30 aprile 2006

Ho nostalgia della mia ex

L'altro giorno in via Brennero ho rivisto la mia ex. Non l'ultima, la penultima: quella che non ho mai dimenticato. In una città piccola come Trento sono cose che capitano e vanno messe in conto. Si può andare a spasso tranquilli per settimane, mesi, anche per anni. Si lascia che il tempo faccia il suo lavoro, ci si illude che il passato sia passato e poi ci si sorprende, un giorno, a riflettere che a quella non ci pensavi proprio più, nemmeno un lampo, un debole ricordo, un'impressione, niente, tutto finito. E invece - zac - eccola lì con il potere, ora come allora, di stringerti lo stomaco e lasciarti senza fiato.
Maledetta.
E passata via veloce mentre pedalavo sulla ciclabile (la riconoscerei fra mille) e si è allontanata verso la città. Primavera, cielo terso, aria ossigenata e senza polveri, sole che scalda le braccia nude ma non morde: una di quelle giornate che favoriscono certe nostalgie.
Senza pensarci ho spinto forte sui pedali per non darle troppo vantaggio, sperando di non vederla scomparire via nel traffico. Alla curva di via Ambrosi era venti metri avanti, disciplinata nella colonna d'auto, bella come allora - almeno agli occhi miei - come se cinque anni fossero passati senza traccia.
Ero stato io a lasciarla perché in lei non avevo più fiducia. Accadde in Austria, durante una vacanza, quando mi piantò in asso senza spiegazioni. Tornai a casa solo e giunto a Trento dissi basta: come te ce ne son tante, chiusa una porta si apre un portone, morto un papa se ne fa un altro e con la speranza di chi pianta un chiodo per scacciare il chiodo vecchio le trovai una sostituta.
Si sa come vanno queste cose: il lavoro, il matrimonio, i figli, pensavo ormai di averla dimenticata finché l'altro giorno mi è comparsa davanti nella via.
In piazza Centa ha accelerato verso la stazione e io dietro col fiatone determinato a non farmela scappare. In via Segantini il semaforo l'ha trattenuta per un attimo e ho recuperato qualche metro, poi ha ripreso a correre verso il centro, via Torre Vanga, via Prepositura e via Rosmini, proprio sotto la facoltà di Sociologia. E lì che l'ho raggiunta tenendomi a distanza con il timore, per l'affanno della corsa e la camicia sudata, di fare la figura dello stupido.
Quando l'uomo che era con lei si è allontanato mi sono fatto sotto, da dietro, e non ho resistito alla tentazione di salirci sopra un'altra volta. Me la ricordavo proprio così: il manubrio largo, il contachilometri rotondo, il serbatoio bianco, la sella arancione e i due grossi cilindri che escono dai lati. La mia vecchia moto: chi l'ha mai dimenticata?
Ero ancora in sella quando quello è tornato e mi ha detto: ehi che fai? Gliel'ho spiegato e - superata un po' di diffidenza - si è messo a ridere. Abbiamo discusso di quella strana vibrazione a bassi giri, di consumi, prestazioni, di partenze a freddo e di come abbia risolto quel problema alla forcella. Tutto sommato era stata fortunata.
Alla fine il nuovo padrone ha tirato fuori le chiavi e mi ha detto: tieni, vai a farti un giro. Gli ho risposto che, no grazie, bastava così: troppe emozioni. Ma se voleva poteva farmi un favore. Risposta: se posso, perché no? E allora gli ho detto: quando vedi uno che anche se è freddo va in automobile con finestrino aperto, il braccio fuori e la testa a prendere il vento, e magari quando lo incroci alza le due dita e ti fa i fari, quello sono io. Se ti va rendimi il saluto perché noi ex, anche quando siamo rinchiusi in una quattro ruote, costretti dietro a un parabrezza col volante al posto del manubrio, spesso intrappolati in una coda interminabile, con un po' di immaginazione facciamo ancora le curve sfiorando l'asfalto col ginocchio.

