30 agosto 2007

Il bagno dolomitico

wc d'alta quotaEra da un po' che non trovavo un bagno degno di una recensione, ma l'altro giorno ai 3.152 metri del Piz Boè (Dolomiti), non ho saputo resistere. Ho seguito il cartello vicino al rifugio con la scritta "wc", sono sceso lungo un ripido sentiero e sono entrato in un bagno cinque stelle, almeno per essere in cima a un monte: una finestra affacciata a valle con un panorama fantastico, ambiente arieggiato (perché alla finestra non ci sono vetri), grande pulizia senza nemmeno tirare l'acqua (lo scarico si affaccia direttamente sul burrone), nessun cattivo odore. Peccato non ci fosse la carta igienica ma chi fa caso a queste sottigliezze a tremila metri di quota? Il bagno dolomitico, con i suoi ancoraggi alla roccia per impedire che il vento se lo porti via e il laghetto azzurro a valle, mi ha conquistato. Ma poiché ho una predilezione per i bagni biblioteca, ho sofferto un po' per la mancanza di libri o giornali per ingannare il tempo lì dentro. Così al lettore escursionista consiglio una lettura che mi pare adeguata alla situazione da mettere nello zaino e tirare fuori al momento giusto: La morte sospesa.

Per chi fosse - giustamente - curioso: l'interno del bagno e la finestra panoramica.

26 agosto 2007

La coda comunista

E' in giornate come questa, dette dell'esodo, che il signor Luigi G. si alza di buon mattino, con l'umore ai massimi livelli, si infila la tuta da lavoro e sale con la moglie sull'auto che lo porterà al suo distributore di benzina: lui alle pompe del carburante, lei dietro il bancone del mini-bar, quello che per l'automobilista è l'inferno per loro è il paradiso. Poiché il signor Luigi G., avendo il distributore poco distante dalla casa in cui trascorro le vacanze, è anche amico mio, ecco a voi in esclusiva il suo pensiero sulle code e sui rientri dalle ferie, materia in cui vista l'esperienza è un grande intenditore: “Prima di tutto – spiega – guardo al portafoglio e so che per coprire la stessa distanza un'auto in coda consuma più di un'auto in corsa, quindi alla pista libera preferisco la colonna ma ho smesso da anni di sentirmi in colpa: chi è causa del suo mal pianga sé stesso e chi si mette in viaggio il pomeriggio di domenica per rientrare al lavoro il lunedì sa a cosa va incontro. Di buono c'è che le code sono democratiche, anzi comuniste: quando comincia a formarsi la colonna d'auto c'è qualche disperato che rischia tutto per guadagnare qualche posizione ma poi si ritrovano tutti fermi lì, uno dietro l'altro, quelli con l'utilitaria carica di nonni e nipoti e quelli che viaggiano in due sull'ammiraglia, anche se mi è sempre rimasto il dubbio che i ricchi veri stiano fuori da questi giri. Poiché vendo benzina (e non posti letto) per me vanno bene anche i camperisti che hanno il serbatoio grande ma presto o tardi passano da me. Poi ci sono i motociclisti: esposti alla pioggia e alle cadute quando c'è la coda mettono la freccia e si prendono la rivincita, tutti tranne i tedeschi che – non li ho mai capiti – restano in fila come se fossero sull'auto. C'è la coda dell'esodo e quella della domenica che si forma la mattina e compare puntuale quand'è sera. Una volta – lo confesso – riempivo un serbatoio dopo l'altro ma un po' ci restavo male: poveri turisti, pensavo, quanti sacrifici devono fare per respirare un po' d'aria buona. Ma anno dopo anno mi sono accorto che a stare in coda sono sempre gli stessi, rassegnati, come se la colonna fosse il male minore. Uno di Milano un giorno mi ha spiegato che queste code dolomitiche sono cose da dilettanti, quasi una vacanza rispetto alle colonne da professionisti che sopporta ogni giorno in tangenziale. Quello di Mestre – lì vicino – faceva di sì con la testa. Dico la verità li capisco poco: fanno il conto al minuto del tempo che trascorrono in ufficio ma dimenticano di calcolare le ore che passano chiusi in auto. Ma i turisti del ferragosto alle code hanno fatto l'abitudine: stanno in coda durante la salita della ferrata (ma è gente di mondo, attaccati al cordino colgono l'occasione per chiacchierare di fondi, azioni e obbligazioni), giunti al rifugio si mettono in coda per la grappa e quand'è ora di tornare, poiché sono stanchi, si mettono in fila per scendere a valle in funivia.
Da un paio d'anni a questa parte sembrava fosse arrivata la rivoluzione: i professionisti della coda tengono in auto il navigatore satellitare che dovrebbe insegnare qual è la strada giusta, quella più corta, quella più veloce e – udite, udite – qual è il percorso alternativo in caso di ingorgo oppure di incidente: so di gente con il camper gigante che si è trovata intrappolata nella strettoia tra due fienili di montagna credendo di aver trovato la scorciatoia giusta”.
Mi pare di vederlo, Luigi G., mentre riempie di benzina le auto dell'esodo con la moglie dietro il banco a macinare caffè. E mi pare di vederlo domani, quando la montagna sarà semi-deserta, il cielo sereno (perché anche il tempo ci prende gusto a sbeffeggiare le masse) intento a girare il cartello di metallo all'ingresso del suo piccolo distributore (lui ha ancora quei vecchi cartelli rumorosi e mezzi arrugginiti) finché si vedrà la scritta chiuso. “Perché – questa è la sua teoria – passo la domenica a servire i turisti ma il vero signore sono io quando il lunedì mattina, passata l'invasione dei vacanzieri, mi prendo il lusso di mettermi di riposo”.

