'occhio mi cade su un articolo di Alessandra Longo che passando al setaccio le cronache politiche dei giornali locali ha trovato queste perle di eleganza, registrate in consiglio comunale a Padova. Non resisto, prendo la macchina fotografica, le voglio condividere (cliccare sulla foto per vederla ingrandita).

articolo repubblica

26 novembre 2007

I sommelier del latte

sommelier del latteUna nuova categoria di sommelier sta crescendo accanto agli esperti del vino che da anni popolano il Trentino: i degustatori del latte crudo. Si possono trovare, armati di bottiglia a collo largo, a nord della città, preferibilmente la sera quando cala il sole e arriva da Aldeno il furgone carico di un centinaio di litri di latte appena munto. Non basta lo sconto (un euro al litro, quando il latte d'alta qualità ne costa in negozio 1,26) a spiegare perché un padre di famiglia prende l'auto e va in periferia a fare il pieno al distributore automatico. E' più probabilmente una reazione allo scippo dell'industria che per anni ci ha fatto credere che il latte sia un prodotto asettico che chissà come esce dalla centrale finito, inscatolato, sterilizzato e senza grassi. Al distributore invece no: si tratta forse del metodo d'acquisto che più avvicina il consumatore alle mammelle della vacca, ad eccezione della stalla che - diciamo la verità - con il suo odore di letame, lo sporco e d'estate anche le mosche farebbe passare l'entusiasmo anche alla naturalista più convinta.
C'è chi, riempita la bottiglia, assaggia subito il prodotto e nonostante sia gelido per esigenze sanitarie si lascia andare e commenta: «Senti, senti che bontà, è ancora caldo!». E poi, magari, il sommelier del latte si spinge oltre commentando l'aroma delle erbe che, dice, percepisce sul palato assaporando l'alimento (non chiamatelo bevanda).
Non deludete mai un sognatore nel pieno della sua attività, ma se in un giorno di novembre sentite un giudizio del genere ("senti l'erba!") sappiate che è falso perché le mucche stanno nella stalla dalla mattina alla sera e quello che mangiano sa di erba molto, ma molto alla lontana. Di erba, e fieno fragrante ne riparliamo quest'estate.
Al sommelier del latte, mentre misura la quantità di grasso (panna!) che gli resta sul palato, lasciate invece la soddisfazione di sapere, lui sì, che cosa beve: il miglior latte in vendita in Trentino è garantito "made in provincia di Trento". Lui invece sa da che stalla viene, forse ci ha portato i figli in visita, e in fondo gli piace immaginare anche la mucca che l'ha prodotto, sia la Sandra, la Helbe o la Rossella.
Sarà una moda, ma c'è gente che si credeva intollerante al latte (pfui, quell'alimento per poppanti) per poi improvvisarsi bianco sommelier, con l'unica controindicazione di correre al gabinetto alla fine di una degustazione troppo abbondante per un improvviso mal di pancia.
Non chiedete mai all'agricoltore se il suo latte (venduto come mucca l'ha fatto, sebbene raffreddato al volo) sia sicuro: «Ma certo - vi risponderà - non è così che sono stati allevati i nostri nonni?». Dimenticherà però di dirvi, perché ormai non ci pensa più, che i nostri nonni morivano quando non avevano nemmeno settant'anni, più o meno quando noi ora andiamo in pensione, spesso dopo una vita di acciacchi passata a mangiare latte e polenta. Se volete togliervi il dubbio rivolgetevi quindi all'agronomo o al veterinario e vi spiegheranno che se la mucca è sana (e lo è perché viene visitata due volte al mese) non c'è problema, basta consumare il latte quand'è fresco prima che cominci a trasformarsi. Chi non se la sente può bollirlo, ma allora (dopo che sono stati uccisi i fermenti che lo rendono vivo) non ha più senso procurarsi il latte appena munto.
Chissà se i bambini che accompagnano i sommelier del latte a fare il pieno credono che il latte sia il prodotto di un distributore automatico, di certo quando cresceranno si renderanno conto che finché vanno a prenderlo a Trento nord non ci saranno camion che portano latte pastorizzato, sterilizzato, scremato o addirittura liofilizzato dalla Germania o dalla pianura padana a bordo di tir che attraversano le Alpi, avanti e indietro. Non ci saranno tonnellate di plastica, vetro o cartone da raccogliere e (quando va bene) da riciclare, ma soprattutto finché gli allevatori guadagneranno un euro per ogni litro di latte (e non 45 centesimi, o ancora meno, come li pagano le industrie) nelle stalle trentine ci saranno mucche e l'estate i bambini potranno andare sui prati per capire - finalmente - da dove viene il latte.

Post scriptum. Per i lettori più attenti: non è un caso se la fotografia mi ritrae mentre brindo, sebbene con un calice pieno di latte: oggi infatti fuoridalpalazzo! compie un anno. Era il 26 novembre dell'anno scorso quando inviai il primo post con le camper nuove di zecca. Poco è cambiato: oggi ho acquistato i lacci nuovi per le camper (sono lunghi 140 centimetri: una rarità), le ho rimesse in sesto con un po' di lucido per scarpe ed eccole pronte di nuovo per esplorare il mondo. Di suola da consumare ce n'è ancora.
Scrivo molto meno di un anno fa, questo è vero, ma internet è già molto affollata, le idee si perdono, meglio scrivere solo quando si ha qualcosa da dire. In compenso ho messo in evidenza il feed rss, in alto nella colonna di destra, per chi non ha tempo da perdere e vuole collegarsi a fuoridalpalazzo! solo quando ho inviato un nuovo post. Non sai cos'è un feed rss? Dai un'occhiata QUI.
Dimenticavo: grazie per le 49.328 visite!

18 novembre 2007

C'è da spostare il Natale

C'è una consulenza segreta in materia di turismo che giace nei cassetti di albergatori, impiantisti e qualche politico e che nessuno ha avuto il coraggio, ancora, di tirare fuori tant'è scottante quello che ci sta scritto sopra. Si erano rivolti al grande esperto, un tipo famoso che si esprime solo previa compenso dopo una carriera costruita girando il mondo con i soldi pubblici, si erano rivolti a lui per chiedergli come risolvere la scottante situazione che vede i turisti del Natale prendere l'aereo e volare a poco prezzo in Egitto o in Tunisia per salutare il freddo proprio quando si fa più pungente. "Lui ci dirà - pensarono - come venirne fuori".
E il responso arrivò, puntuale, contenuto in un tomo di 500 pagine che come (quasi) tutte le prestigiose consulenze dicevano cose che (quasi) tutti già sapevano: "Abbiamo sconfessato i profeti delle catastrofi climatiche facendoci la neve in casa" esordiva il luminare. "Abbiamo rimediato alle corte giornate invernali installando sulle piste l'illuminazione artificiale, abbiamo spianato le piste da sci dove i turisti si lamentavano perché c'erano troppe gobbe. Quando ci siamo accorti che la velocità era aumentata abbiamo montato chilometri di reti rosse per evitare che gli sciatori volassero fuori pista (per poi chiedere i danni) e abbiamo costruito bar con musica e alcolici ad ogni cambio di pendenza per non lasciare mai soli i nostri ospiti. Volevano le saune finlandesi e li abbiamo accontentati, volevano il bagno turco e abbiamo deciso di adeguarci, volevano le gite in motoslitta anche di notte e ci siamo fatti trovare pronti, volevano sciare dalla mattina a sera senza mai ripetere nemmeno una volta la stessa pista e per rendere possibile questo sogno abbiamo tirato le funi degli impianti da una vallata all'altra del comprensorio dolomitico. Ma tutto questo pare non basti perché senza la neve, quella vera che scende dal cielo e rende magico il paesaggio, proprio quella che i profeti del meteo annunciano sempre più rara sotto i 2 mila metri di quota i turisti storcono il naso e tentennano.
Leggendo queste righe i committenti furono presi dallo sconforto: tutte cose già note, dette e ripetute, senza uno straccio di soluzione per risolvere il problema. Così saltarono alle conclusioni dove scoprirono che il problema vero era il Natale, questo periodo cupo - almeno su in montagna - con le giornate più corte dell'anno, il termometro in picchiata e troppe feste concentrate in pochi giorni, tra Natale, Santo Stefano, San Silvestro e la Befana: uno spreco intollerabile in tempi magri come quelli in cui viviamo. Senza contare che la neve - scherzo del destino o per chi crede nella scienza: processione equinoziale - tarda sempre più, facendosi vedere quando le feste sono ormai passate. Insomma, concludeva l'espertone, se si potesse spostare il Natale a febbraio, mese ideale per le vacanze con il sole che tramonta tardi la sera, le cime coperte di abbondante coltre bianca e l'aria già più tiepida, sarebbe molto più facile convincere i turisti a trascorrere le feste su in montagna.
Essendo un tipo previdente il consulente metteva già le mani avanti: non si creda che sia poi questo grande scandalo: ci siamo ormai abituati a spostare la lancetta avanti di un'ora per risparmiare energia elettrica, non ci vorrà nulla a mettersi tutti d'accordo e istituire oltre all'ora legale anche il Natale legale con data 25 febbraio o giù di lì. E ancora: che saranno mai duemila anni di tradizione di fronte alle sorti del turismo invernale che mantiene tante persone? Tanto più - conclude lo studio - che un rapido sondaggio ci informa che la maggior parte dei giovani non conosce più l'origine della festa natalizia, quindi una data vale l'altra e febbraio sarebbe un mese assai gradito, soprattutto per le donne, sempre così freddolose.
I committenti si guardarono - qualcuno in realtà un po' tentato - e decisero che di cambiare posto al Natale in realtà non se la sentivano. Non erano abituati a fermarsi di fronte a proposte originali, il progresso non si arresta, ma il super-esperto li trovò comunque spiazzati. Il Natale per quest'anno resta il 25 dicembre, l'anno prossimo chissà, lo si vedrà.

