27 novembre 2005

Finché la neve resta bianca

Quando vediamo scendere i primi fiocchi cerchiamo sempre di non illuderci: non basta una spruzzata di bianco sui tetti per renderci felici. Noi vogliamo la neve vera, quella che non diventa marrone e non si trasforma in acqua dopo mezz'ora ma che si attacca sulla strada vincendo la sua battaglia con il sale e gli spazzaneve. Questa neve si annuncia con il silenzio: quando le auto nella via si fanno rare, ma soprattutto silenziose, sappiamo che il momento è arrivato. Allora il telefono suona e sento il mio amico D., un tipo taciturno, dire una parola: "Andiamo?". Certo che andiamo. Basta trovare la scusa giusta e in due minuti sono in strada. Il punto di ritrovo è in piazzale Sanseverino dove quattro studenti a bordo di una Clio gialla, probabilmente è l'auto della mamma, hanno già disegnato un paio di otto sull'asfalto tenendo tirato il freno a mano. C'è uno con il fuoristrada nuovo che non vede l'ora di provarlo sulla neve e un altro con un veicolo gigante che sembra appena uscito dal deserto e spera che la città si blocchi per viaggiare solo lui. Infine ci siamo noi, con la nostra Punto bianca e un asso nella manica: quattro gomme chiodate di quelle che dal gommista non le trovi più, anzi mi hanno detto che forse ora sono vietate ma bisogna farle fuori e oggi è il giorno giusto.
Prima di partire facciamo l'inventario: catene? ok. pala da neve? ok. torcia? ok. guanti? ok. C'è tutto, possiamo andare, il Bondone è dietro l'angolo ma la neve fa uno strano effetto e nelle sere come questa a noi piace immaginare di partire per l'Alaska.
Fino a Montevideo va tutto liscio, poi mettiamo la freccia per Sardagna dove superiamo di slancio una vettura che procede a dieci all'ora - siamo o non siamo gente di montagna? - e comincia l'avventura. La radio spiega che le autostrade sono bloccate, che c'è l'obbligo di catene, che è meglio non mettersi in viaggio se non è strettamente necessario ma noi - come ogni anno ai primi fiocchi - dobbiamo arrivare su a Vason e questo per me e il vecchio D. è un motivo più che valido. Al bivio di Candriai l'imprevisto: uno spazzaneve ci rovina la poesia sporcandoci la strada (l'autista direbbe che è lì per pulirla, dipende dai punti di vista). Un'occhiata e siamo già d'accordo: quella luce gialla intermittente che l'assessore Rudari ha spedito su in montagna dobbiamo superarla. Il sorpasso ci impegna per due curve e un interminabile rettilineo, sfioriamo la lama con lo specchietto destro e il bestione ci fa capire - con un colpo di clacson capace di scatenare una valanga - che d'ora in avanti dovremo cavarcela da soli. E di non farci trovare fermi più avanti, magari di traverso, perché lui ci passerà sopra senza chiedere permesso.
Senza spazzaneve il viaggio procede nell'ovatta. Le ruote chiodate affondano senza toccare l'asfalto, a Vaneze attraversiamo una pioggia di palle di neve che si abbatte sui finestrini della Punto, ma proseguiamo fino al Norge dove c'è una macchina bloccata con tre persone che la spingono: "Butta, butta" dicono. Ci fermiamo e diamo una mano a metterla da parte. Il ragazzo che era alla guida tira fuori un ammasso di catene annodate dal bagagliaio e cerca di montarle mentre noi - sotto i fiocchi che cadono sempre più abbondanti - raccontiamo storie di neve. Finisce che uno tira fuori quella nevicata di vent'anni fa, quando nel 1985 i fiocchi sommersero la città, le scuole chiusero per tre giorni e in piazza Duomo ammassarono tutta la neve del centro storico in un mucchio alto come la fontana. Sempre là si va a finire.
Ma dai tornanti più sotto spuntano le luci gialle degli spazzaneve che, pensando di salvarci, mettono a rischio l'avventura. Allora riprendiamo la fuga verso l'alto, via dalla città, via dai palazzi, Vason è poco più su ma quando arriviamo siamo immersi nelle nuvole. Le gomme cigolano schiacciando la neve vera, quella che quando la stringi fra le dita diventa compatta e dura, e con l'auto tracciamo un semicerchio nel parcheggio (l'otto lo facevamo quando eravamo al liceo ma abbiamo perso un po' la mano). Dall'altra parte - dalle Viote - arriva un ritmico ta-tac e poi spunta una Fiesta con le catene molli che battono sul parafango.
Le nuvole a tratti si aprono e in alto si vedono le luci del Palon. Ci guardiamo un attimo: "Scendiamo giù da Garniga?". Ma D. scuote la testa, gli spazzaneve ormai ci stanno catturando, pochi secondi ancora e spunteranno da quella curva riportando la civiltà anche qui in Alaska. Giriamo la Punto verso le luci della città rassegnati ad andare a dormire, sperando che al risveglio la neve non sia diventata già marrone.

