05 febbraio 2011

Un razzista di mezza età


Tenetevi forte perché adesso dico qualcosa di razzista. Anzi, molto peggio: lo scrivo. Siamo qui, noi due pazienti, nella nostra stanza singola, quando entra un'infermiera con gli occhiali e le lentiggini che dice senza possibilità di appello: "Qua dentro mi pare che ci sia un po' troppa gente!". Allora i miei due parenti - per i quali la parola di infermiera è legge, soprattutto all'ospedale - mi lasciano solo nella stanza assieme al mio compagno Arben e ai suoi quattro parenti che continuano a chiacchierare senza darmi nemmeno il conforto di ascoltare le loro storie, visto che parlano albanese. Se non fosse che ho un taglio nella pancia mi alzerei per protestare, ma mi trattengo perché il vecchio Arben con quel suo bozzo dietro la testa (e una moglie che pesa il doppio della mia) pare stia peggio di me e ha pur bisogno di qualcuno che gli faccia coraggio in attesa che arrivi l'infermiera con i capelli neri, l'altra, per dirgli che dopo di me, ora, è il suo turno.
Così porto pazienza, allungo la mano sul comodino per prendere le cuffiette e ascoltarmi il Concerto di Colonia di Keith Jarret che ormai so a memoria ma ogni volta mi fa lo stesso effetto. La musica di pianoforte mi scorre nelle orecchie e già mi sento meglio anche perché lassù, al posto della flebo, c'è una bottiglia di paracetamolo che mi entra nelle vene.
Stasera torno a casa. Gran cosa la sanità moderna che ci rimette in sesto al volo, noi e gli albanesi, quando abbiamo un acciacco come il mio che non ho voglia di svelare perché è ciò che mi dichiara inequivocabilmente (e crudelmente) un uomo di mezza età.
Dall'ospedale è tutto, a voi studio.