22 agosto 2007

Palloni gonfiati

Scrivo da una località di montagna per avvisare i lettori di una minaccia che quest'anno, più che mai, rischia di rovinare la vacanza a chi sogna il silenzio, la natura e le tradizioni delle Dolomiti. Scriverò dei parchi giochi, ma non di quegli innocui giardini con lo scivolo, l'altalena e la buca della sabbia a cui abbiamo fatto l'abitudine. No, qui si tratta di immense navi dei pirati e di giganteschi scivoli gonfiabili, alti come una casetta di due piani, che spiccano nel verde dei prati con i loro colori rosa, giallo e blu. Nel paese in cui abitiamo ce n'è uno che esibisce all'ingresso la seguente referenza: “Il più grande parco giochi gonfiabili delle Dolomiti”. Niente meno.
All'inizio ci sembrò una gran fortuna, quella di avere una tale attrazione dietro casa, dove parcheggiare il piccolo e passare un pomeriggio in libertà al prezzo popolare di quattro euro e cinquanta. Ci siamo cascati come polli: quei giganteschi palloni, forse studiati da psicologi dell'età evolutiva per fare colpo sui piccoli turisti, sono diventati il nostro incubo e la parola “giochi” è la colonna sonora della nostra vacanza, urlata con tonalità e intensità diverse a seconda del momento. Giorno dopo giorno guardo con odio l'improvvisato Mangiafuoco all'ingresso del suo baraccone. Forse dovrei chiamarlo pifferaio per l'abilità con cui incanta i suoi giovanissimi clienti e in realtà anche qualche madre: mi chiedo se ha fatto un corso per essere così efficace nel conquistare gli ospiti che varcano la sua soglia e – da quell'istante – fanno di tutto per tornarci. Sono arrivato a sospettare che sia tutta colpa delle caramelle – drogate? - che tiene in un cestino nella casetta in cui stacca i biglietti mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera e notte perché il più grande parco giochi delle Dolomiti non chiude mai e per evitare capricci disperati siamo giunti a cambiare il nostro percorso abituale, prolungando la strada di un paio di chilometri, per arrivare a casa dal retro senza passare di fronte al paese dei balocchi.
Basta, mi son detto, siamo qui per goderci le montagne e non quattro palloni gonfiati: domani si sale in quota. Detto fatto: attraversando un paesino dopo l'altro al grido di “giochi! giochi! giochi!” perché non c'è ormai più località turistica degna di questo nome priva del gigantesco scivolo gonfiabile, siamo giunti ai piedi di un pascolo. “Giù dall'auto – ho ordinato alla mia truppa – si va a a scoprire da dove viene il latte che beviamo la mattina”. C'erano le mucche, le capre, qualche gallina e un paio di maiali ma ugualmente dallo zaino porta-bimbo che tenevo sulle spalle ho udito un urlo lancinante: “Giochi!”. C'erano veramente – dietro il rifugio – un castello delle fate e una casetta di Biancaneve tenuti in piedi da un motorino ronzante che pompava aria a tutto spiano.
“Più su, più su, dobbiamo andare più su” ho ordinato disperato, incamminandomi lungo un sentiero che ricordavo a malapena ma – non avevo dubbi – ci avrebbe portato sulle montagne vere lasciando a valle l'incubo dei giochi.
Un'ora di cammino in salita, a lato di un minuscolo ruscello, tra le tracce di qualche invisibile capriolo (a Ferragosto soffrono la folla e vanno in vacanza pure loro), ci ha portati in cima ad un versante. Ancora pochi passi e saremmo stati lassù, a tu per tu con le pareti pallide di roccia con i segni neri lasciati dalla pioggia e i ghiaioni frantumati l'inverno dai ghiacci. Avrei voluto dire: “Signore e signori, ecco a voi le Dolomiti” invece per prudenza mi sono trattenuto, subito preceduto da mio figlio che dalle mie spalle, in posizione dominante, ha avvistato l'oggetto del desiderio e stanco di caprette e stelle alpine ha cacciato l'urlo più soddisfatto che mai sia risuonato in quelle valli amplificato dall'eco delle rocce: “Giochiiiii!”.
Quando si perde è saggio ammettere la sconfitta: sono qui a 2.000 metri che digito questo articolo sul telefonino, seduto su una panca assieme ad altri padri orgogliosi – saliti in quota in seggiovia - che fotografano e riprendono i loro bambini mentre saltano felici nella pancia di un'enorme Civetta di plastica viola che nasconde alla vista la Civetta vera, fatta di roccia bianca. Che i bambini siano felici non mi sorprende, quel che mi preoccupa è che lo siano i loro padri.