10 novembre 2007

Piede pesante

 bmw k100rs 16v
Leggo che un signore di 83 anni è stato fotografato sull'autostrada A4 mentre correva a 257 all'ora al volante di una Porsche: "Mi manca la sensibilità all'arto inferiore destro, così mi capita di avere il piede un po' pesante" ha detto agli agenti quando si è presentato per confessare il suo misfatto, un po' zoppicante, con un bastone per aiutarsi a camminare. La notizia non mi stupisce affatto: di nonnini semi-infermi che sfrecciano sulle autostrade italiane sono pieni i verbali della polizia stradale. Vengono tutti puniti con grande severità: via i punti dalla patente, se serve gliela sospendono pure.
Anche mia nonna - quand'era ancora in vita - amava molto correre ma non con l'auto (troppo facile!) bensì su due ruote: nella foto qui sopra vedete una fotografia del contachilometri della mia ex motocicletta (l'ultima, non la penultima che non ho mai dimenticato) scattata a quasi 200 all'ora sulla statale della Valsugana. Erano bei tempi quelli, poi ho deciso di venderla pubblicando questo annuncio e ora la velocità massima che mi capita di raggiungere con il vento tra i capelli è questa. Ma quando avrò 83 anni (e prima o poi li avrò, almeno spero, con o senza Porsche) mi toglierò anch'io la soddisfazione di presentarmi alla polizia stradale e dire con grande faccia tosta: "Eccomi qui, sono io il grande pilota". I miei nipoti me ne saranno grati.

06 novembre 2007

L'inceneritore domestico

scarpe camper sulla legnaHo un inceneritore in casa e nemmeno lo sapevo. L'ho scoperto l'altro giorno guardando il telegiornale regionale quando, con un occhio al cielo nuvoloso e l'altro al termometro in picchiata già mi preparavo a “stizar”, cioè ad attizzare il fuoco anche se il termine italiano non rende l'idea delle sensazioni che stanno dietro il semplice gesto di accendere la stufa. Sullo schermo c'era un assessore della provincia di Bolzano che spiegava come le stufe a legna siano tra le principali fonti di polveri sottili, di non bruciare cartacce o altri rifiuti perché producono – orrore! – diossina, di andarci piano con la legna verde e di chiamare lo spazzacamino per tenere in ordine la canna fumaria.
Dico la verità: ho avuto una reazione di protesta. Già ci hanno tolto il piacere di friggere nel burro perché i grassi animali ci tappano le arterie, già ci hanno levato la soddisfazione di ubriacarci con la grappa distillata in cantina perché l'alcol domestico è velenoso, se ci spengono anche la stufa o il caminetto che ci resta? In anticipo sui tempi ne avevano già parlato – proprio sulle pagine del Trentino – Mauro Marcantoni e Mauro Colaone: il primo lanciando l'allarme contro le “fornelle” che affumicano i paesi di montagna, il secondo prendendo le difese del riscaldamento a legna moderno e quindi pulito. Mentre alimento l'inceneritore che ho installato qui in soggiorno chiarirò da che parte sto. Questo pezzo di faggio che ora infilerò nella mia stufa danese (e tutti i suoi fratelli che si seccano in terrazza) per l'ambiente ha già fatto molto quando era un albero, assorbendo l'anidride carbonica presente in atmosfera. Ora brucerà, liberando in cielo molecole di Co2, ma non farà altro che pareggiare il conto: non date la colpa a lui se aumentano i gas serra. Inoltre finché ci sarà qualcuno che andrà a tagliare faggi e abeti nei boschi trentini (che sono la metà del territorio provinciale) state sicuri che la montagna resterà, come si dice, coltivata. E le polveri? Legna molto secca, stufe moderne, una certa dose di esperienza per limitare il fumo al momento fatidico dell'accensione, camini efficienti, nel caso di grossi impianti metteteci pure un filtro, aiuteranno a ridurre il fenomeno. Ma sono ben altri i motivi per cui dedico alla mia stufa il pezzo domenicale. Chi si scalda a legna – come il macchinista che gettava palate di carbone nella locomotiva a vapore – ha un'idea piuttosto precisa di quanto costi l'energia. Chi tra di noi sa cosa sono esattamente mille metri cubi di gas metano? Chi sa da dove vengono? Quando leggo il contatore immagino vagamente un'enorme caverna sotto le steppe della Russia e un tubo lunghissimo che arriva fino a casa mia con il rubinetto distante, purtroppo, migliaia di chilometri (anche se facciamo finta che i padroni siamo noi). La legna invece no: ci metto tre giorni ad impilarla d'autunno, la guardo mentre si contorce sotto il sole, la porto in casa quand'è secca, la infilo un pezzo alla volta nella stufa e poi me ne sto lì a guardare la fabbrica del calore mentre lavora a pieno regime liberando un buon profumo. So che ci sono dei filmati in cui si vede un fuoco che arde nel caminetto. Non mi risulta che ne abbiano prodotti, invece, con la fiammella blu del metano come protagonista: un motivo ci sarà. Nei giorni più freddi di gennaio salgo le scale due o tre volte al giorno con il cestone in mano e guardo – preoccupato – la pila che scende a vista d'occhio. Allora invece di girare distrattamente la manopola del termostato ci infiliamo un maglione e chi ha più freddo si fa sotto la stufa, quasi l'abbraccia: tra le sue forme tonde e un termosifone spigoloso non ho dubbi.
Ma quel telegiornale non l'ho guardato invano: delle emissioni del mio inceneritore mi voglio far carico quindi sono salito al piano superiore e da una finestrella aperta sul tetto ho dato un'occhiata ai camini. Bisogna essere onesti: quello del gas era come nuovo, quello della stufa nero come il carbone. Allora ho telefonato in Comune per chiedere i numeri degli spazzacamini, me ne hanno dati una decina e li ho chiamati tutti: la maggior parte aveva cambiato mestiere, gli unici due rimasti avevano un buco libero a novembre e un altro a dicembre. Domani andrò all'Obi a comprare uno spazzolone telescopico, quindi mi infilerò l'imbrago da montagna e farò da me. Male che vada avrò una disavventura da raccontare una delle prossime domeniche.

P.S. nel frattempo mi sono cimentato come spazzacamino... e qui potete vedere il RISULTATO.

28 ottobre 2007

Il computer di Coelho

Il mondo è diventato la mia casa
e il mio computer è la sua porta
attraverso cui le parole scorrono
come i fili che uso per tessere i miei libri.
E' dove le email nutrono il mio blog
come il fiume nutre il mare,
dove le fotografie possono immortalare un attimo.
Il mio computer è un mulino
dove posso interagire
oppure controllare i risultati del calcio
E' la mia finestra verso il mondo...



Non credevo che avrei mai messo fuoridalpalazzo una pubblicità. E invece eccola qui. L'ho vista poco fa alla televisione e l'ho voluta pubblicare subito sul blog perché il computer di Paulo Coelho è proprio come il mio computer. Anche se il mio non è un Hp.

P.S.: ci sono spot pubblicitari che superano di gran lunga i programmi che interrompono. Questo - a mio parere - è uno di quelli.

27 ottobre 2007

Un'ora sola (io) vorrei...

ora legaleC'erano anni in cui l'annuncio di riportare le lancette un'ora indietro evocava notti prolungate (possibilmente tempestose) da godere a letto preferibilmente consapevoli, nel dormiveglia mattutino, del caldo regalo guadagnato in primavera quando quell'ora andò sacrificata.
Di quell'ora ognuno fa ciò che vuole: i bimbi ignari non se n'accorgeranno, i ragazzini apriranno gli occhi di buon mattino e si gireranno (per una volta) dall'altra parte soddisfatti, gli innamorati godranno un'ora d'amore che sembrerà (ahimé) un minuto, i viventi della notte faranno l'alba attraversando in un baleno la notte più lunga dell'anno mentre i macchinisti del treno, fermi sul binario morto di una piccola stazione, priva di bar e servizi igienici, malediranno la sorte che fa cadere sempre il loro nome in quel turno maledetto che prevede sessanta minuti d'attesa prima che venga l'ora di (ri)partire.
Si potrebbe giocare - in una notte come questa - ad inventare la macchina del tempo, togliendo le pile all'orologio per vivere un'ora che in realtà non è mai esistita, magari per trascorrerla al telefono con una persona lontana per ascoltare insieme vecchie canzoni. E invece no: andremo a letto all'ora solita e senza accorgerci che il tempo si è fermato ci sveglieremo all'alba (anzi, un'ora prima) quando il piccolo demonio, che ancora degli orologi non ha capito l'utilità, guarderà dalla finestra e deciderà (come dargli torto?) che giunta è l'ora di giocare perché sono le cinque del mattino (altro che dormire!).
Giochi, sesso, carezze chiacchiere o sane dormite: qualunque uso si faccia di quest'ora regalata, tutti possiamo riflettere sulla possibilità artificiosa - ma reale - di fermare il tempo che fugge implacabile tenendo ferme le lancette con un dito, seduti sulla poltrona più comoda che c'è in soggiorno.
Come quella vecchia di montagna (che poi era mia nonna) abituata a vivere in una stanza dove l'unico cambiamento giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese era l'inclinazione del sole che attraverso le tende misurava tempo e stagioni. Un pomeriggio di novembre - noi soli - ascoltavamo alla televisione notizie di stragi, attentati, crisi economiche e politiche. Lei si alzò dalla sedia, fece due passi malfermi e con un mezzo sorriso tolse la corrente elettrica all'apparecchio: "Spengo la televisione - disse - guardo dalla finestra e so che nulla è mai accaduto".