20 novembre 2005

Maledetto quel sacchetto

Non ci vorrebbe niente a mettere i fondi del caffè da una parte e le lattine di alluminio dall'altra, le bucce d'arancia di qua e la carta di là, non ci vorrebbe niente insomma a fare la raccolta differenziata dei rifiuti se non fosse per il sacchetto, quel maledetto sacchetto che tutti conosciamo e che a tutti - almeno una volta - è rimasto in mano mentre qualche etto di scorze umide e puzzolenti cadeva sul tappeto oppure sul giroscale o ancora - peggio - fuori dal palazzo, sul marciapiede, quando il bidone dell'immondizia era ancora lontano e una signora osservava la scena con la faccia di chi pensa: "Non vorrà mica lasciare tutto lì per terra, vero?".
Non è uno sfogo personale, la pensa così il 30 per cento delle persone intervistate da Trentino Servizi che avendo la possibilità di lamentarsi (al telefono) se l'è presa con quell'orrendo, viscido sacchetto. E dire che nonostante le apparenze si tratta di un oggetto di grande tecnologia e dal costo molto elevato: 3 centesimi l'uno, mentre una volgare e inquinante borsa di plastica, grande uguale, costerebbe venti volte meno e durerebbe (questo è il problema) infinitamente di più.
Quelli della Novamont possiedono il brevetto per la produzione del materiale (lo chiamano mater-bi, si tratta di una pellicola ricavata dagli scarti di lavorazione del mais) e sul loro sito internet si vantano di aver realizzato un sogno.
Sì, perché quel materiale bianco (talvolta verdino, dipende dalle partite di produzione) se lasciato all'aperto si dissolve, insomma è biodegradabile. Il problema è che comincia a biodegradarsi già quando è nel bidone sotto il lavandino di casa. Basta qualche verdura per creare un po' di umidità, il sacchetto si bagna e comincia a funzionare... facendosi da parte. Quando è pieno noi lo solleviamo con fiducia e - trac - lui disperde i rifiuti nell'ambiente.
Se va bene, comincia a gocciolare. Anche da nuovo. Provate a riempirli d'acqua nel lavandino e vedrete che molti sono bucati già quando ve li consegnano. C'è chi per star tranquillo ne mette due, chi scende in strada con il bidone intero, chi utilizza solo quelli bianchi e guarda con sospetto i verdini, chi invece fa il contrario. Ognuno si difende come può. L'ingegnere della Trentino Servizi - che li sperimenta in prima persona a casa sua, come noi tutti - giura che di quei sacchetti non ne ha rotto mai uno e diffonde un consiglio: "Teneteli al buio, lontani dalla luce del sole, così durano di più".
Anche quelli della società dei rifiuti, se potessero, farebbero volentieri a meno di quei sacchetti e risparmierebbero qualcosa come 240 mila euro l'anno (otto milioni di pezzi) ma senza le umide borsine le nostre città sarebbero più sporche e puzzolenti. Comunque ci stanno lavorando e presto potrebbero dirci di buttare i rifiuti sparsi nel bidone, tanto poi passerà un camion con il lavaggio incorporato.
Chi non odia il sacchetto detesta almeno la cordina, quello spaghetto di cotone che dovrebbe servire da chiusura: uno lo prende alle estremità, fa il nodino con le dita e poi - ovviamente - tira. Ma a tirare quello si sfilaccia, inconsistente, perché anche lui è biodegradabile, pronto a dissolversi. Appena lo tocchi lui fa il suo dovere, si distrugge, obbediente al punto da farsi detestare.
Ho chiamato quelli della Trentino Servizi e mi hanno detto che mi capiscono, ma di tenere duro, è per il bene della terra. Già che c'ero mi sono levato un dubbio e gli ho raccontato quella storia che il mio vicino usa come alibi per non differenziare. Dice che dividere i rifiuti fra i bidoni non serve a niente perché tanto poi i camion filano tutti assieme in discarica. Lui lo sa: gliel'ha detto un suo cugino che conosce uno che lavora per la Trentino Servizi.
Anzi, in realtà sua moglie conosce la moglie di quel tale che guida proprio i camion, una fonte diretta insomma. L'ingegnere della società, quando gli ho raccontato la storiella, si è messo a ridere: "Sarà la centesima volta che la sento...". E allora? "Allora se le viene il dubbio faccia così: si presenti nella nostra sede di Lung'Adige San Nicolò durante la settimana, diciamo verso mezzogiorno e guardi quei camion che scaricano l'organico in una buca. Poi vedrà che quella roba viene caricata sui cassoni da trenta metri cubi e la portano via". E quando andrò lì vedrò che non si tratta di vetro, carta, metallo ma solo materia organica? "Mi creda, se durante la sua ispezione il vento tira dalla parte giusta lei non avrà più dubbi".