12 agosto 2007

C'era una volta l'autostop

autostop con le scarpe camperC'era una volta l'autostop, l'attività di chi alza il pollice a lato della strada per chiedere un passaggio. Ci sono tre motivi per fare l'autostop: necessità, voglia d'avventura o sensibilità ambientalista. Poiché un'auto ce l'ho e le avventure un po' mi spaventano è sempre stato per evitare di muovere invano una vettura che mi sono trovato sul marciapiede, con il pollice fuori, sfidando le frecciate di familiari e amici che consideravano il gesto poco dignitoso.
A salire sulle auto altrui si imparano tante cose. Avevo sedici anni quando scoprii che c'è gente che va in giro apposta per dare passaggi ai ragazzini. E non è questione di altruismo. Ne avevo venti quando - sul sedile posteriore di una Mercedes, con un grosso pastore maremmano che mi annusava le parti intime, tale Max - mi resi conto che per i proprietari di cani contano più i quattrozampe dei bipedi che chiedono un passaggio. Ne avrò avuti ventidue quando imparai, in anticipo sui tempi, che l'olfatto dei genitori di un bambino di due anni si disattiva per consentire il viaggio anche quando il piccolo ha il pannolino pieno. Il mio invece funzionava benissimo. A ventitré anni, all'interno di un grosso fuoristrada, mi stupii di come il silenzio di una coppia sposata possa diventare, chilometro dopo chilometro, più violento di una sfuriata.
Ma il passaggio che mai dimenticherò lo chiesi - e ottenni - quando ormai avevo trent'anni. Ero a Pergine, sulla statale della Valsugana, vicino all'officina di un mago dei motori a cui avevo affidato la mia motocicletta. Stavo lì con il casco in mano e il pollice destro fuori (già da qualche decina di minuti a dire la verità) quando sentii in lontananza il rombo di un motore. Mantenni il dito esposto, quasi per distrazione, mentre il pilota scalava le marce e il frastuono in avvicinamento diminuiva: era una moto da corsa.
«Dio mio fa che non si fermi» pensai. Si fermò. Dagli occhi spiritati che mi guardavano sotto la visiera scura del casco intesi che il centauro era un ragazzo: «Dove vai?» mi chiese. Volevo dire Berlino e invece mi venne fuori Trento. «Metti il casco e salta su» mi ordinò, indicandomi uno spoiler in plastica rossa che copriva quel quadratino che una volta era la sella. Inutile discutere: siamo o non siamo motociclisti? Mi arrampicai lì dietro e mi aggrappai in qualche modo al serbatoio: non entro nei dettagli, chi ha moto come quella conosce la sofferenza (nel mio caso anche l'imbarazzo) a cui è sottoposto il passeggero. Per farla breve - e fu breve veramente - partimmo a razzo verso il capoluogo. Voleva insegnarmi come si guidano le moto. Arrivati alla galleria dei Crozi mi sentii salvo perché una corsia era chiusa e le macchine viaggiavano lente in colonna. Niente da fare, Valentino Rossi fece sbandare il bolide sulla destra e infilò l'area del cantiere come farebbe l'autista di un autobus nella sua corsia preferenziale. Due minuti dopo eravamo alle porte della città. Indicai una piazzola distante cinque chilometri da casa mia: «Fermo qui, sono arrivato». Lo guardai partire impennando, con una consapevolezza nuova: il vero autostoppista è quello che sa quand'è il momento di ritirare il pollice.
