29 ottobre 2006

Vittima dell'ora illegale

Prima la notizia buona: questa notte alle ore 3 l'orologio digitale della mia caldaia, quel meccanismo che la fa partire la mattina quando dormiamo e la spegne automaticamente quando non serve, ebbene quel piccolo timer tecnologico segnerà finalmente l'ora giusta. E lo farà per i prossimi sei mesi.
Lo ammetto, il meccanismo per cambiare l'ora è talmente complicato che me lo sono scordato e non oso cercare il manuale: si tratta di premere un tasto assieme a un altro (ma non so quale) per almeno cinque secondi, poi quando i numeri lampeggiano bisogna premere una freccetta per regolare l'ora, quindi il tasto "mode" per passare ai minuti, insomma bisogna infilare una serie di operazioni impossibili da ricordare tanto che ho deciso che per lei - la caldaietta - l'ora sarà sempre solare. Amen.
E ora la notizia cattiva. Avrò i termosifoni puntuali, ma mi perderò la gran soddisfazione di ogni cittadino che in autunno sposta indietro le lancette: non dormirò un'ora in più, perché come tutti i genitori di bambini in fasce (e come i proprietari di cani) sono sottomesso alla legge superiore di un essere che riconosce l'ora di colazione senza guardare l'orologio. E allora mi sveglierò di buon mattino, metterò a scaldare il biberon nel micro onde e già che son lì regolerò il timer del forno. Poi passerò all'orologio del soggiorno e al termometro vicino al terrazzo che dovrebbe cambiare l'ora in base a impulsi radio ma io non ci credo e preferisco far da solo.
Il computer - non so come - segnerà l'ora giusta, ma il cellulare no e dovrò correre ai ripari. Quindi toccherà ai miei due orologi e finalmente - sbagliandomi di grosso - mi metterò tranquillo pensando: "Anche stavolta è fatta". Non so ancora che quando scenderò in auto troverò l'orologio fuori tempo e quasi mi schianterò tenendo schiacciato il "pirulino" sul cruscotto, con le mani infilate in mezzo al volante, in attesa che le lancette facciano ventitré giri (anzi ventidue e mezzo, perché se vado troppo avanti mi tocca rifare tutto).
L'autoradio è come la caldaia: segna quello che vuole, inutile arrabbiarsi. Ma nemmeno a quel punto - rassegnato - potrò dirmi tranquillo perché se dovrò fare una fotografia o un video, magari con la data impressa sopra, scoprirò (forse a Natale) che c'è un altro orologio da sistemare.
Ho smesso di sentirmi uno sfigato quel giorno che ho letto l'ora (al rovescio) sull'orologio di un grande avvocato un po' in là con gli anni e gli ho detto: "Guardi che è un'ora avanti". Lo so - ha confessato - ci metto meno a fare il conto che a regolarlo. E non era il solo: sempre in tribunale ho sentito un appuntato testimoniare che quel fax (importante documento) non era stato spedito un'ora dopo: "Signor giudice - ha detto - l'ora legale...".
Bisogna essere tolleranti. Ci sono parrocchie dove le campane suoneranno alle sei di mattina e già che ci sono colgo l'occasione per avvisare il mio amico P. di correre alla sua radio - dove tutto è automatico - prima che il segnale orario delle 12 parta alle 11, lasciando gli ascoltatori in confusione.
Mi resta una domanda che da anni mi tormenta: che fanno i macchinisti dei treni quando alle tre del mattino devono spostare le lancette indietro di un'ora? Mi piace immaginarli nella locomotiva a giocare a carte, con il treno fermo nella nebbia della pianura (oppure in galleria, chissà) e i passeggeri che si chiedono: che succede? Ci penso beato, perché non so ancora che domani sera - quando sarà l'ora di gustarmi il mio bel film videoregistrato - tornerò a casa attraversando il cortile buio (perché il timer delle luci sarà in ritardo), quindi sprofonderò in poltrona con il telecomando in mano e vedrò apparire in video... il telegiornale delle otto.