21 ottobre 2007

L'invidia della busta paga

Busta paga, oggetto del mistero che cambia di mese in mese in base a una mole di parametri, tanto che è molto difficile trovarne una uguale all'altra e fare confronti. Ma tutte hanno in comune la proprietà di lasciare insoddisfatti i proprietari, secondo una legge non scritta (ma pienamente dimostrata) che mi enunciò una volta un avvocato da quattro soldi che avrebbe avuto maggior fortuna come psicologo: "I soldi, caro mio, danno assuefazione. Che tu prenda dieci, cento o mille è a quel livello che fisserai il livello minimo di sopravvivenza, anche il giorno successivo al tuo ultimo aumento. E se ti capiterà, un giorno, di fare un salto indietro ti sentirai, insopportabilmente, un poveraccio".
Ci pensavo l'altro giorno sfogliando le pagine di un settimanale che ha dedicato la copertina ai salari degli italiani. In questa corsa al rialzo, che non ammette scivoloni, ci sono i poveri veri che giustamente si lamentano perché con 900 euro al mese non riescono a pagare l'affitto di 600 euro e saldare il conto al supermarket. Ma si lamenta l'impiegato da 1.300 euro al mese che si è dovuto comprare a rate l'ultimo modello di telefonino, non sorride il funzionario da 2.000 euro che senza lo stipendio della moglie (part-time) non ce la farebbe e bisogna comprendere, infine, il medico disperato perché un mutuo da 2 mila euro per la sua villa in collina è cosa che gli toglie il sonno anche se ogni mese l'azienda sanitaria gliene versa più del doppio.
La busta paga è relativa. Così l'amministratore di una società pubblico-privata che ogni tanto mi offre un caffè (so quanto guadagna e non faccio nemmeno il gesto di tirare fuori il portafogli) dovrebbe essere soddisfatto dei 100 mila euro che si aggiungono ogni anno al suo stipendio di professionista. E invece si angoscia perché in giro per l'Italia quelli come lui - tutti a capo di società in perdita - prendono almeno il dieci, venti per cento in più: "Ma ti par giusto?".
Chi vi scrive è sottopagato (ovvio!) e raccoglie di tanto in tanto le confidenze di un padre di famiglia che ha il conto in banca in rosso per pagare al figlio l'affitto in una grande città e le rate dell'università privata: "E' l'unico modo al giorno d'oggi per assicurare a un giovane il futuro". E chi non ha i soldi per mantenere i figli nemmeno alle professionali? Fatti loro.
Ci fu un periodo - un paio d'anni fa - in cui ero molto corteggiato perché sul mio computer custodivo (legalmente) un file enorme con i redditi di tutti i trentini. I guadagni dei ricconi finirono sul giornale, ma ai trentini - stupiti, un po' ammirati, forse scandalizzati di fronte ai redditi da capogiro - interessavano in realtà i guadagni del vicino di casa, di sua moglie o del vecchio compagno di scuola che non erano entrati nell'hit parade. Per questo amici e conoscenti mi telefonavano, con fare un po' carbonaro, e mi chiedevano: "Guarda un po' quanto guadagna il Roberto T....". Fu in quel periodo che maturai un corollario da abbinare alla legge dell'insoddisfazione sulla busta paga: "L'importante è guadagnare un po' di più di chi ti sta vicino".
Avevo iniziato con l'avvocaticchio (così lo chiamano i colleghi, ma io non sono d'accordo) che teorizzava l'assuefazione del denaro e voglio concludere con lui e il metodo che adottò per non restarne schiavo: stabilì che avrebbe lasciato ad altri di lavorare il sabato, la domenica e la sera dopo le sette perché il tempo così guadagnato era una cosa che con i soldi non avrebbe potuto mai comprare. Lo incontrate talvolta a spasso per la città, è quello con la borsa un po' lisa ma - almeno lui - non si lamenta.

15 ottobre 2007

Emergenze domestiche

Altro che Icef, frane dolomitiche, studenti ubriachi e sacerdoti gay. Ci sono momenti nella vita in cui tutto passa in secondo piano per affrontare un'emergenza vera, che pretende attenzione ed energie per essere superata senza danno: abbiamo un topo in casa. L'abbiamo scoperto l'altro giorno quando prendendo un sacchetto di pasta dalla soffitta che usiamo come dispensa ci siamo accorti che era un po' troppo leggero e che sul fondo c'era un buchetto rosicchiato con perizia. Ognuno ha il topo che si merita: il nostro è un topo buongustaio perché si è mangiato due pacchi di De Cecco ignorando la Barilla. Ma questi suoi gusti raffinati non basteranno a farlo salvo. Così dopo un rapido consulto (erano anni che tra amici non si discuteva su un tema con tanta passione e diversità di opinioni) sono corso in quel negozio di via Rosmini (dove già mi ero rivolto quando avevo problemi di formiche) per confessare tutta la mia angoscia: «Aiuto! Ho un topo in casa!». Tranquillo - mi ha risposto il giovanotto che stava dietro il banco - sapesse quanti ne arrivano qui agitati come lei. E mi ha guidato vicino a uno scaffale dove c'era tutto quello di cui avevo bisogno. Da un rapido esame degli escrementi (senza bisogno di inviare campioni al Ris di Parma per il test del Dna) abbiamo stabilito che il mio topo è un topolino di campagna e va quindi avvelenato, visto che la mia è una casa di città. Ma prima di passare all'azione mi sono voluto togliere un dubbio: «Scusa tanto, ma come ci è arrivato un topolino in una soffitta al quarto piano per di più senz'ascensore?». Signore mio - è stata la risposta - non c'è nulla di cui stupirsi, lo sa che c'è gente che ha visto i topi arrampicarsi su muri verticali come se fossero lucertole? Quando si tratta di caccia - l'ho capito perfino io - il confine con la leggenda si fa sempre più sottile.
Chi crede che avvelenare un topo sia un compito facile farà bene a leggere oltre. Primo: non bisogna toccare le esche con le dita altrimenti il topo - che ha il cervello piccolo ma non è stupido - diffiderà e continuerà a mangiare la pasta. Secondo, bisogna stare attenti che nessun altro in casa - animali domestici o bambini - faccia la fine che vogliamo fare al topo. Risolti questi due problemi ho piazzato due esche ai lati opposti della soffitta e me ne sono andato a letto. Verso le tre di notte - colto da un presentimento - sono corso in soffitta per scoprire che il veleno era scomparso. Ovvio - si dirà - c'era il topo. Ma le sparizioni fanno comunque un po' impressione. Sono tornato a letto pensando: ora morirà. E senza riuscire a prendere sonno immaginavo quel topo colto da inspiegabili (per lui) emorragie interne cadere stecchito tra le tegole del tetto cercando all'aperto un impossibile sollievo alla sensazione di soffocamento provocata dal veleno. E poi - dicono le istruzioni - finirà mummificato: potenza della chimica, povero topino.
Il giorno successivo mi sono alzato e giusto per scrupolo ho piazzato un'altra esca e un'altra ancora. A mezzogiorno ho verificato che cosa stava accadendo lì dentro (sempre per scrupolo) e ho scoperto - orrore - che erano sparite un'altra volta. Altra esca: sparita. Altra esca: sparita. Così, in preda all'ansia, sono corso al negozio e senza mezzi termini mi sono lamentato: «Il mio topo mi sta prendendo per il culo, prende il veleno ma non muore». Dopo un breve consulto (durante il quale il topino di campagna è diventato un ratto, vista la facilità con cui trasporta i sacchettini velenosi) abbiamo capito qual era il problema: dopo essersi abbuffato di pasta al grano duro quel topo maledetto sta facendo scorte per l'inverno. Porta il veleno nella tana e credendolo una leccornia lo tiene da parte perché è un tipo previdente. Quindi morirà - forse - durante il cenone di Natale. Per il momento me lo tengo e penso con rimpianto a tutte le volte che ho scacciato il gatto dei vicini che veniva a fare la pipì sul gelsomino della mia terrazza e - stanco di essere preso a male parole - non si è fatto più vedere. Un gatto in casa, credetemi, non serve solo a fare le fusa. Ma queste sono saggezze che abbiamo ormai dimenticato.