23 aprile 2006

Nel labirinto degli sport

Potrei anche rimettermi a fare sport - come molti mi consigliano con una battuta sul matrimonio e una risatina che vorrebbe essere intelligente - se non fosse che già al momento di scegliere un'attività mi ritrovo senza energie tanta è l'abbondanza di nomi, tecniche e specialità che ti promettono forma e salute. Ci penso un attimo - sfogliando il catalogo di Sportler da 400 pagine - e già mi sento stanco.
Tutto cominciò vent'anni fa quando mi venne a trovare il mio amico D. con una bicicletta fosforescente e disse: "Vedi questa? Questa qui non è una bici normale ma una mountain-bike". Ah però, risposi senza trovare altre parole, guardando il cambio Shimano che in un batter d'occhio fece diventare sfigati i possessori del tradizionale Campagnolo. Era solo l'inizio perché anche lo sci divenne presto carving (o supercarving se siete tipi in gamba) e sulla neve arrivò la tavola da neve, meglio conosciuta come snowboard. Per i tradizionalisti c'era il Telemark - quella tecnica norvegese con le curve da fare inginocchiati - e d'estate il nordic walking che in pratica è quello che si fa da secoli: si va in montagna a camminare con un bastone in mano, ma da quando lo chiamano così i bastoncini da sci con il puntale in gomma si vendono il triplo. E se in montagna siete tra i pochi che ancora vanno per sentieri a mani nude, niente paura: siete alla moda anche voi, si chiama trekking.
Potevo darmi ai pattini a rotelle (pardon, i rollerblade) che poi era un buon modo per tenermi allenato e d'inverno fare skating, cioè lo sci da fondo a passo pattinato. Ma un altro amico mi mise in mano una rivista facendomi capire che ancora una volta ero rimasto indietro: lì dentro si dicevano meraviglie dello spinning (che è il nuovo nome della cyclette), oppure dei tapis roulant che in palestra ti fanno correre davanti a uno schermo su cui puoi leggere la velocità e i battiti del cuore.
Se proprio devo correre - ho obiettato - lo farò lungo l'Adige come tutti i trentini, fra il ponte di San Giorgio e quello di San Lorenzo, a rischio di morire intossicato dai gas di scarico. Io lo sport lo voglio fare all'aperto, anzi outdoor, ma purtroppo - me ne sono reso conto al primo giro - non avevo le scarpe con il grip giusto e con il tallone ammortizzato e nemmeno la maglietta di tessuto fine traspirante (tale Transtex, lo trovate sempre sul catalogo) che evita quelle anti estetiche macchie di sudore sul torace. Che stress.
Inutile rifugiarsi negli sport dell'acqua: in piscina - orrore - c'è l'acquagym, sui torrenti si scende con il kayak, per i più coraggiosi il rafting e se a un certo punto vi infilate in una gola esultate orgogliosi perché state praticando il canyoning. Quando andate al mare e scendete con la maschera e il boccaglio per vedere i pesci non fate i modesti: si chiama snorkeling e le partite di pallavolo sulla spiaggia - anche quelle con la rete improvvisata - sono beach volley. Se le bocce vi fanno venire in mente l'età della pensione ecco a voi il curling, che si pratica lanciando le stones sul ghiaccio. Insomma ce n'è per tutti ma prima - me l'ha detto sempre quel mio amico - è meglio andare dal medico e farsi un bel check up e poi, per rilassarsi, un bel week end in un centro di wellness, insomma in un posto dove ti mettono a posto e magari hanno anche qualche attrezzo per il fitness, così per tenersi in forma tra un esercizio di stretching e l'altro. Una volta la chiamavano ginnastica e per una minoranza di cui ho fatto parte era "ginnastica correttiva": ci portavano il pomeriggio nella palestra polverosa delle scuole Bellesini, noi ragazzini con la schiena un po' storta, e ci tiravano finché diventavamo dritti. Altri tempi per fortuna.
Alla fine, dopo tante riflessione, l'ho trovato lo sport giusto, col nome rassicurante: le ciaspole. Ah, che bel nome, senza inglese in mezzo, fa per me, solo a sentirlo mi sono appassionato. Ma per andare con le ciaspole serve la neve e in montagna è quasi tutta sciolta. Sono salvo, ne riparliamo quest'autunno.