Con gli anni i tempi d'attesa sul marciapiede si sono allungati: c'è qualcosa di sospetto in un uomo maturo fermo a lato della strada. Così invece di chiedere passaggi ho cominciato a darli. Le occasioni sono poche, perché gli autostoppisti sono diventati una rarità (colpa del benessere ma anche di certi film e leggende che non aiutano ad avere fiducia nel prossimo) ma io comunque seleziono: carico a bordo quelli che penso mi possano raccontare qualcosa che non so, per lo più ragazze perché - sono convinto - chiacchierano di più. Così l'altro giorno mi sono fermato nel piazzale dove c'era una giovane con lo zaino: «Sali pure» le ho detto. Doveva tornare a casa, in un paese dieci chilometri più avanti. Mi chiedevo di cosa avremmo potuto parlare in dieci minuti di strada quando sentii un brusio intermittente alla mia destra, proveniente dalle cuffiette che si era infilata nelle orecchie.
C'era una volta l'autostop.

08 agosto 2007

Aut min ric

Signore e signori questa non è pubblicità, questa non è nemmeno informazione, questa è arte: provate - se ci riuscite - a recitare trenta parole nel giro di tre secondi e capirete la bravura dello speaker che per anni ci ha avvisato che i farmaci pubblicizzati alla radio o alla televisione potevano essere nocivi per la salute. Parlo al passato perché quei messaggi superveloci non li ascolteremo più. Questa soluzione all'italiana, in pratica uno sberleffo delle potenti case farmaceutiche allo Stato che pretendeva un'informazione corretta per i cittadini, l'abbiamo sentita per anni alla televisione e alla radio, dove il tempo si misura in euro al secondo e il messaggio obbligatorio per legge veniva compresso al limite della comprensibilità. Chiedetemi la pubblicità di un farmaco e non vi saprò rispondere, ma le speedy avvertenze mi hanno sempre fatto impazzire, come le note scritte in piccolo nelle pubblicità dei mutui bancari: comicità pura. Ebbene, le speedy avvertenze non le sentiremo più, proibite da un decreto legge che vorrebbe tutelare i cittadini. Protesto: così ci tolgono un pezzo della colonna sonora dei nostri tempi, compreso quell'aut.min.ric. che ho voluto mettere nel titolo. Non sono riuscito a trovare una registrazione di quelle trenta parole compresse in tre secondi, così le incollo qui sotto perché - mi sono accorto - fanno un certo effetto anche da scritte. Caro lettore di questo blog, al momento di assumere un farmaco ricorda: prima dell'uso leggere attentamente le avvertenze può avere effetti collaterali non somministrare ai bambini sotto i dodici anni in caso di problemi consultare il medico.
Oh yes!