11 ottobre 2007

Predicatori inaffidabili

Dubita di chi predicando bene razzola male: motto ingenuo ma veritiero. Così dovremmo dubitare del Comune che invita le mamme a usare i pannolini lavabili (rispettosi dell'ambiente e soprattutto dei cassonetti dei rifiuti) ma lascia che negli asili comunali si accumulino tonnellate di Pampers usa e getta. Nessuna madre si scandalizzerà per questo, conoscendo bene il fenomeno pannolini che non è opportuno, per ragioni di eleganza, affrontare in questo pezzo. Ma è solo l'ultimo esempio di una lunga serie di inviti destinati a cadere nel vuoto.
Ci dicono che per il bene del pianeta non dobbiamo usare l'auto (meglio il treno) e poi costruiscono gallerie e strade a quattro corsie che portano fiumi di veicoli in città mortificando i binari ferroviari. E come se non bastasse - credendo di fare un favore ai residenti - i consiglieri d'amministrazione dell'Autobrennero annunciano sconti ai pendolari che usano l'auto ogni giorno per andare al lavoro. Chi va in treno o in autobus, invece, paghi tranquillo.
Ci dicono di usare i parcheggi di attestamento ai margini della città e poi - quando il servizio navetta comincia a funzionare - ci fanno pagare il prezzo del biglietto. Prezzo simbolico - hanno spiegato, ed è vero - ma chi intasa la città viaggiando sulla sua vettura lo può fare gratis e a piacimento con la speranza di trovare un posto auto visto che stiamo scavando il sottosuolo in varie zone per trovare spazio alle vetture.
Ci dicono di privilegiare i prodotti trentini e poi scopriamo (anzi l'hanno scoperto i cavatori della valle di Cembra con le lacrime agli occhi) che per rifare l'ingresso di uno dei suoi palazzi più importanti la Provincia autonoma di Trento - regno del porfido - ha usato porfido cinese.
Ci dicono di abbassare di un grado o due il termostato e se abbiamo freddo di metterci il maglione. Ma quando siamo andati a controllare la temperatura negli uffici - termometro alla mano - abbiamo scoperto che ai dipendenti pubblici piace il clima tropicale. Anche a gennaio.
Ci dicono che l'acqua del sindaco è buona, anzi ottima, meglio delle acque minerali in bottiglia, ma quando la chiediamo al ristorante ci squadrano come se fossimo dei pezzenti. Su questo la Provincia ha varato una campagna informativa ma quando politici, professori, oratori e via dicendo si ritrovano a convegno sul tavolo hanno sempre una fila di bottiglie d'acqua industriale. A differenza del porfido, quella almeno è trentina.
Ci dicono che stanno studiando il modo di far conciliare famiglia e carriera a chi lavora negli uffici. Peccato che quando le madri fortunate lasciano la scrivania e corrono all'asilo aziendale a prendere il bambino entri in azione una donna molto meno fortunata a svuotare il cestino, una che lavora metà di giorno e metà di notte, che ha un contratto fino a Natale (ma non prende i soldi da quest'estate).
Ci insegnano che è meglio fare vacanze sostenibili - magari in bicicletta - mentre i politici volano in gruppo a studiare le abitudini degli indiani. La sera tutti a dormire nell'albergo occidentale, uguale a quello che c'è a Parigi, Londra e New York.
Ci dicono di spegnere la lucetta della televisione perché messi tutti assieme quei pallini rossi fanno girare le turbine delle centrali elettriche. Ma quando passiamo in via Rosmini in piena notte restiamo abbagliati dai fari della facoltà di Giurisprudenza che illuminano a giorno il palazzo di Mario Botta.
Ci dicono di salire le scale a piedi: fa bene a noi e fa bene anche all'ambiente. Ma quando ci facciamo indicare le scale di un grande palazzo l'usciere perplesso punta il dito verso una porticina d'acciaio grigia (con la scritta "emergenza") che nasconde una serie di rampe deserte e impolverate dove una donna sola avrebbe paura ad avventurarsi.
Ci dicono tante cose, c'è chi le ha chiamate "cose giuste" e ormai sono di gran moda. Mi sono venute in mente l'altro ieri quando mi è arrivata una lettera per annunciare il ritorno della fiera dedicata a queste azioni: ci sarà la folla tra il 2 e il 4 novembre nei padiglioni di Trento Fiere per la rassegna "Fai la cosa giusta". Sarebbe bello se tra la gente che con grande entusiasmo razzola bene ci fosse anche qualche politico di ritorno da un volo transcontinentale.

30 settembre 2007

Il nonno di Heidi

Può capitare che due genitori fuori moda e fuori dal tempo facciano vedere Heidi al loro figliolo, invece di Nemo o Winnie the Pooh, perché quel cartone animato d'altri tempi non l'hanno mai dimenticato.
Può capitare che un bambino di due anni, a forza di guardare Heidi, immagini un mondo fantastico dove i monti sorridono, le caprette fanno ciao e d'inverno si va a scuola con la slitta.
Può capitare che in un sabato d'autunno i due genitori fuori moda carichino in auto il piccolo pastore promettendogli una giornata memorabile perché andranno in montagna a vedere Heidi, Peter, il nonno di Heidi, le mucche e le caprette che scendono a valle dopo un'estate trascorsa in cima ai monti.
Può capitare infine che il piccolo, di fronte a tale promessa, si addormenti felice sognando i campanacci delle mucche e si risvegli ai margini di un prato di montagna, in mezzo a una piccola folla di turisti, mentre giunge da lontano (ma sempre più vicino) l'inconfondibile "din-don" che annuncia l'arrivo di una mandria. Ed è lì - mentre le mucche sfilano chiassose agghindate a festa con i fiori colorati appesi attorno al collo - che un grido acuto attira l'attenzione del pubblico che smette, ma solo per un attimo, di pigiare i pulsanti delle macchine fotografiche: "Nonno Heidiiiiii!". I turisti ridono (c'è ancora qualcuno che crede alle favole) e si chiedono chi possa essere quel nonno invocato a pieni polmoni da un bambino di città.
La sfilata continua. Ci sono le vacche bianche del passo San Pellegrino che ondeggiano come ballerine di cabaret con una gigantesca stella alpina appesa sopra il capo. Ecco le mucche della provincia autonoma di Trento con lo stemma dell'aquila agganciato in mezzo agli occhi, quelle di Agordo con enormi campanacci che risuonano potenti nella piana di Falcade. Ma il piccolo cittadino non si arrende (è troppo giovane, ancora non sa cosa sia lo scherno) e richiama l'attenzione su un vecchio che là in fondo (perché nessuno l'ha notato?) accompagna le sue bestie bilanciando il peso sugli scarponi da montagna stretti nei lacci rossi: "Nonno Heidiiiiiiii!". I turisti lagunari, giunti in quota la mattina e decisi a tornare a casa prima che cominci il campionato, si danno di gomito: Heidi, chi se la ricorda più? Ma lui no, il vecchio dell'Alpe, prende sul serio quel richiamo, affida le bestie al suo giovane pastore e si avvicina alla folla con quegli scarponi dalla suola grossa, la camicia pesante a scacchi e il cappello di lana cotta verde, proprio quello che fa storcere il naso alle cameriere del bar giù in paese quando si presenta a bere un bicchiere. Ma oggi no, questo è il suo giorno e il vecchio con quella sua barba bianca (è proprio lui!) si fa largo tra la gente per vedere chi lo chiama. Ed è in quel preciso istante che da là sotto, in mezzo a tutte quelle gambe, parte il terzo richiamo ancora più disperato: "Nonno Heidiiiiiii". Allora lui, il vecchio dell'Alpe, proprio quello che in città raccontava le storie di montagna dipinto sullo schermo del computer, solleva quel bambino biondo come se fosse un agnellino e se lo prende in braccio: "Ciao - gli dice - vuoi salire sulle mucche?". Il piccolo è dubbioso, non dice più nulla, fa di no con la testa, troppe emozioni, bisogna pur tenersi qualcosa per la prossima volta, studia il nonno di Heidi come se lo vedesse per la prima volta, lo guarda fisso negli occhi rugosi, è questione di un attimo, appena il tempo di scattare QUESTA FOTO.

16 settembre 2007

Il piccolo demonio

Ogni albergo, ristorante, bar o pizzeria che si rispetti ha la coppia con figli che fa passare la voglia di avere figli alle coppie che figli ancora non ne hanno. La settimana scorsa all'hotel Hohe Gaisl noi eravamo quella coppia.
Quello che è andato in scena è uno spettacolo già visto di cui conosco il copione in ogni sua variante. Sua maestà il piccolo playboy - l'attore protagonista di questa commedia di cui è autore, regista, sceneggiatore e soprattutto tecnico del suono - si è presentato sul palco dell'albergo altoatesino indossando il suo costume preferito, quei pantaloni di cuoio tirolesi che gli sono valsi subito le simpatie del numeroso pubblico tedesco. Capelli biondi, occhi azzurri, guance rosse è stato accolto da complimenti e sorrisi compiacenti, con quella strana luce che ho imparato a leggere negli occhi delle donne e che su per giù vuol dire nostalgia (se sono troppo vecchie), insofferenza (se sono troppo giovani) o grandi aspettative (se hanno l'età giusta).
Per farla breve il grande show è iniziato all'ora di cena quando il piccolo è salito in piedi sulla sedia con una fetta di speck in mano per farla ammirare a tutti prima di non mangiarla. Oh che bel bambino, si è lasciata scappare una che avrebbe avuto l'età giusta ma era lì con il marito sbagliato, ignara di quello che stava per accadere.
Noi invece sapevamo, e attenti ad evitare guai peggiori (tipo che tirasse l'acqua alla cameriera, colpevole di avergli portato un bicchiere con i manici a lui che ormai è grande e vuole bere a canna) l'abbiamo lasciato libero di scorazzare dalla sala da pranzo all'angolo dei giochi al grido di Heidi, Peter, nonno, caprette, beee, muuuu e din don fa la campana.
Senza trovare complici nei figli dei tedeschi, il piccolo playboy ha continuato lo show snobbando il cibo (mangiare: che gran perdita di tempo) e quel bicchierone di latte che una cameriera premurosa gli aveva portato nel tentativo disperato di calmarlo, probabilmente dopo averci messo una dose di valium di propria iniziativa.
All'improvviso, durante una delle sue incursioni fra i tavoli più appartati, il piccolo demonio è riuscito nella sua specialità: inciampare nelle fughe fra una piastrella e l'altra cadendo a testa in giù, tenendo le manine dietro la schiena per non rovinare l'eleganza del suo volo. Ho sentito il toc della fronte che batteva contro la pietra e ho iniziato il conto alla rovescia per capire quando sarebbe arrivato lo strillo, puntuale come un tuono dopo il fulmine. Ci avrà messo tre o quattro secondi, roba da grandi occasioni, ma infine è arrivato: un acuto lancinante che ha riempito le volte della sala gotica abituate a chiacchiere sommesse.
Un signore dall'aspetto distinto mi ha preceduto nel soccorso rassicurandomi: tranquillo, sono un medico. Ma io l'ho zittito al volo: tranquillo sarà lei, io sono il padre. E ho buttato lì la mia diagnosi: tutta scena, lo conosco, non ha niente. Il piccolo ha sentito gli occhi su di sé e si è giocato le sue ultime carte in un esaltante gran finale: ha chiamato nonna una signora che ci è rimasta molto male (facendo sbellicare dalle risate i suoi amici), ha tirato giù una tovaglia con i piatti che c'erano sopra nel tentativo (fallito) di non cadere un'altra volta e infine si è esibito nella colonna sonora dei tre porcellini cantandola a "miao miao" come solo lui sa fare. La cena è finita quando la proprietaria di un giovane labrador ha lasciato la sala con il marito sotto braccio e lo sguardo di chi pensa: caro, per fortuna noi abbiamo un cane.
Noi invece ci siamo raccolti il figlioletto e ce lo siamo portati in camera dove è crollato esausto. E' stato lì che nel cuore della notte, quando nell'albergo si sentiva solo il ronzio della caldaia e qualche scarico d'acqua lontano, quando anche il titolare aveva spento la luce e in cucina regnava il silenzio più assoluto, è stato in quel momento che un grido ha squarciato l'oscurità totale dei duemila metri di quota, più forte della sirena anti incendio di quell'edificio costruito interamente in legno. Era lui, in piedi sul letto, il volto contratto e i pugni stretti che urlava a pieni polmoni: laaaaatte!