16 aprile 2006

Perseguitato dai calciofili

Signore e signori, la faccenda è seria: l'Italia è spaccata in due. Veramente. Me ne sono accorto viaggiando in macchina ieri pomeriggio, ore 16 e 30: non serve guardare fuori dal finestrino per capirlo, basta accendere la radio e sentire su Radio Uno la telecronaca delle partite di pallone (quella seria) e su Radio Due la telecronaca delle partite di pallone (quella un po' burlona che quando fanno gol parte la musica brasiliana). Su Radio Tre - dove subito mi rifugio - c'è un palinsesto messo lì apposta per scuotere l'esigua minoranza di indecisi: un programma di musica classica un po' criptica (che non si capisce se è proprio così o se le frequenze sono disturbate) e poi un radiodramma sulla Mesopotamia. E così - in questa Italia divisa in due ma tutta dedicata al calcio - comincio a pigiare quei bottoni alla ricerca disperata di un insulto di Berlusconi, un sermone di Prodi, una porcata di Calderoli, un'esternazione di Cossiga: siamo o non siamo un paese lacerato in attesa di un governo e di un nuovo presidente della Repubblica? Dopo tre mesi di overdose politica non si può lasciare la gente in astinenza, senza un'indiscrezione, una provocazione, un allarme, una minaccia o una smentita.
In questo sabato pomeriggio uggioso ho bisogno di una tribuna politica o una cronachetta parlamentare, ma perché pensare in grande? Mi accontenterei di una dichiarazione dell'escluso Tarolli, di un disegno di legge di Boato, di un attacco dell'ultimo arrivato Fugatti sul voto agli extracomunitari. Niente. Attendo che una comitiva attraversi le strisce pedonali sul ponte di San Lorenzo - sembra un gruppo di turisti e invece è il senatore Giorgio Tonini, proprio lui, con moglie e figli, niente politica, giornata in famiglia - quindi la radio mi informa del "grandissimo gol di Montolivo, gioiellino viola che porta a tre le reti della Fiorentina". Scatto sul due per apprendere - a ritmo di samba - di una rovesciata acrobatica sul campo del Napoli e soprattutto che a Treviso Gustavo non "gusta" il risultato: ah ah ah Buona questa, se solo sapessi chi è Gustavo, perché io del calcio so solo che si gioca in undici e vince chi fa gol. Da piccolo ero interista - avevo anche la maglia - e questo è un buon motivo per chiudere il caso e non pensarci più. E allora punto deciso su Radio 24 dove uno che parla di Pinot nero mi illude per due secondi che c'è dell'altro a questo mondo finché viene interrotto per un gol della Juve che non si capisce di chi è ma viene assegnato a Cannavaro.
Le radio regionali - mi dico - mi daranno soddisfazione, o almeno un po' di musica, ma su Nbc c'è una formazione che "distribuisce il gioco con grandissima sagacia tattica" finché Julio Velasco chiama il time out. Pallavolo. Rullo di tamburi e trombe in sottofondo mentre "Savani batte col salto cercando l'ace diretto ma va lungo". Si salvi chi può.
Sognando una sparata sui brogli elettorali e una rettifica del Viminale - insomma, un po' di adrenalina, datemi in pasto due o tre percentuali e una manciata di senatori esteri a porre condizioni - vedo all'orizzonte una scena che avevo ormai dimenticato: un autostoppista. E' maschio (peccato), capelli un po' lunghi e zainetto sulle spalle, dal giaccone e dagli occhiali si direbbe di sinistra. Metto la freccia soddisfatto: sarà con lui - penso - che potrò fare il bilancio politico di questa settimana, farmi raccontare che ne pensa, come vede il futuro, che si aspetta dal governo, cosa dice di questo Berlusconi che a tratti sembra rabbonito e quasi fa un po' pena. Lui salta a bordo e si sistema - puzza un po' di bagnato, sarà per la pioggia che si è preso - poi tira fuori un pezzo di carta dallo zaino, indica la radio con il dito e dandomi del tu dice, come se non ci fosse altro di cui occuparsi: "Scusa, non sai mica cosa ha fatto la Juventus?".