13 novembre 2005

Per fortuna c'è Igor

Da quando ho conosciuto Igor gli annunci che mi promettono la sopravvalutazione della mia auto usata mi lasciano del tutto indifferente. Sarà stato un paio di mesi fa, dovevo vendere una Golf di una decina d'anni e mi sono presentato, umile, nei principali concessionari per proporre lo scambio con un'auto più nuova. La scena era sempre quella: l'uomo di fronte alla scrivania tira fuori un librone tipo elenco telefonico, mi chiede l'anno di immatricolazione della Golf, il modello, i chilometri percorsi, sfoglia le pagine e poi lancia un'occhiata distratta oltre le vetrine. "E' quella là?" chiede. E io faccio sì con la testa, per metà orgoglioso e per metà speranzoso, l'abbiamo sempre tenuta bene quella macchina, con tutti i tagliandi al momento giusto, l'abbiamo portata dal carrozziere per riparare alcuni graffi, frizione quasi nuova e via dicendo ma l'uomo di tutto questo se ne frega, scrive un numero sul foglietto e poi lo gira sulla scrivania per farmelo vedere, con il sorriso ammiccante di uno che sta facendo beneficenza: 800 euro, di cui ne restano la metà dopo aver pagato il passaggio di proprietà.
Inutile proporre quella Golf - come ho fatto - a un altro concessionario perché la scena è sempre la stessa, con qualche piccola variante: oltre all'occhiata fuori dal palazzo c'è stato chi è uscito di persona e si è fatto un giro attorno alla vettura, uno ha dato un paio di calci di punta agli pneumatici (si fa così?), un altro ha aperto la portiera e ha guardato nell'abitacolo, nessuno mi ha chiesto di accendere il motore, tutti, alla fine, mi hanno fatto capire a parole o con la scritta sul foglietto che il valore di quella macchina per me gloriosa era di 800 euro appena, meno il passaggio di proprietà.
Con un moto di ribellione ho pubblicato un annuncio su Bazar, mettendo in evidenza che non c'era l'aria condizionata, che il contachilometri segnava 160 mila e che nel serbatoio ci andava benzina (non il gasolio come ora vogliono tutti, benzina). Il prezzo? Duemila euro, meglio spararla grossa. Ed è stato a questo punto che è entrato in scena Igor, incredibile, di mercoledì, un giorno prima che Bazar uscisse in edicola: ognuno ha i suoi trucchi, lui conosce uno che porta i giornali con il furgone nelle valli del Trentino.
"Ciao chiamo per Golf" mi fa e senza darmi il tempo di rispondere mi chiede quando possiamo vederci. Ecco uno che sa riconoscere un vero affare, penso, e gli do appuntamento in un parcheggio vicino a casa mia. Il giorno dopo lui arriva, gira intorno all'auto, apre il bagagliaio, solleva il cofano, accende il motore, facciamo un giretto di prova (guida lui) e quindi chiede il prezzo. Duemila euro, c'è scritto sull'annuncio. Insiste: "Sì, ma qual è il tuo ultimo prezzo?". E' uno che non vuole perdere tempo e allora gli dico quanto, fin dal primo momento, speravo di incassare: millecinque. Affare fatto e per essere sicuro mi infila nel taschino della camicia una mazzetta con trenta biglietti da cinquanta (più tardi, confesso, ne ho speso uno al bar con il timore che fosse falso, ma non è successo niente).
A Igor il passaggio di proprietà non interessa, vuole solo le targhe della Golf che ufficialmente risulterà demolita, per il ministero dei trasporti italiani non esisterà più, senza l'incubo delle multe che ti arrivano a casa all'improvviso dal sud Italia. Poi domenica, quando arriverà suo cugino dalla Moldavia, caricheranno l'auto su una bisarca e partiranno verso l'Est Europa dove la mia Golf blu metallizzato farà sicuramente un figurone. Assieme a lei ci sarà un'Audi familiare (quasi 200 mila chilometri) e altre due Volkswagen d'occasione.
Il momento brutto è stato dopo la vendita, quando il mio cellulare ha iniziato a squillare come impazzito: era tutta gente che voleva acquistare la mia vecchia Golf, tutti extracomunitari, qualcuno parlava un linguaggio incomprensibile. Il momento migliore è stato quando mi sono presentato di nuovo al concessionario, questa volta senza auto al seguito, per scoprire che quei famosi 800 euro si erano trasformati, tra i sorrisi, in uno sconto molto superiore.
A chi ha un'auto invendibile e vuole chiedere aiuto a Igor posso consigliare solo questo: mettete l'annuncio sul giornale e sarà lui a trovarvi. Ma attenzione, perché a modo suo anche lui è selettivo: ho visto la sua copia di Bazar e con una penna rossa aveva evidenziato solo vecchie auto, meglio se tedesche o giapponesi. Quelle nuove che piacciono a noi nell'Est Europa non le vogliono.