22 ottobre 2006

C'era una volta la Mecca

Quando lo incontro al Giro al Sass lo guardo in volto e - anche se sono passati vent'anni - mi viene in mente quella fila di numeri rossi accanto al suo nome, nel gigantesco tabellone rimasto appeso per venti giorni almeno nell'atrio del liceo scientifico Da Vinci. Non era mica la scuola dei debiti formativi, quella. Era una scuola che non faceva credito a nessuno (tanto meno ai ragazzi con poca voglia di studiare) e i voti scarsi li chiamava con il loro nome, cioè insufficienze o più comunemente "mecche", vocabolo ormai dimenticato come mi informa una stagista appena ventenne.
Comunque, il mio compagno di banco delle "mecche" era il re indiscusso, tanto che verso la fine dell'anno decise che per non aggravare la sua posizione non si sarebbe più presentato a scuola: passò due mesi a spasso per i sentieri del Calisio mentre i genitori lo credevano al liceo.
Fosse oggi, il suo caso non sarebbe diventato di pubblico dominio, ma la legge sulla privacy non l'avevano ancora inventata e il giorno che i risultati vennero affissi all'albo davanti alla porta del liceo c'era la folla, comprese quelle due secchione che, come avevano fatto tutto l'anno, prendevano appunti per annotarsi ogni singolo voto, di ogni singola materia, di ogni singolo studente, per poi discuterne con calma durante le vacanze e fornire alle madri più pettegole materia di dibattito.
Lui, il mio compagno di banco, aveva solo due voti positivi: uno era ginnastica e l'altro la condotta. Fosse oggi, l'avrebbe passata liscia con una semplice scritta tipo "non promosso" ma erano gli anni Ottanta e i panni sporchi si usava lavarli in piazza.
Tra quei voti scritti in rosso ce n'era uno molto basso, che per decenza i professori avevano comunque voluto alzare un po' in sede di scrutinio: inglese. Tutta colpa della professoressa Z. (scrivere il cognome per intero è superfluo tant'è famosa tra quelli della mia generazione) che aveva l'abitudine di togliere un voto per ogni errore commesso nelle prove scritte: si partiva dal dieci e poi giù, giù, giù fino all'inferno. Quando le prove erano corrette, cominciava lo spettacolo perché la professoressa Z. cominciava a declamare ad alta voce i risultati, con quell'accento inglese imparato ascoltando il notiziario della Bbc con la radio ad onde medie perché le parabole satellitari ancora non c'erano. I primi della classe, in senso alfabetico, se la cavavano bene ma dopo le prime lettere i voti subivano una flessione fino a diventare addirittura negativi, nel significato letterale della parola: sotto zero. Questo fenomeno aveva i suoi lati positivi perché portare a casa un 4 faceva infuriare ogni padre di famiglia, ma presentarsi a casa con un surreale -2 poteva anche scatenare una reazione di solidarietà oppure di ilarità. Ma non c'era niente da ridere, perché la regola ferrea che consentiva ai voti di scendere sotto zero veniva applicata anche al momento di tirare le somme, quando la professoressa Z. tracciava una riga sotto i numeri e faceva la media. Ora, per risollevarsi da uno 0 servivano almeno un paio di 9 ma quest'improbabile rimonta non si è mai verificata e uno studente dalla partenza lenta - nella scuola che non dava credito a nessuno - poteva ritrovarsi spacciato già prima di Natale.
Ma ogni epoca ha le sue vie d'uscita. Così quel mio compagno che si era perso per strada l'abbiamo ritrovato all'università. Era andato in una di quelle scuole super-specializzate, probabilmente super-costose, dove ci sono insegnanti che vorrebbero insegnare nelle scuole normali ma lì ancora non li hanno assunti e allora si dedicano agli studenti che dalle scuole normali sono stati buttati fuori: assieme possono succedere miracoli, come fare "cinque anni in uno" e annullare così l'effetto congelante dei voti sotto zero della professoressa Z.