09 aprile 2006

Un voto da immortalare

So che è vietato, ma lo farò lo stesso: entrerò nella cabina elettorale, aprirò la scheda e con la matita copiativa disegnerò una croce nel rettangolo giusto. Quindi - e qui sta il punto - con il telefonino in modalità silenziosa (niente click) fotograferò il mio voto e lo terrò in tasca, come ricordo di quest'indimenticabile campagna elettorale.
La vera difficoltà non sarà farla franca, visto che il presidente del seggio non potrà perquisirmi né sequestrarmi il telefonino o la macchina fotografica: la legge del 1957 non lo prevede, di telefonini e fotografie non fa cenno e l'unica contromisura sarà un cartello affisso da qualche parte dentro il seggio per avvisare che nella cabina elettorale non si possono usare fotocamere. Così almeno dice il commissario del governo.
La vera difficoltà sarà far stare la scheda lenzuolo - quella per l'elezione della Camera, con diciassette simboli diversi - dentro il piccolo obiettivo del telefonino. Ma io ci proverò.
Sarebbe stato bello fare quel segno accanto a un nome, come si faceva le altre volte quando non eravamo convinti dei partiti e ci consolavamo prima della tornata elettorale: "Ma quale simbolo, io voto la persona". E poi ci ritrovavamo lì nel seggio, sul grande tabellone, a scorrere le lunghe liste di nomi con la data di nascita e c'era sempre qualche parente o vicino di casa che si era reso disponibile senza speranza, giusto per la causa. Questa volta non c'è da scegliere nessun nome, vince il primo della lista, e l'ordine dei favoriti l'hanno già scelto loro, quelli che stanno nei palazzi. A noi elettori, che dai palazzi stiamo fuori, tocca adeguarci e farcela andar bene.
Ma che me ne farò di quella foto che probabilmente, visto il luogo ristretto e l'agitazione del momento, verrà mossa, sfuocata e anche un po' scura? La legge - questo sì - vieta che dietro a un voto si nascondano piaceri, denaro, obblighi morali o ancora peggio minacce o ritorsioni. E' vietato chiedere il voto e promettere in cambio una cena al ristorante, non si possono pagare le spese di viaggio a un elettore in cambio della sua preferenza, vietatissimo offrirgli un posto di lavoro in cambio di quella croce al posto giusto (un milione invece si può). Ma non si tratta di questo, perché la mia foto me la terrò ben stretta senza presentarla all'incasso nemmeno quando tra due, tre o quattro settimane, comincerà il solito teatrino di noi cittadini che ci ritroveremo al bar, negli uffici o davanti alla tivù a discutere del presidente (ma anche del governatore e del sindaco) senza che salti fuori uno (uno) che gli abbia dato il voto.
Quella foto non la tirerò fuori nemmeno in famiglia perché voglio vivere tranquillo, senza sorprese, anche quando arriveranno i parenti in visita che non si sa mai come la pensano ed è meglio così, altrimenti il pranzo pasquale potrebbe diventare un vero inferno come sono state tante cene tra amici in questa campagna elettorale.
Ma allora perché rischiare quattro anni di galera - questa la pena, ma io non sono convinto - per scattare una foto in barba al cartello che dice che non si può? E' questione di orgoglio, con tutto quello che ci hanno fatto passare in questi mesi voglio tenere quella foto nel telefonino e guardarla di tanto in tanto sperando di aver fatto la cosa giusta. Correrò il rischio - questo lo so già - di prestare il telefonino al mio amico D. che vorrà fare una chiamata, proprio lui che in politica ha idee diverse dalle mie. Allora, come fa spesso, curioserà tra le funzioni del cellulare, suonerie e videogiochi, finché arriverà alle fotografie e vedrà quell'immagine strana. Ci metterà un po' a capire, la girerà sotto sopra, la ingrandirà per essere sicuro e poi - agitando il mio telefonino in mano - alzerà il volto con gli occhi sgranati e sbotterà: "Ma sei coglione?". Sarà una gran soddisfazione.