11 settembre 2007

I volti di mille bambini

C'è un posto in città dove ci sono le foto di quasi mille bimbi appese alle pareti. Chi apre la porta incontra una cornice in vetro con una ventina di piccoli che sorridono all'obiettivo. Lungo il corridoio eccone un'altra, un'altra e un'altra ancora, ciascuna piena di fotografie felici. Chi ha la pazienza di entrare in una stanzetta separata scopre dieci nuovi quadri con duecento piccole fotografie di bimbi sorridenti che guardano il visitatore, alcune con il nome e la data scritti sopra. Quel posto è il reparto di ginecologia dell'ospedale Santa Chiara ma questa storia rende meglio se lo si chiama - come una volta - il reparto di maternità.
Cominciò una madre, vent'anni fa, a portare alle ostetriche una foto di suo figlio per ringraziarle di averla aiutata a mettere al mondo il bimbo. Saranno stati gli anni Ottanta, nessuno lì dentro se lo ricorda più, ma quella foto ne ha chiamate tante altre e l'altro giorno mi sono tolto lo sfizio di contarle: sono quasi mille. E altre ancora attendono in un cassetto di essere appese.
Per l'infanzia sono tempi cupi. Le foto di bambini evocano notizie di abusi, denunce, sequestri di computer e arresti. Può capitare addirittura che un padre debba chiedere il permesso per filmare il proprio bimbo all'asilo o a scuola mentre gioca con i compagni, non sia mai che gli altri genitori non siano d'accordo. Ma lì dentro no: nel reparto di maternità dell'ospedale Santa Chiara i bimbi sorridono sereni e non c'è privacy che impedisca di osservare - ammirati - i bimbi altrui.
Sono soprattutto gli uomini a guardare quelle foto e i motivi sono due. Primo: le donne lì dentro hanno molto altro da fare che stare sul corridoio a passeggiare avanti e indietro. Secondo: gli uomini scoprono solo all'ultimo momento che al mondo esistono anche i bambini, quando ormai è ora di occuparsene. Così devono recuperare il tempo perduto e con l'occhio attento dello scienziato scoprono da quelle foto come sarà la loro vita.
Ci sono i bimbi più piccoli sdraiati sul fasciatoio con lo sguardo perso nel vuoto, quelli più grandi fotografati al mare con la paletta e il secchiello, ci sono i fratelli maggiori con lo sguardo smarrito e preoccupato che tengono stretti gli ultimi arrivati (perché così gli hanno detto di fare), ci sono le foto di Natale con i bambini sotto l'albero (alcuni vestiti da babbo natale, poveretti) e c'è una foto che fa tirare un sospiro di sollievo a tutti gli altri genitori che ingannano l'attesa davanti a quella galleria: è quella in cui ci sono cinque bimbi identici, seduti l'uno accanto all'altro su un divano in cui da quando sono nati non c'è più posto per nessuno.
In quelle foto si legge una realtà trentina fatta di gite in montagna e compleanni festeggiati in giardino. Nelle immagini degli ultimi anni c'è anche qualche bambino colorato, con la madre che ha voluto partecipare all'usanza collettiva come per dire: eccoci qui. E a tutti quelli che pensano che sia il mondo esterno (e non i geni) a fare di una persona ciò che è, consiglio di guardare negli occhi quei bambini che a pochi mesi d'età, senz'aver visto il mondo, hanno già una storia da raccontare. La mia foto lì dentro non c'è (perché sono nato altrove e comunque all'epoca non c'era quest'abitudine) ma non mi dispiacerebbe che ci fosse per raccontare assieme a tutte le altre immagini la storia della nostra città.
Quella galleria di mille foto al terzo piano dell'ospedale Santa Chiara mi aveva già colpito a tempo debito, quando fu il mio turno di presentarmi - padre trafelato - in quel reparto. Sono tornato lì dentro l'altro giorno. Provenivo da un reparto in cui si muore, dov'ero andato per motivi di lavoro, e volevo tirarmi su il morale con una visita nel posto in cui si nasce: funziona.
Nessuno ha avuto niente da ridire quando mi sono messo a contare le foto senza riuscire a trattenere, di fronte a qualche immagine, una risata. Confesso che ho barato: non sono ancora mille, per fare cifra tonda ne mancano almeno un centinaio. Così sono uscito di là determinato a portare al più presto alle ostetriche una delle nostre foto di famiglia, per contribuire a far crescere in città quella gigantesca galleria dove la privacy non esiste e i bimbi ridono felici.

04 settembre 2007

Ecco come farla franca

scarpe camper sul luogo del delittoConosco un investigatore che per deformazione professionale immagina sempre che farebbe se fosse coinvolto - come assassino - in un caso di omicidio. Il caso Cogne era il suo preferito, ma con i gialli estivi che si sono ripetuti in questi giorni - ragazze morte, coppie torturate e infine uccise, corpi trovati nel bosco dentro un sacco - ha avuto un bel da fare a ricostruire scene del delitto, alibi e moventi. E io mi sono prestato volentieri a fare la sua spalla, così, se mai mi capiterà di essere nei guai, saprò come venirne fuori. Per dire la verità lavora in un ufficio e le indagini le conosce - quindi - dai giornali, ma ha molto tempo per ragionare sulle tecniche investigative tanto che ha elaborato un manuale che qui riporto ad uso di chi ha (o prima o poi avrà) la coscienza sporca. E per chi obietta che in questo modo si aiutano i colpevoli a farla franca dico quello che mi dice sempre lui, l'inquirente: «Tra noi e loro è una sfida, dobbiamo prenderli ma non possiamo negargli il diritto sacrosanto di fuggire».
E allora ecco i punti deboli su cui cadono gli assassini. Al primo posto c'è il telefono cellulare che può essere utile a molti scopi. Da quell'apparecchio si capisce con chi avete parlato (quando e per quanto tempo), a chi avete spedito i vostri messaggi, dove siete stati e dove siete in questo momento (sempre che il telefono sia acceso) con un'approssimazione di poche centinaia di metri: se siete dispersi e sperate che qualcuno vi ritrovi un telefono acceso in tasca può tornare molto comodo, ma se siete in fuga liberatevi subito dell'apparecchio senza illudervi che basti cambiare scheda.
Vengono poi le telecamere. Le rapine in banca in questo caso non c'entrano: guardatevi le spalle mentre lasciate la scena del delitto e passate sotto il raggio d'azione della piccola telecamera di un negozio, oppure mentre imboccate l'autostrada sicuri che nessuno vi osservi: una volta - proprio qui in Trentino - hanno arrestato un giovane che aveva appena ucciso la fidanzata a Brescia e l'aveva trasportata nella piana Rotaliana. Gli hanno chiesto: «Dov'eri?». «A casa» ha detto lui, ma è diventato pallido quando gli hanno mostrato il video di una telecamera in autostrada che riprendeva la sua Volvo in viaggio verso nord.
Facciamo finta che su di voi abbiano forti sospetti, tanto che vi hanno già arrestati e portati in caserma per interrogarvi, ma guarda caso vi trattano con i guanti di velluto tanto da mettervi tranquilli in una stanza a parlare con grande discrezione con il vostro complice (hanno beccato pure lui). Tanta gentilezza vi sorprende? Osservazione giusta: probabilmente quel locale è pieno di microfoni, fossi in voi starei zitto senza provare a comunicare a gesti perché da qualche parte hanno nascosto anche una telecamera. Se sequestrano il vostro computer siete nei guai: se siete tipi tecnologici lì dentro troveranno l'intera vostra vita, compresa quella che credevate di avere cancellato gettandola nel cestino.
Denaro. Per un fuggiasco prelevare soldi con il bancomat o con la carta di credito equivale a dire: «Sono qui, venite a prendermi» tanto vale tentare una rapina in banca, anche perché la vostra tessera sicuramente l'avranno già bloccata.
Attenzione infine ai parenti: è tenendo d'occhio i familiari che gli investigatori contano - prima o poi - di acciuffare un latitante. Così arrestarono Peter Paul Rainer - l'altoatesino condannato per omicidio - quando i genitori andarono a trovarlo per le feste nel suo rifugio di Vienna. L'altro famoso latitante altoatesino - Max Leitner, soprannominato il re delle evasioni - non commise lo stesso errore, ma rimase vittima della voglia di casa del suo compagno di fuga meridionale che dall'Africa telefonò in Sicilia per gli auguri di Natale. Presi.
L'ultima cosa che mi insegna sempre il mio amico piedipiatti è che se dopo 48 ore dalla scoperta del delitto non vi hanno ancora incastrato siete salvi: le probabilità scendono quasi a zero. Dice così - e sospira - perché lui è uno che dava la caccia ai criminali ai vecchi tempi, quando il Dna era roba da medici e non da poliziotti, e un po' rimpiange i tempi in cui invece delle tecnologie si usava il fiuto.