15 ottobre 2006

Il segreto del successo

Per scoprire il segreto del mio amico G. bisogna risalire nel tempo di quindici anni almeno. Eravamo giovani studenti, il sabato sera andavamo tutti in pizzeria e poi al momento di pagare - quando ognuno metteva le sue diecimila lire sul tavolo - lui prendeva la ricevuta, la sventolava in aria e diceva: "Serve a qualcuno questa? Altrimenti la prendo io". Prendi, prendi, dicevamo noi, figli di lavoratori dipendenti per cui quel pezzo di carta aveva due scopi solamente: controllare se il ristoratore aveva fatto i conti giusti e verificare (a fine mese) che tornassero i conti nostri.
Ma lui, il mio amico G., con quella fattura era in grado di mettere in moto un meccanismo prodigioso e, almeno ai miei occhi, alquanto misterioso: lui "scaricava". Sì, perché nonostante studiasse (poco) all'università, il suo nome già figurava accanto a quello del padre nell'impresa di famiglia (dove nessuno l'aveva mai visto) realizzando un altro prodigio, quello che consente di prendere un reddito e dimezzarlo, tasse comprese.
Ma noi a queste cose non facevamo caso e quella fattura, se davvero serviva a fare diminuire le tasse, gliela davamo volentieri perché lui era più povero degli altri: all'università non pagava le tasse (anzi gli davano pure la borsa di studio) e quando andavamo in mensa il prezzo per lui era dimezzato. Restava il dubbio su come facessero - lui e suo padre - a permettersi quelle auto di lusso che cambiavano ogni due anni. Ma i propri soldi ognuno li spende come vuole.
Terminati gli studi ci siamo persi di vista ma un giorno ho ritrovato il suo nome ai primi posti nelle graduatorie per il mutuo provinciale, segno che l'impresa familiare non doveva navigare in acque tranquille. Infine l'ho incontrato fuori dall'asilo nido comunale, al Torrione, dove avevano subito accettato suo figlio mentre il mio era ancora in attesa perché con il mio reddito (mi hanno spiegato) potevo anche pagarmi la baby sitter.
Le voci in una città come Trento girano veloci e mi hanno raccontato che gli affari di G. avevano iniziato ad andare bene. In fondo - ho pensato - perché no? E' sempre stato disinvolto, schietto, uno di quelli che quando è il momento di presentare il conto non ha nessun problema a guardarti fisso negli occhi come per ipnotizzarti e a dirti: "Non ti serve mica la ricevuta, vero?". Ma no che non serve, gli risponde la gente, basta una stretta di mano, siamo fra gentiluomini. E se uno prova a tirare fuori il blocchetto degli assegni per pagare, lui lo prende per un braccio e lo blocca: "Ma no, che fai? Non c'è fretta. Me li porti domani, magari anche in contanti che è più comodo".
G. è fatto così: non ama le complicazioni. Per questo si è affidato a un commercialista esperto, uno di quelli che non gli fanno tante storie quando lui si presenta con tutti i costi ("terribili") che deve sostenere per evitare all'azienda il fallimento. E a noi lavoratori dipendenti spiega ogni volta quanto siamo fortunati ad avere lo stipendio fisso a fine mese, ferie pagate: "Mica come me - dice - che mi faccio il culo per pagare i conti dello Stato". E poi ce l'ha con le infrastrutture, dice che siamo un paese del terzo mondo: sarà per questo che si è comprato una casa in una di quelle isole, non mi ricordo il nome, dove non si pagano le tasse. Un sogno realizzato.
Sulle pensioni abbiamo idee diverse. Mentre io mi preoccupo della fine che faranno i contributi, lui mi sfotte e dice che lo Stato andrà in fallimento: "Fai come me - mi consiglia prendendomi sotto braccio e dimenticando che per i dipendenti i contributi sono obbligatori - ti fai una bella assicurazione privata e sei a posto. Se proprio vuoi essere sicuro punta sugli immobili, ce l'avrai qualche nero da investire no?". Questo è il segreto del mio ex amico. E dico "ex" perché quelle fatture che gli ho dato ingenuamente per frodare uno Stato che fallisce non gliele ho mai più perdonate.

