05 febbraio 2011

Un razzista di mezza età


Tenetevi forte perché adesso dico qualcosa di razzista. Anzi, molto peggio: lo scrivo. Siamo qui, noi due pazienti, nella nostra stanza singola, quando entra un'infermiera con gli occhiali e le lentiggini che dice senza possibilità di appello: "Qua dentro mi pare che ci sia un po' troppa gente!". Allora i miei due parenti - per i quali la parola di infermiera è legge, soprattutto all'ospedale - mi lasciano solo nella stanza assieme al mio compagno Arben e ai suoi quattro parenti che continuano a chiacchierare senza darmi nemmeno il conforto di ascoltare le loro storie, visto che parlano albanese. Se non fosse che ho un taglio nella pancia mi alzerei per protestare, ma mi trattengo perché il vecchio Arben con quel suo bozzo dietro la testa (e una moglie che pesa il doppio della mia) pare stia peggio di me e ha pur bisogno di qualcuno che gli faccia coraggio in attesa che arrivi l'infermiera con i capelli neri, l'altra, per dirgli che dopo di me, ora, è il suo turno.
Così porto pazienza, allungo la mano sul comodino per prendere le cuffiette e ascoltarmi il Concerto di Colonia di Keith Jarret che ormai so a memoria ma ogni volta mi fa lo stesso effetto. La musica di pianoforte mi scorre nelle orecchie e già mi sento meglio anche perché lassù, al posto della flebo, c'è una bottiglia di paracetamolo che mi entra nelle vene.
Stasera torno a casa. Gran cosa la sanità moderna che ci rimette in sesto al volo, noi e gli albanesi, quando abbiamo un acciacco come il mio che non ho voglia di svelare perché è ciò che mi dichiara inequivocabilmente (e crudelmente) un uomo di mezza età.
Dall'ospedale è tutto, a voi studio.

25 gennaio 2011

Garage party


Signore e signori, questo è un garage party: entrate, guardate e portate via ciò che volete. Dopo cinque mesi in quarantena (dal giorno del trasloco nella nuova casa) siamo ormai certi che ciò che non ci è servito non ci servirà e ciò che non ci è mancato non ci mancherà. Una certezza di cui ci pentiremo amaramente (anche di questo siamo certi) sebbene intenzionati a fare piazza pulita del garage in cui abbiamo parcheggiato parte della nostra vita. Ma ogni oggetto ha una sua storia e prima che qualcuno lo porti via (o se lo mangi la discarica) bisognerà pur rendergli l'onore delle armi.

E allora ecco a voi, nell'ordine:

bicicletta blu marca Benotto comprata di seconda mano nel 1996 per 800 mila lire (la pensione di mia nonna Marcellina che in quella primavera seppe essere generosa) con l'obiettivo di scalare i passi Dolomitici. Li abbiamo saliti tutti, da una parte e dall'altra, anche più volte, con l'unica onta del versante bellunese del Fedaia dove - complice il rapporto troppo lungo, era una bici d'altri tempi - abbiamo messo il piede a terra; 

proiettore di diapositive marca Zeiss che abbiamo utilizzato per proiettare le immagini delle vacanze finché con gli anni Duemila è arrivata la macchina fotografica digitale a farci scattare migliaia di immagini che mai nessuno ha più rivisto (tanto siamo impegnati, ora, a scattare foto sempre nuove). Roba da sfigati? Certo, ma poiché noi eravamo sfigati professionisti nel garage troverete anche lo schermo per la proiezione che abbiamo conservato testardamente per anni, chissà come, chissà perché, nell'angolo più remoto di una soffitta inaccessibile (tanto era piena di ciarpame). Via tutto, ma non le diapositive raccolte in quelle scatolette di plastica che ci ritroveremo a osservare con nostalgia fra qualche anno tenendole, una ad una, alzate verso il cielo; 

forno a microonde marca Candy, il nostro primo forno, che non abbiamo ancora trovato il coraggio di buttare (nonostante sia irrimediabilmente rotto) temendo forse di perdere il ricordo di quel grigio pomeriggio d'autunno in cui scoprimmo sullo scaffale del supermercato quelle bustine di mais e finimmo per fare indigestione di... pop-corn!

quattro pneumatici invernali Michelin Alpin che sono serviti ai bei tempi per salire di notte con la Panda rossa sul Bondone e poi gettarci al buio lungo le piste da sci a bordo di tre gommoni da camion, quando ancora con gli amici D. e M. non avevamo paura di spaccarci le ossa contro un albero; 

caschi, giubbotti e tute antipioggia usati per viaggiare sulle strade di Austria, Germania, Svizzera, Sicilia, Sardegna, Corsica, Grecia, Croazia, Slovenia finché - ormai in tre - abbiamo deciso che era ora di fermarsi, vendere la moto e comprare un passeggino. Senza immaginare che proprio lui, il colpevole!, non più tardi dell'altra mattina, pedalando in bicicletta verso la scuola materna, avrebbe trovato il modo di lamentarsi perché nella nostra povera famiglia non abbiamo nemmeno una motocicletta;

tavolino da campeggio in materiale plastico bianco, senza apparente marca, ricordo di quell'estate in campeggio (l'ultima) in cui ci sembrò una buona idea piantare la tenda in riva al mare, per poi ritrovarci a notte fonda a lottare disperatamente contro il Maestrale, sognando la stanza di mattoni in cui siamo andati a rifugiarci il giorno successivo.