02 settembre 2007

I conquistatori del Piz Boè

ingorgo in alta quotaSe ti piace la folla, se non ti danno fastidio l'odore di sudore e gli schiamazzi, se il rumore dei motori a fondovalle per te è una musica, se consideri il tempo passato in coda un'occasione per riposarti, allora sali ai 3.152 metri del Piz Boè in una domenica d'agosto: troverai tremila persone (per la maggior parte arrivate con la vicina funivia del Sass Pordoi) che hanno avuto la stessa, fantastica, idea. Poi incolonnati sul sentiero che ti riporterà a valle, dove avrai lasciato l'auto nell'immenso parcheggio del passo Pordoi e torna a casa soddisfatto per aver vissuto un'esperienza forte: la montagna usa e getta, quella che le agenzie turistiche propongono a chi non ha tempo per una settimana sulle Dolomiti ma deve concentrare in sette giorni Venezia, Riva del Garda, Innsbruck, il Mart di Rovereto e se la stagione è quella giusta - tappa d'obbligo - i mercatini di Natale. Se invece tutto questo ti rende un po' triste, sali lassù di lunedì, magari anche in funivia (che in fondo è una gran comodità) e bevendo un the caldo sulla terrazza della Capanna Fassa scoprirai un'altra montagna.

P.S. le foto dell'escursione sulla montagna usa e getta sono state pubblicate nella galleria del mio giornale a questo indirizzo: ingorgo a 3 mila metri di quota

30 agosto 2007

Il bagno dolomitico

wc d'alta quotaEra da un po' che non trovavo un bagno degno di una recensione, ma l'altro giorno ai 3.152 metri del Piz Boè (Dolomiti), non ho saputo resistere. Ho seguito il cartello vicino al rifugio con la scritta "wc", sono sceso lungo un ripido sentiero e sono entrato in un bagno cinque stelle, almeno per essere in cima a un monte: una finestra affacciata a valle con un panorama fantastico, ambiente arieggiato (perché alla finestra non ci sono vetri), grande pulizia senza nemmeno tirare l'acqua (lo scarico si affaccia direttamente sul burrone), nessun cattivo odore. Peccato non ci fosse la carta igienica ma chi fa caso a queste sottigliezze a tremila metri di quota? Il bagno dolomitico, con i suoi ancoraggi alla roccia per impedire che il vento se lo porti via e il laghetto azzurro a valle, mi ha conquistato. Ma poiché ho una predilezione per i bagni biblioteca, ho sofferto un po' per la mancanza di libri o giornali per ingannare il tempo lì dentro. Così al lettore escursionista consiglio una lettura che mi pare adeguata alla situazione da mettere nello zaino e tirare fuori al momento giusto: La morte sospesa.

Per chi fosse - giustamente - curioso: l'interno del bagno e la finestra panoramica.

26 agosto 2007

La coda comunista

E' in giornate come questa, dette dell'esodo, che il signor Luigi G. si alza di buon mattino, con l'umore ai massimi livelli, si infila la tuta da lavoro e sale con la moglie sull'auto che lo porterà al suo distributore di benzina: lui alle pompe del carburante, lei dietro il bancone del mini-bar, quello che per l'automobilista è l'inferno per loro è il paradiso. Poiché il signor Luigi G., avendo il distributore poco distante dalla casa in cui trascorro le vacanze, è anche amico mio, ecco a voi in esclusiva il suo pensiero sulle code e sui rientri dalle ferie, materia in cui vista l'esperienza è un grande intenditore: “Prima di tutto – spiega – guardo al portafoglio e so che per coprire la stessa distanza un'auto in coda consuma più di un'auto in corsa, quindi alla pista libera preferisco la colonna ma ho smesso da anni di sentirmi in colpa: chi è causa del suo mal pianga sé stesso e chi si mette in viaggio il pomeriggio di domenica per rientrare al lavoro il lunedì sa a cosa va incontro. Di buono c'è che le code sono democratiche, anzi comuniste: quando comincia a formarsi la colonna d'auto c'è qualche disperato che rischia tutto per guadagnare qualche posizione ma poi si ritrovano tutti fermi lì, uno dietro l'altro, quelli con l'utilitaria carica di nonni e nipoti e quelli che viaggiano in due sull'ammiraglia, anche se mi è sempre rimasto il dubbio che i ricchi veri stiano fuori da questi giri. Poiché vendo benzina (e non posti letto) per me vanno bene anche i camperisti che hanno il serbatoio grande ma presto o tardi passano da me. Poi ci sono i motociclisti: esposti alla pioggia e alle cadute quando c'è la coda mettono la freccia e si prendono la rivincita, tutti tranne i tedeschi che – non li ho mai capiti – restano in fila come se fossero sull'auto. C'è la coda dell'esodo e quella della domenica che si forma la mattina e compare puntuale quand'è sera. Una volta – lo confesso – riempivo un serbatoio dopo l'altro ma un po' ci restavo male: poveri turisti, pensavo, quanti sacrifici devono fare per respirare un po' d'aria buona. Ma anno dopo anno mi sono accorto che a stare in coda sono sempre gli stessi, rassegnati, come se la colonna fosse il male minore. Uno di Milano un giorno mi ha spiegato che queste code dolomitiche sono cose da dilettanti, quasi una vacanza rispetto alle colonne da professionisti che sopporta ogni giorno in tangenziale. Quello di Mestre – lì vicino – faceva di sì con la testa. Dico la verità li capisco poco: fanno il conto al minuto del tempo che trascorrono in ufficio ma dimenticano di calcolare le ore che passano chiusi in auto. Ma i turisti del ferragosto alle code hanno fatto l'abitudine: stanno in coda durante la salita della ferrata (ma è gente di mondo, attaccati al cordino colgono l'occasione per chiacchierare di fondi, azioni e obbligazioni), giunti al rifugio si mettono in coda per la grappa e quand'è ora di tornare, poiché sono stanchi, si mettono in fila per scendere a valle in funivia.
Da un paio d'anni a questa parte sembrava fosse arrivata la rivoluzione: i professionisti della coda tengono in auto il navigatore satellitare che dovrebbe insegnare qual è la strada giusta, quella più corta, quella più veloce e – udite, udite – qual è il percorso alternativo in caso di ingorgo oppure di incidente: so di gente con il camper gigante che si è trovata intrappolata nella strettoia tra due fienili di montagna credendo di aver trovato la scorciatoia giusta”.
Mi pare di vederlo, Luigi G., mentre riempie di benzina le auto dell'esodo con la moglie dietro il banco a macinare caffè. E mi pare di vederlo domani, quando la montagna sarà semi-deserta, il cielo sereno (perché anche il tempo ci prende gusto a sbeffeggiare le masse) intento a girare il cartello di metallo all'ingresso del suo piccolo distributore (lui ha ancora quei vecchi cartelli rumorosi e mezzi arrugginiti) finché si vedrà la scritta chiuso. “Perché – questa è la sua teoria – passo la domenica a servire i turisti ma il vero signore sono io quando il lunedì mattina, passata l'invasione dei vacanzieri, mi prendo il lusso di mettermi di riposo”.

22 agosto 2007

Palloni gonfiati

Scrivo da una località di montagna per avvisare i lettori di una minaccia che quest'anno, più che mai, rischia di rovinare la vacanza a chi sogna il silenzio, la natura e le tradizioni delle Dolomiti. Scriverò dei parchi giochi, ma non di quegli innocui giardini con lo scivolo, l'altalena e la buca della sabbia a cui abbiamo fatto l'abitudine. No, qui si tratta di immense navi dei pirati e di giganteschi scivoli gonfiabili, alti come una casetta di due piani, che spiccano nel verde dei prati con i loro colori rosa, giallo e blu. Nel paese in cui abitiamo ce n'è uno che esibisce all'ingresso la seguente referenza: “Il più grande parco giochi gonfiabili delle Dolomiti”. Niente meno.
All'inizio ci sembrò una gran fortuna, quella di avere una tale attrazione dietro casa, dove parcheggiare il piccolo e passare un pomeriggio in libertà al prezzo popolare di quattro euro e cinquanta. Ci siamo cascati come polli: quei giganteschi palloni, forse studiati da psicologi dell'età evolutiva per fare colpo sui piccoli turisti, sono diventati il nostro incubo e la parola “giochi” è la colonna sonora della nostra vacanza, urlata con tonalità e intensità diverse a seconda del momento. Giorno dopo giorno guardo con odio l'improvvisato Mangiafuoco all'ingresso del suo baraccone. Forse dovrei chiamarlo pifferaio per l'abilità con cui incanta i suoi giovanissimi clienti e in realtà anche qualche madre: mi chiedo se ha fatto un corso per essere così efficace nel conquistare gli ospiti che varcano la sua soglia e – da quell'istante – fanno di tutto per tornarci. Sono arrivato a sospettare che sia tutta colpa delle caramelle – drogate? - che tiene in un cestino nella casetta in cui stacca i biglietti mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera e notte perché il più grande parco giochi delle Dolomiti non chiude mai e per evitare capricci disperati siamo giunti a cambiare il nostro percorso abituale, prolungando la strada di un paio di chilometri, per arrivare a casa dal retro senza passare di fronte al paese dei balocchi.
Basta, mi son detto, siamo qui per goderci le montagne e non quattro palloni gonfiati: domani si sale in quota. Detto fatto: attraversando un paesino dopo l'altro al grido di “giochi! giochi! giochi!” perché non c'è ormai più località turistica degna di questo nome priva del gigantesco scivolo gonfiabile, siamo giunti ai piedi di un pascolo. “Giù dall'auto – ho ordinato alla mia truppa – si va a a scoprire da dove viene il latte che beviamo la mattina”. C'erano le mucche, le capre, qualche gallina e un paio di maiali ma ugualmente dallo zaino porta-bimbo che tenevo sulle spalle ho udito un urlo lancinante: “Giochi!”. C'erano veramente – dietro il rifugio – un castello delle fate e una casetta di Biancaneve tenuti in piedi da un motorino ronzante che pompava aria a tutto spiano.
“Più su, più su, dobbiamo andare più su” ho ordinato disperato, incamminandomi lungo un sentiero che ricordavo a malapena ma – non avevo dubbi – ci avrebbe portato sulle montagne vere lasciando a valle l'incubo dei giochi.
Un'ora di cammino in salita, a lato di un minuscolo ruscello, tra le tracce di qualche invisibile capriolo (a Ferragosto soffrono la folla e vanno in vacanza pure loro), ci ha portati in cima ad un versante. Ancora pochi passi e saremmo stati lassù, a tu per tu con le pareti pallide di roccia con i segni neri lasciati dalla pioggia e i ghiaioni frantumati l'inverno dai ghiacci. Avrei voluto dire: “Signore e signori, ecco a voi le Dolomiti” invece per prudenza mi sono trattenuto, subito preceduto da mio figlio che dalle mie spalle, in posizione dominante, ha avvistato l'oggetto del desiderio e stanco di caprette e stelle alpine ha cacciato l'urlo più soddisfatto che mai sia risuonato in quelle valli amplificato dall'eco delle rocce: “Giochiiiii!”.
Quando si perde è saggio ammettere la sconfitta: sono qui a 2.000 metri che digito questo articolo sul telefonino, seduto su una panca assieme ad altri padri orgogliosi – saliti in quota in seggiovia - che fotografano e riprendono i loro bambini mentre saltano felici nella pancia di un'enorme Civetta di plastica viola che nasconde alla vista la Civetta vera, fatta di roccia bianca. Che i bambini siano felici non mi sorprende, quel che mi preoccupa è che lo siano i loro padri.