06 agosto 2007

Cadono vipere dal cielo

Sono le nove del mattino, praticamente l’alba, quando mi chiama al telefono una vecchia fonte per regalarmi lo scoop del secolo. Stai attento, mi dice, perché questa che sto per raccontarti è una bomba, giocatela bene e ricordati di me. In tre minuti mi spiega che nei giorni scorsi in un supermercato di Predazzo una madre che faceva la spesa ha perso di vista il figlio, ma essendo una tipa svelta ha fatto bloccare le uscite del negozio prima che i rapitori potessero portare via il bambino. Il finale già lo sapevo: pochi minuti dopo la donna ha trovato il figlio nel bagno del supermercato, con i capelli tinti, assieme a due nomadi che gli stavano cambiando i vestiti. Proprio come era successo sei mesi fa a Pergine, l’anno scorso a Rovereto e chissà quante altre volte tanto che quando gli ho raccontato del mio scoop mancato il collega P. mi ha risposto: «Ma sei sicuro che sia una bufala? Verificala bene perché è successa la stessa cosa all’amica di una mia amica spagnola e la notizia era finita su tutti i giornali».
I giornali spagnoli non li leggo, ma conosco le leggende metropolitane. Come quella andata in scena l’altro giorno in Sicilia della zingara che avvolge i bambini nella sua grande gonna e li porta via come se nulla fosse. Vittima dei pregiudizi della gente una rumena che chiedeva l’elemosina sulla spiaggia è finita in carcere senza nemmeno sapere perché. L’ha liberata il giudice, dopo una notte in cella, quando l’ha guardata e ha visto che la sottana che indossava non aveva stoffa a sufficienza per imprigionare uno di quei bambini che in spiaggia non stanno fermi un attimo. Né tantomeno zitti. Chissà se i bagnanti che l’accusavano le hanno almeno chiesto scusa.
Leggende. Erano gli anni del motorino, c’era da poco l’obbligo del casco e noi ragazzini per dimostrare che eravamo esperti raccontavamo di quel tale che era caduto con la moto e si era alzato illeso: stava lì in piedi sull’asfalto a togliere la polvere dal giubbotto quando gli venne la malaugurata idea di togliersi il casco. Appena levato l’elmetto il cranio gli si aprì in due, giusto a metà, e cadde sulla strada come un’anguria rotta. La storia la sapevamo a memoria ma ogni volta ci scappava un grido di stupore. Il mio amico L. giurava che era vera perché quel tale era un amico di suo fratello.
Altre leggende. Il cow-boy che faceva la pubblicità alle Marlboro è morto di cancro ai polmoni (il collega G. dice che è vera); nel lago di Cei c’è un luccio grande come un pescecane che nessuno è mai riuscito a prendere e ormai dovrebbe avere su per giù cent’anni; se andate in America Latina e vi vogliono vendere un cagnolino diffidate perché probabilmente è un topo; se invece provano a rifilarvi un tronchetto della felicità occhio ai ragni della morte che sono nascosti tra le foglie; a New York state alla larga dalle fogne perché ci sono i coccodrilli, ma non c’è da stupirsi perché ne hanno visto uno anche nel Garda. E se dopo una serata in discoteca la ragazza che avete rimorchiato vi chiede di portarla al cimitero non contrariatela (e soprattutto evitate di baciarla) perché è il fantasma di una giovane morta un sabato sera di dieci anni prima.
Alle leggende ci ho fatto l’abitudine - non ho più paura di ritrovarmi in un fosso mezzo nudo, con una cicatrice sulla schiena dove una volta c’era un rene - ma sono riuscito ancora a emozionarmi l’altro giorno quando un lettore infuriato ha preso il telefono e ha chiamato il giornale: «Scusi lei è un giornalista d’assalto?». Faccio del mio meglio, gli ho risposto. «Bene, allora scriva che è ora di finirla Nei boschi dietro casa mia è pieno di vipere, tutta colpa di quei maledetti Verdi». Perché? gli ho chiesto incuriosito. «Roba da non credere. Le mettono in un sacco e quando è pieno salgono sull’elicottero e le lanciano sulle montagne dove i rettili si erano estinti». Sarebbe stato lo scoop dell’estate, se solo fosse vero.