02 aprile 2006

Sotto esame con il vino

Ma cosa pensa il cameriere mentre mi versa il vino nel bicchiere e poi composto attende che io lo assaggi e gli dia il nulla osta? Lui sta lì in piedi, chinato un po' in avanti con la bottiglia obliqua per farmi vedere l'etichetta, io afferro il calice con la mano sudata e un po' tremante, lo faccio girare appena perché così mi hanno insegnato, poi lo accosto alle labbra e mi accorgo che al mio tavolo (ma che dico? nell'intero ristorante) scende un silenzio improvviso e tutti gli occhi puntano su di me, l'improvvisato sommelier che dovrà decidere in due secondi se quel vino da trenta euro la bottiglia è buono oppure no.
"Ma chi ha il coraggio di mandarlo indietro?" penso mentre sollevo quel bicchiere come un condannato a morte farebbe con una coppa di veleno. Odio quel cameriere che mi fissa, odio mio suocero, seduto alla mia sinistra, che con un gesto generoso e perentorio ha fatto intendere che quel vino - quale onore - l'avrei assaggiato io anche se poi a fine pasto sarà lui a pagare il conto (almeno spero).
Come fa caldo in questo locale, mentre mi consolo pensando alle statistiche che sono a mio favore: su cento bottiglie solo due o tre una volte aperte sanno di tappo (sentore di tappo, dicono gli esperti, colpa di una specie di fungo che attacca il sughero e rovina il vino coprendone gli aromi), le altre vanno bene e la mia sarà una di quelle.
Ma che c'è scritto sull'etichetta, Santa Maddalena? Non so nemmeno dove lo facciano questo vino che il cameriere ha garantito essere eccellente. Se almeno giocassi in casa - Mezzocorona, Mezzolombardo, valle dei Laghi, Teroldego, Marzemino, una bottiglia di buon Rebo - potrei forse azzeccare un giudizio, una battuta fulminante copiata da qualche recensione letta sul giornale. Invece sono un cieco in una stanza ingombra di cristalli e da me dipendono i destini dell'intera tavolata: gli uomini mi guardano con il sollievo di chi sa che tocca a un altro, le donne, che da questo supplizio sono esenti, cominciano crudeli a dare segni di impazienza. E allora bevo.
Ah, come vorrei essere come quel tipo, quell'uomo brillante del tavolo là accanto, che due minuti fa ha intrattenuto la sua compagna regalando una lezione di enologia al cameriere. Oppure come quell'altro che faceva frullare il vino nel bicchiere e poi l'ha ingollato con una sorsata secca come se fosse un'aranciata. Sento questo vino rosso sul palato e penso che forse, per darmi un tono, dovrei far schioccare la lingua per dare a intendere che sto assaporando prima di decidere, ma il teatro non fa per me e rinuncio a questa scena.
Qualcosa non funziona: l'uomo con il grembiule che ho di fronte (e mi pressa con la sua bottiglia in mano) di vino ne sa molto più di me eppure mi concede con finta cortesia di avere l'ultima parola. Se io farò pollice verso, lui dovrà tornare in cantina con la sua bottiglia aperta e risalire con un'altra. Ci proverò, un giorno, ma non oggi.
Un dubbio ora mi assale e mi fa sudare: il vino che ho appena sorseggiato ha un sapore strano, ma come faccio a sapere se c'è qualcosa che non va oppure se sono quei profumi dei vini costosi così diversi dalle bottiglie da quattro o cinque euro? Nel dubbio scelgo la via breve, quella scontata, anche se mi avessero servito aceto: "Va bene" dico, fingendo aria esperta e rinunciando a commentare. E tutto fila liscio.
Poi - durante una pausa prima del caffè - prendo da parte il sommelier e un po' sfacciato gli domando: "Senta un po', ma che pensate voi mentre noi assaggiamo il vino?". Lui mi guarda sospettoso ma poi rivela il suo segreto: "A niente, non pensiamo proprio a niente, speriamo solo che facciate in fretta perché ci sono altri sei tavoli da servire. Tutto qui". Non so voi, ma io ora mi sento più tranquillo.