08 ottobre 2006

Nel mio garage c'è un Suv

Ebbene sì, lo confesso: nel mio garage c'è un suv. L'abbiamo comprato d'urgenza l'anno scorso quando ci siamo accorti che nella Golf il passeggino ci entrava a malapena e l'abbiamo spedita in Moldavia – la Golf – per essere venduta. Era luglio, caldo torrido, e ci siamo ritrovati in un parcheggio assolato con due ore di tempo per scegliere un'auto nuova con cui tornare a casa. Ci siamo guardati e abbiamo detto: quella! Indicando un'auto nera che ci sembrava grande a sufficienza. Un suv non sapevamo nemmeno cosa fosse ma la nostra vita, senza dubbio, è diventata più movimentata.
Lassù in alto, nella nostra grande jeep, ogni viaggio è un'avventura soprattutto quando, all'arrivo, bisogna parcheggiare. E' in quel momento che divento il capitano di una nave: spedisco un mozzo a poppa, uno a prua e uno a dritta che mi urlano le coordinate e mi aiutano a entrare in porto (ops, nel posteggio).
Come sarebbero banali, i viaggi, se non avessimo un suv. Quando saliamo per un pic-nic a Malga Brigolina, oppure più su a Mezavia, guido concentrato lungo la strada sterrata con qualche buca riempita dalla pioggia: il mio terreno. Nessuno parla perché la situazione è seria, il pericolo è in agguato, poi arriviamo e lasciamo il suv in sosta vicino alle altre auto, quelle normali tipo le Punto o le Renault Clio. Allora scendo dal mio fuoristrada con un salto, osservo compiaciuto gli schizzi di fango sulla fiancata e mi guardo attorno con un'espressione seria e preoccupata: “Incoscienti” dico. “Come avranno fatto ad arrivare qui con queste carrette?”.
I suv sono alti e quando la strada si fa tortuosa oscillano come barche in mezzo al mare. Così quando viaggiamo sui tornanti dolomitici tutto l'equipaggio lavora per bilanciare i pesi: è un gioco di squadra, siamo gente sportiva, talvolta qualcuno si sente male e allora bisogna fermarsi, ma una breve sosta forzata è quello che ci vuole per dare l'impressione di avventura.
Guidare mezzo metro sopra gli altri ha anche altri vantaggi, ad esempio in autostrada dove l'autista di un suv gode di una splendida vista sulle gambe delle donne che lo sorpassano. Esatto, sorpassano: perché da quando abbiamo il suv viaggiamo nella corsia di destra, quella dei tir, con le auto normali che ci sfrecciano accanto velocissime.
Con il nostro nuovo suv, ci siamo accorti, è anche più facile fare amicizia: vediamo più spesso il benzinaio, quell'uomo gentile che tra le numerose auto in coda punta felice verso la nostra. E anche il gommista, da un anno a questa parte, ci guarda con un occhio diverso che non saprei come definire: con più rispetto, oserei dire, ma forse sbaglio perché non so cosa dice alla sua impiegata quando lascio l'officina con quattro enormi gomme nuove.
Quel giorno che ci svegliammo con la neve la radio raccomandava di non mettersi in viaggio se non era strettamente necessario. Quindi mi precipitai fuori di casa perché io non sono mica come gli altri: io ho un suv. Superare la rampa del garage fu un gioco da ragazzi ma salendo sul Bondone mi ritrovai in coda già a Montevideo, bloccato da una fila di auto impantanate che nemmeno le mie ruote artigliate mi consentivano di scavalcare: colpa mia, dovevo pensarci prima, per l'inverno prossimo mi compro un carro armato.
Finché l'altro giorno alle otto di mattina (strano) il mio amico D., che ha un'auto simile alla mia, mi ha spedito un messaggino: “Sei pronto alla stangata?”. E poi ha aggiunto: “Suv. Non riusciremo più a sbolognarli”. In quell'istante ho aperto gli occhi: ho passato giorni per cercare di capire chi, come e quanto doveva pagare. Alla fine è stato chiaro che – sebbene suv – quel panzer che mi ingombra il garage non merita d'essere punito perché, bontà del governo, non pesa a sufficienza. Ma tra noi qualcosa si è spezzato: troppe avventure, troppe emozioni, se qualcuno lo vuole glielo vendo.