06 novembre 2005

Anche il latte è globalizzato

Lo sapevate che la Polenta Valsugana (marchio registrato) la producono in provincia di Lecco per conto di una ditta di Bologna? E che la Polenta del Trentino, quella macinata a pietra e selezionata secondo la migliore tradizione trentina, la fanno nella zona industriale di Lana, in provincia di Bolzano? Quante sorprese può riservare una passeggiata fra gli scaffali di uno dei tanti Supermercati Trentini. Si può scoprire - ad esempio - che gli strangolapreti alla trentina, quelli verdi dell'insospettabile ditta Brugnara di Pergine, li producono e li confezionano in una fabbrica di Quinto di Treviso. E poi il latte, incredibile, il "Latte Trento", quello magro nella confezione da mezzo litro, con le mucche, il fienile e le Dolomiti sullo sfondo, ebbene quel latte è prodotto in uno stabilimento di Savona, così c'è scritto.
In preda al panico giro l'angolo, cerco lo scaffale dei biscotti e con la mano che mi trema prendo un sacchetto di Cuori, da sempre i miei preferiti, quelli della Prada biscotti del Trentino: giro la confezione e leggo che li fanno a Lamar di Gardolo. Almeno quelli.
In attesa che i fagioli di Lamon divengano trentini (con la speranza che continuino a coltivarli lì anche dopo che avranno spostato il confine con il Veneto) prendo atto con soddisfazione che al piano regolatore di Trento ci ha messo mano un urbanista spagnolo, che gli edifici dell'area ex Michelin (l'affare immobiliare più grosso del capoluogo trentino) li ha disegnati un architetto genovese e che la cupola del Mart di Rovereto, quella che è comparsa sulle riviste di tutto il mondo come esempio di grande architettura, l'ha disegnata uno svizzero.
E non è finita: se non ci fossero i raccoglitori dell'Est Europa le mele della valle di Non resterebbero sugli alberi e se per le vacanze di Natale non arrivassero i camerieri da fuori Provincia (quelli che nei ristoranti dolomitici vi servono la polenta e capriolo con il costume locale e l'accento sardo) molti alberghi potrebbero chiudere i battenti.
Bello questo Trentino globalizzato dove se alzate una serranda di via Malvasia trovate una moschea, se attraversate la strada vi offrono una sporta di cibo cinese, dove nella sala d'aspetto del mio dottore (il poliambulatorio di Centochiavi) capita di sentire parlare più spagnolo che italiano e nei cantieri edili è più facile essere ubbiditi se si danno gli ordini in lingua araba. Ma la domanda è questa: di che si occupano i trentini, se la polenta, il latte, gli strangolapreti e le case le fanno gli "stranieri"? Loro, i trentini, sono dentro il palazzo (uno dei tanti) a far funzionare l'autonomia, un meccanismo delicato che richiede il lavoro di migliaia di persone.
Di Trento e del Trentino piace il nome (piace anche me, fin qui l'ho scritto quattordici volte, adesso basta) tanto che le aziende fanno a gara per metterlo sulle confezioni dei loro prodotti e i Comuni che stanno oltre confine organizzano referendum per far parte del gruppo privilegiato (e non solo di nome si tratta, ovviamente). Ma al di là delle parole si fa fatica, ormai, a capire cosa c'è sotto.
Il Dellai lungimirante l'aveva già compreso due anni fa, quando per evitare confusioni e ambiguità diede ordine di installare le bandiere provinciali lungo le strade di confine: un modo chiaro - e vecchio come il mondo - di far capire qual'è la differenza tra qui e là. Le trovate ovunque queste bandiere, quelle che vedete nella foto sono ai 1.900 metri di passo San Pellegrino, fra Trentino (e fanno quindici) e Veneto per avvertire che di qua siamo autonomi: una notizia che forse era meglio non sbandierare, abbiamo visto che succede quando (a fasi cicliche) i vicini se ne accorgono.
Post scriptum: a proposito di polente, sugli scaffali dei Supermercati Trentini vendono anche quella Montanara, in una confezione rustica che promette quel sapore forte che piace a noi trentini. Dove la producono? A Veggiano, 21 metri sul livello del mare, pianura che più pianura non si può, in provincia di Padova, ancora una volta in Veneto, naturalmente.