Ecco le nostre cose. Ecco le nostre storie. E ora che le abbiamo raccontate (le storie) qui sul blog, dei relativi oggetti possiamo fare a meno e vivere più leggeri: metteremo gli annunci su Bazar con la parola magica - regalo! - che fa fioccare le telefonate. Ci serve spazio nuovo, che non succeda come in quei boschi troppo fitti dove gli alberi vecchi impediscono alla vegetazione nuova di crescere. Basta un messaggino sul telefonino per ricordare un pomeriggio, basta un vecchio paio di scarpe (ma soprattutto un buon motivo) per andare alla scoperta di Venezia. In fondo c'è chi vive con 100 cose, noi ci siamo detti che possiamo rinunciare almeno alle 100 cose che teniamo giù in garage. Ora non resta che spiegarlo al resto della famiglia.

19 gennaio 2011

Ridatemi il vecchio porco


Non è il Barney che conosco quello apparso l'altra sera sullo schermo del cinema Astra a Trento. Ha il volto troppo pulito, i modi troppo cortesi e le orecchie probabilmente troppo lavate per essere veramente lui.
 Ridatemi il vecchio porco - penso mentre scorrono le immagini sullo schermo - quel bastardo egoista, rissoso, rancoroso, bugiardo e vagamente alcolizzato che tutti noi (i suoi sostenitori) abbiamo imparato ad adorare leggendo (e rileggendo) il grosso libro con la copertina rossa che teniamo sottolineato sul comodino (o più probabilmente in bagno) pronto all'evenienza.
 Non basta un Montecristo fra i denti e un bicchiere di Macallan in mano per fare di Paul Giamatti (l'attore) un autentico Barney Panofsky, cioè il personaggio creato dallo scrittore canadese Mordecai Richler. Quel Barney che ci ha insegnato a non vergognarci (troppo) dell'invidia che ci rovina la giornata quando il giornale cittadino dedica un trafiletto benevolo al nostro peggior nemico. Perché la vita di noi Barney - sia detto per inciso - è sempre piena di nemici.
 Leggendo Barney sorridiamo della goffaggine che ci coglie quando - tutti impegnati a trovare la frase del secolo per conquistare la donna bellissima della nostra vita - ce ne usciamo semplicemente con un modesto: "Ti piace vivere a Toronto?" dimenticando nel taschino della giacca il foglietto con gli argomenti di conversazione che ci eravamo annotati prima dell'incontro.
 Quel Barney senza pudori che, ormai vecchio e solo, non disdegna di richiamare in servizio Miss Ogilvy, l'antica fantasia della giovane insegnante delle medie, che riesce ancora a fargli compagnia, infallibile, durante le notti solitarie.
 Detto questo andiamo avanti. Perché Barney-Giamatti non sarà Barney Panofsky, come è naturale visto che i film non sono libri, ma ci sono tanti (buoni) motivi per correre al cinema a vedere "La versione di Barney". Come hanno fatto venerdì all'Astra duecento spettatori, che sembrano pochi ma bastano per esaurire la sala 1. Successo ripetuto ieri, con una previsione di permanenza in città di almeno due o tre settimane.
 Primo motivo per correre al cinema. Ecco la via facile per conoscere il vecchio Barney evitandosi la lettura (sublime, ma faticosa) di 490 pagine di cui le prime 100 sono una muraglia eretta dall'autore per selezionare i lettori ammessi al paradiso. Comodo.
 Secondo motivo per correre al cinema. Chi ha letto il libro vedrà finalmente Miriam (oh, Miriam!) l'unico, vero, grande amore di Barney che l'attrice Rosamund Pike restituisce all'altezza dei sogni più esigenti. Affascinante.
 Il terzo motivo per correre al cinema è conoscere dal vivo Izzy Panofsky, perché se Barney è riuscito (volutamente) un po' annacquato, suo padre Izzy è davvero strepitoso, peggiore perfino dell'originale nel cercare la morte per infarto - lui, poliziotto della buoncostume in pensione - concedendosi l'ultima notte di piacere in un bordello. Signore e signori ecco a voi Dustin Hoffman, che se solo fosse stato più giovane sarebbe stato, lui sì, un Barney favoloso. Magistrale.
 Quarto motivo. Depurata dalle sue tinte gialle e dalle pagine in eccesso "La versione di Barney" al cinema diventa una perfetta storia d'amore in tre atti attraverso i tre matrimoni di Barney Panofsky: prime nozze per gravidanza, seconde nozze per errore, terze nozze per amore. Applausi.
 Quinto motivo. Scoprire che si può provare compassione anche per un vecchio porco quando la commedia diventa, a poco a poco, un film drammatico. Uno che - detto ancora per inciso - tradisce la moglie alla prima occasione ma quando lei lo fissa dritto negli occhi vuota il sacco disperato, implorando l'ennesimo perdono che questa volta non arriverà (oh, Miriam!). Uno che - questo è il punto - quando perde la memoria ridiventa ufficialmente il bambino che, sotto sotto, non aveva mai smesso di essere. Commovente.
 Sesto motivo. Leggere sullo schermo la storia di un uomo e dei suoi errori per scoprire che in fondo il nemico vero sta dentro di noi: chi più di noi stessi (Barney docet) ha il potere di rovinare la nostra vita, costruita faticosamente capitolo dopo capitolo? Istruttivo.
 Tre matrimoni, un suicidio, due figli, due divorzi, un amico morto e un'inchiesta per omicidio che si risolve solo alla fine del film. Il tutto in un bagno di ironia di prima classe. Ne "La versione di Barney" cinematografica c'è tutto questo. Insomma sette euro e mezzo spesi bene.
 Fate come me: pagate il biglietto con venti euro, utilizzate le monetine del resto per comprarvi un bicchiere di Coca Cola al bar del cinema (potete sempre fingere che sia un Macallan) e terminato lo spettacolo correte in libreria per investire gli ultimi dieci euro nell'edizione tascabile del libro rosso pubblicato dall'Adelphi. Dopo il Barney da Oscar conoscerete il vecchio porco. Non ve ne pentirete.