12 agosto 2007

C'era una volta l'autostop

autostop con le scarpe camperC'era una volta l'autostop, l'attività di chi alza il pollice a lato della strada per chiedere un passaggio. Ci sono tre motivi per fare l'autostop: necessità, voglia d'avventura o sensibilità ambientalista. Poiché un'auto ce l'ho e le avventure un po' mi spaventano è sempre stato per evitare di muovere invano una vettura che mi sono trovato sul marciapiede, con il pollice fuori, sfidando le frecciate di familiari e amici che consideravano il gesto poco dignitoso.
A salire sulle auto altrui si imparano tante cose. Avevo sedici anni quando scoprii che c'è gente che va in giro apposta per dare passaggi ai ragazzini. E non è questione di altruismo. Ne avevo venti quando - sul sedile posteriore di una Mercedes, con un grosso pastore maremmano che mi annusava le parti intime, tale Max - mi resi conto che per i proprietari di cani contano più i quattrozampe dei bipedi che chiedono un passaggio. Ne avrò avuti ventidue quando imparai, in anticipo sui tempi, che l'olfatto dei genitori di un bambino di due anni si disattiva per consentire il viaggio anche quando il piccolo ha il pannolino pieno. Il mio invece funzionava benissimo. A ventitré anni, all'interno di un grosso fuoristrada, mi stupii di come il silenzio di una coppia sposata possa diventare, chilometro dopo chilometro, più violento di una sfuriata.
Ma il passaggio che mai dimenticherò lo chiesi - e ottenni - quando ormai avevo trent'anni. Ero a Pergine, sulla statale della Valsugana, vicino all'officina di un mago dei motori a cui avevo affidato la mia motocicletta. Stavo lì con il casco in mano e il pollice destro fuori (già da qualche decina di minuti a dire la verità) quando sentii in lontananza il rombo di un motore. Mantenni il dito esposto, quasi per distrazione, mentre il pilota scalava le marce e il frastuono in avvicinamento diminuiva: era una moto da corsa.
«Dio mio fa che non si fermi» pensai. Si fermò. Dagli occhi spiritati che mi guardavano sotto la visiera scura del casco intesi che il centauro era un ragazzo: «Dove vai?» mi chiese. Volevo dire Berlino e invece mi venne fuori Trento. «Metti il casco e salta su» mi ordinò, indicandomi uno spoiler in plastica rossa che copriva quel quadratino che una volta era la sella. Inutile discutere: siamo o non siamo motociclisti? Mi arrampicai lì dietro e mi aggrappai in qualche modo al serbatoio: non entro nei dettagli, chi ha moto come quella conosce la sofferenza (nel mio caso anche l'imbarazzo) a cui è sottoposto il passeggero. Per farla breve - e fu breve veramente - partimmo a razzo verso il capoluogo. Voleva insegnarmi come si guidano le moto. Arrivati alla galleria dei Crozi mi sentii salvo perché una corsia era chiusa e le macchine viaggiavano lente in colonna. Niente da fare, Valentino Rossi fece sbandare il bolide sulla destra e infilò l'area del cantiere come farebbe l'autista di un autobus nella sua corsia preferenziale. Due minuti dopo eravamo alle porte della città. Indicai una piazzola distante cinque chilometri da casa mia: «Fermo qui, sono arrivato». Lo guardai partire impennando, con una consapevolezza nuova: il vero autostoppista è quello che sa quand'è il momento di ritirare il pollice.
Con gli anni i tempi d'attesa sul marciapiede si sono allungati: c'è qualcosa di sospetto in un uomo maturo fermo a lato della strada. Così invece di chiedere passaggi ho cominciato a darli. Le occasioni sono poche, perché gli autostoppisti sono diventati una rarità (colpa del benessere ma anche di certi film e leggende che non aiutano ad avere fiducia nel prossimo) ma io comunque seleziono: carico a bordo quelli che penso mi possano raccontare qualcosa che non so, per lo più ragazze perché - sono convinto - chiacchierano di più. Così l'altro giorno mi sono fermato nel piazzale dove c'era una giovane con lo zaino: «Sali pure» le ho detto. Doveva tornare a casa, in un paese dieci chilometri più avanti. Mi chiedevo di cosa avremmo potuto parlare in dieci minuti di strada quando sentii un brusio intermittente alla mia destra, proveniente dalle cuffiette che si era infilata nelle orecchie.
C'era una volta l'autostop.

08 agosto 2007

Aut min ric

Signore e signori questa non è pubblicità, questa non è nemmeno informazione, questa è arte: provate - se ci riuscite - a recitare trenta parole nel giro di tre secondi e capirete la bravura dello speaker che per anni ci ha avvisato che i farmaci pubblicizzati alla radio o alla televisione potevano essere nocivi per la salute. Parlo al passato perché quei messaggi superveloci non li ascolteremo più. Questa soluzione all'italiana, in pratica uno sberleffo delle potenti case farmaceutiche allo Stato che pretendeva un'informazione corretta per i cittadini, l'abbiamo sentita per anni alla televisione e alla radio, dove il tempo si misura in euro al secondo e il messaggio obbligatorio per legge veniva compresso al limite della comprensibilità. Chiedetemi la pubblicità di un farmaco e non vi saprò rispondere, ma le speedy avvertenze mi hanno sempre fatto impazzire, come le note scritte in piccolo nelle pubblicità dei mutui bancari: comicità pura. Ebbene, le speedy avvertenze non le sentiremo più, proibite da un decreto legge che vorrebbe tutelare i cittadini. Protesto: così ci tolgono un pezzo della colonna sonora dei nostri tempi, compreso quell'aut.min.ric. che ho voluto mettere nel titolo. Non sono riuscito a trovare una registrazione di quelle trenta parole compresse in tre secondi, così le incollo qui sotto perché - mi sono accorto - fanno un certo effetto anche da scritte. Caro lettore di questo blog, al momento di assumere un farmaco ricorda: prima dell'uso leggere attentamente le avvertenze può avere effetti collaterali non somministrare ai bambini sotto i dodici anni in caso di problemi consultare il medico.
Oh yes!

06 agosto 2007

Cadono vipere dal cielo

Sono le nove del mattino, praticamente l’alba, quando mi chiama al telefono una vecchia fonte per regalarmi lo scoop del secolo. Stai attento, mi dice, perché questa che sto per raccontarti è una bomba, giocatela bene e ricordati di me. In tre minuti mi spiega che nei giorni scorsi in un supermercato di Predazzo una madre che faceva la spesa ha perso di vista il figlio, ma essendo una tipa svelta ha fatto bloccare le uscite del negozio prima che i rapitori potessero portare via il bambino. Il finale già lo sapevo: pochi minuti dopo la donna ha trovato il figlio nel bagno del supermercato, con i capelli tinti, assieme a due nomadi che gli stavano cambiando i vestiti. Proprio come era successo sei mesi fa a Pergine, l’anno scorso a Rovereto e chissà quante altre volte tanto che quando gli ho raccontato del mio scoop mancato il collega P. mi ha risposto: «Ma sei sicuro che sia una bufala? Verificala bene perché è successa la stessa cosa all’amica di una mia amica spagnola e la notizia era finita su tutti i giornali».
I giornali spagnoli non li leggo, ma conosco le leggende metropolitane. Come quella andata in scena l’altro giorno in Sicilia della zingara che avvolge i bambini nella sua grande gonna e li porta via come se nulla fosse. Vittima dei pregiudizi della gente una rumena che chiedeva l’elemosina sulla spiaggia è finita in carcere senza nemmeno sapere perché. L’ha liberata il giudice, dopo una notte in cella, quando l’ha guardata e ha visto che la sottana che indossava non aveva stoffa a sufficienza per imprigionare uno di quei bambini che in spiaggia non stanno fermi un attimo. Né tantomeno zitti. Chissà se i bagnanti che l’accusavano le hanno almeno chiesto scusa.
Leggende. Erano gli anni del motorino, c’era da poco l’obbligo del casco e noi ragazzini per dimostrare che eravamo esperti raccontavamo di quel tale che era caduto con la moto e si era alzato illeso: stava lì in piedi sull’asfalto a togliere la polvere dal giubbotto quando gli venne la malaugurata idea di togliersi il casco. Appena levato l’elmetto il cranio gli si aprì in due, giusto a metà, e cadde sulla strada come un’anguria rotta. La storia la sapevamo a memoria ma ogni volta ci scappava un grido di stupore. Il mio amico L. giurava che era vera perché quel tale era un amico di suo fratello.
Altre leggende. Il cow-boy che faceva la pubblicità alle Marlboro è morto di cancro ai polmoni (il collega G. dice che è vera); nel lago di Cei c’è un luccio grande come un pescecane che nessuno è mai riuscito a prendere e ormai dovrebbe avere su per giù cent’anni; se andate in America Latina e vi vogliono vendere un cagnolino diffidate perché probabilmente è un topo; se invece provano a rifilarvi un tronchetto della felicità occhio ai ragni della morte che sono nascosti tra le foglie; a New York state alla larga dalle fogne perché ci sono i coccodrilli, ma non c’è da stupirsi perché ne hanno visto uno anche nel Garda. E se dopo una serata in discoteca la ragazza che avete rimorchiato vi chiede di portarla al cimitero non contrariatela (e soprattutto evitate di baciarla) perché è il fantasma di una giovane morta un sabato sera di dieci anni prima.
Alle leggende ci ho fatto l’abitudine - non ho più paura di ritrovarmi in un fosso mezzo nudo, con una cicatrice sulla schiena dove una volta c’era un rene - ma sono riuscito ancora a emozionarmi l’altro giorno quando un lettore infuriato ha preso il telefono e ha chiamato il giornale: «Scusi lei è un giornalista d’assalto?». Faccio del mio meglio, gli ho risposto. «Bene, allora scriva che è ora di finirla Nei boschi dietro casa mia è pieno di vipere, tutta colpa di quei maledetti Verdi». Perché? gli ho chiesto incuriosito. «Roba da non credere. Le mettono in un sacco e quando è pieno salgono sull’elicottero e le lanciano sulle montagne dove i rettili si erano estinti». Sarebbe stato lo scoop dell’estate, se solo fosse vero.

31 luglio 2007

La nuvola che mi perseguita

Dicono i meteorologi tedeschi che la nuvoletta di Fantozzi esiste perché - statistiche alla mano - piove di più durante il finesettimana, quando in giro è pieno di impiegati, mentre il lunedì, quand'è ora di rientrare in ufficio, torna il sole. Io lo sapevo già.
Con la mia nuvoletta personale ho iniziato a fare i conti quando durante un viaggio in bicicletta, in Austria, mi ritrovai sotto la neve in pantaloncini corti. Era il 20 luglio. Il giorno dopo fu di scarsa consolazione trovare sui giornali le foto delle mucche sui pascoli innevati, testimonianza di un fatto eccezionale. In Sardegna - protetto da un maglione sventolante - mi scoprii solo su una spiaggia battuta dal Maestrale. In Grecia - dove non piove mai - viaggiai in moto per 400 chilometri sotto la pioggia, con i baristi e i benzinai che mi guardavano increduli e dispiaciuti ad ogni sosta assicurandomi che lì, veramente, non era mai piovuto. Era giugno.
Per non avere sorprese andai in Sicilia in agosto, ma scoprii che avevo esagerato e mi rifugiai in cima all'Etna alla ricerca di un po' di refrigerio. In Svizzera incontrai le condizioni ideali: cielo terso, sole splendente, temperatura 20 gradi, peccato fosse febbraio e avessi gli sci ai piedi. Per contrasto l'anno successivo puntai sulla Norvegia - maggio - dove finanziai l'economia locale acquistando maglioni per tutta la famiglia. Quando riportammo il camper il noleggiatore si stupì perché avevamo esaurito le scorte di gas per il riscaldamento: "Durante le vacanze estive non era mai successo" disse perplesso. Alzai gli occhi al cielo e mi parve di vedere un ghigno della mia nuvola privata. Ma era solo l'ultimo lampo prima della fine delle vacanze. Il giorno dopo c'era il sole e tornai in redazione.
Così quest'anno, nel tentativo di depistare la nuvoletta che da lassù mi segue ovunque, sono andato negli uffici di Meteotrentino e ho chiesto: «Dove sbaglio?». Hanno allargato le braccia e hanno risposto: «Se lo sapessimo avremmo risolto i nostri problemi». Là in fondo, appeso alla parete, c'era un articolo del mio giornale con un albergatore che minacciava di portare in tribunale i meteorologi: "Prevedono il brutto tempo così i turisti scappano e poi invece c'è il sole". Non ha capito, quell'uomo, che il sole splende in montagna solo finché i vacanzieri trattengono le nuvole in città. Ma una sua vittoria l'albergatore l'ha ottenuta perché agli esperti del meteo è arrivata una velata raccomandazione dai piani alti del palazzo: abbiamo capito che il tempo fa ciò che vuole, almeno voi andateci piano.
Così - nel tentativo impossibile di aiutare noi Fantozzi - stanno studiando un modello di previsione a lungo periodo per dire che tempo farà tra un mese. E' da questa primavera che fanno le prove e già stanno riducendo l'obiettivo a due o tre settimane ma il mio consiglio ai previsori meteo è di spararla grossa e a lungo termine: la gente non si ricorderà più la profezia del mese precedente, lo dico per esperienza scrivendo ogni giorno sul giornale.
Nella mia breve chiacchierata in quella sala operativa piena di isobare, isotermiche, venti e depressioni ho imparato le regole base che inducono noi mediterranei ad andare in ferie ad agosto: "E' difficile che ci sia pioggia per più giorni di seguito. Temporali sì, ma lunghe precipitazioni no". Lo pensavo anch'io l'anno scorso, proprio in agosto, ma aspettai due settimane, invano, il giorno giusto per fare una scalata. Essere Fantozzi del meteo è una grande scocciatura, ma in fondo son vacanze non bisogna farsi l'animo cattivo. Pensate se fosse, invece, il vostro lavoro. Così prima di uscire dall'ufficio mi sono tolto la soddisfazione di chiedere al professionista: «Ma oggi (non fra un mese) che tempo farà?». Risposta: «Lo vedi il cielo azzurro? Pare bello e invece nel pomeriggio pioverà, ci sono tutte le condizioni». Me ne sono uscito con una certezza in tasca e non ci ho pensato più. Solo a sera, camminando verso casa sulla strada secca e polverosa, guardando le stelle in cielo, mi sono ricordato della pioggia. Caro lettore, il meteorologo lo faccio io: da ferragosto sono via due settimane, quindi cielo coperto e precipitazioni sparse.

20 luglio 2007

Presto, mi porti alla stazione!

Selva nel taxi ambulanza con le scarpe camperE' una vita che quel Selva mi perseguita, fin da piccolo quando alle scuole elementari la maestra faceva l'appello nominale - per cognome, perché erano altri tempi - e diceva: Selva? Presente. E i compagni in coro: Gustavo! (ah! ah! ah!). Poi sono cresciuto e ho deciso di fare il giornalista, così può capitare che mi presenti alla gente in questo modo: buongiorno, sono Selva, giornalista... Risposta: Gustavo? (ah! ah! ah!). Per un certo periodo ero diventato anch'io Gustavo, così per ridere, tra colleghi, prima di essere soprannominato Ezio (per motivi che non sto qui a spiegare, ma presto o tardi lo farò). Insomma son cresciuto all'ombra di Gustavo e con il tempo ho fatto l'abitudine al curioso di turno che mi chiedeva: siete parenti? (ah! ah! ah!).
Ma qui su internet ho trovato la mia rivincita perché Google - che sa misurare ciò che davvero conta (ah! ah! ah!) - riconosceva me, prima di Gustavo, come il Selva giornalista. Provare per credere, digitando le parole "Selva" e "giornalista". Tutto questo finché Gustavo non ha avuto la trovata di farsi dare un passaggio in ambulanza per raggiungere in tempo uno studio televisivo. Un vero genio, devo ammetterlo: mi ha superato in un sol balzo nella classifica del motore di ricerca, relegandomi nuovamente nell'oscurità. Però per quel gesto - mi dicevo - Gustavo pagherà, riceverà palate di fango in volto (ah! ah! ah!), dovrà dimettersi e tornare a casa a piedi. Insomma, povero illuso, ero convinto di essermi liberato di Gustavo finché l'altro giorno è successo l'incredibile: "Resto - ha detto il grande Selva - perché la gente me lo chiede e perché il Parlamento orfano del mio voto sarebbe un Parlamento più favorevole a Prodi", omettendo spudoratamente di spiegare che a sostituire Gustavo sarebbe stato, per legge, un altro che la pensa e vota come lui.
Insomma in quest'Italia di impuniti ho deciso che potevo osare anch'io, Andrea Selva. Nella canicola trentina mi sono sentito male, ho portato le mani al petto, ho fatto la faccia dolorante, mi sono allentato la cravatta (che non porto) e con un filo di voce ho detto: chiamate un'ambulanza. Poi sono salito a bordo, mi sono messo comodo sul lettino e con l'autorità tipica di noi Selva ho ordinato all'autista: presto, mi porti alla stazione che mi scappa il treno per Berlino. Un vecchio trucco da giornalista, sono stato geniale anch'io, confido che Google se ne accorgerà (ah! ah! ah!).