28 gennaio 2010

Una notizia che mi ha lasciato secco

salinger giovane holden the catcher in the rye
Stavo lì davanti al computer a navigare tra tutta quella roba che mettono ogni giorno sui siti internet e via dicendo quando ho letto questa notizia che per poco non mi ha lasciato secco. Lui, intendo dire il vecchio J.D., era morto. Siamo sinceri: era come se fosse morto da sempre visto che in pratica si era sepolto vivo dopo aver scritto un libro. Un libro solo, perché gli altri - siamo ancora più sinceri - è come se non li avesse scritti mai. Ma io li ho comprati lo stesso. Anche gli altri. E' ovvio. Alla fine, poiché l'unico che mi interessava era quello, me lo sono comprato anche in inglese, per leggere esattamente le SUE parole e non quelle della traduttrice. So che voi potete capire, voi che sapete perché sto scrivendo in questo modo e tutto quanto.
Insomma ora so cosa si prova quando muore uno di quegli scrittori. Prima non lo sapevo perché quando lessi la versione del vecchio Barney lui era già morto (cazzo! cazzo! cazzo!).
Sono libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. Nessuno potrà più chiamare il vecchio J.D. al telefono. E probabilmente neanche prima, nel caso vi fosse venuto il dubbio. E' da gente come lui che di fronte a un laghetto ghiacciato in mezzo ai grattacieli impariamo a porci la domanda giusta. E cioè: ma dove vanno le anatre d'inverno?
Aveva 91 anni. Un'età per cui io farei la firma, se proprio ci tenete a saperlo. Ma questa è un'altra storia. Non dovevano intitolargli una scuola di scrittura. Lui odiava queste cose. Lui avrebbe odiato anche un post come questo, se è per quello. L'aveva scritto chiaro: "Spero con tutta l'anima che quando morirò qualcuno avrà tanto buonsenso da scaraventarmi nel fiume o qualcosa del genere. Qualunque cosa, piuttosto che ficcarmi in un dannato cimitero". Figuriamoci se avrebbe gradito un dannato"coccodrillo".
Del Giovane Holden vorrei tanto scrivere che è un libro eccezionale, eccetera, eccetera, ma mi trattengo. Eccezionale. Se c'è una parola che odio è eccezionale. È talmente fasulla. Vorrei tanto averlo scritto io. E invece è stato lui. Se solo avessimo potuto chiamarlo al telefono, chissa cosa ci avrebbe detto.

Come minimo: andate a leggere QUI qualche passaggio di J.D. Salinger. Giuro che è roba da far venire la pelle d'oca.

02 gennaio 2010

Fausto

coppi e bartali

Nel cinquantesimo anniversario dalla morte di Fausto Coppi (oggi) voglio pubblicare questo pezzo che aveva tutto un altro scopo (e forse ce l'ha ancora) ma è rimasto a sonnecchiare sul mio disco rigido. Ho letto sui giornali le commemorazioni e ho capito che, sebbene incompleto, era giunta l'ora di tirarlo fuori.


... quando mancavano quarantaquattro tornanti al passo seppe che ce l'avrebbe fatta perché lui era Bartali, il grande campione, e saliva le rampe dello Stelvio sotto l'ultima neve di maggio con il passo del ciclista in stato di grazia. Mancavano quarantatre tornanti alla vetta ma lui - Bartali - saliva senza paura, guardando in alto, lungo i fianchi delle Alpi, quella traccia che l'avrebbe portato in cima e poi giù di volata, verso la gloria del traguardo.
E' bello scalare il passo Stelvio, questa rampa infinita e spaventosa, se sulla maglia hai scritto Bartali e sui pedali ci sono due gambe lucide e ubbidienti che spingono un rapporto da cinque metri e mezzo. E' bello leggere sui paracarri austriaci il conto alla rovescia dei tornanti - ne mancano solo quarantatre, che ci vorrà mai? - mentre gli avversari restano indietro, staccati, uno ad uno, regalando al morale quella marcia in più che l'uomo al comando inserisce per filare dritto verso la vittoria. E' bello prendere la rincorsa sul pavè del sesto tornante (ne mancano 42 alla vetta) per lanciarsi sul rettilineo sincronizzando i respiri, profondi e regolari, con i colpi di pedale.
Nell'attesa dello scollinamento Bartali, ancora incredulo, prega la Madonna, lui che ce l'ha una Madonna da pregare, che lo porti in cima e poi giù verso il traguardo di Bormio a prendere la maglia rosa.
E' bello sentire un cuore da bisonte che batte regolare dentro il petto, un cuore che la mattina borbotta quaranta battiti al minuto ma quando serve può arrivare a centottanta. Un cuore di quelli che - dicono i dottori - si vedono una volta ogni venticinque anni e sarebbe un prodigio sprecato - dicono i direttori sportivi - se finissero a lavorare i campi invece di fare il motore di una bicicletta.
E' bello - essendo Bartali - sentire lo stomaco che spreme l'energia dal pane e salame, l'acqua della borraccia che va a rimpiazzare il sudore che è caduto copioso sulla ghiaia della strada.
Allora Bartali - l'invincibile Bartali - è lì che prega la Madonna e pedala regolare sul passo dello Stelvio, una pedalata e un respiro, una pedalata e un respiro, quando al ventiduesimo tornante (ne mancano solo ventisei!) commette l'errore di alzare per la prima volta gli occhi dal manubrio, avvicinarsi al parapetto e guardare verso il basso dove - invece del vuoto - vede la maglia bianco-celeste di un fantasma. Ma Fausto Coppi - pensa Bartali - è troppo distante, quattro tornanti più sotto, anche se pare che abbia il motore, laggiù, davanti alle motociclette, con quella cassa toracica sgraziata (ma quant'è larga?) che però sul sellino di una bicicletta diventa una caldaia con la pressione al massimo.
I polmoni di Fausto Coppi bruciano sette litri d'aria di montagna al colpo e poi soffiano vapore, mettendo in moto due stantuffi che girano potenti portando il campione alla ruota del rivale.
E' dura essere Gino Bartali quando dietro arriva Fausto Coppi, con il suo cuore da cavallo che a riposo fa trentacinque battiti al minuto, uno che - dicono i dottori - nasce solo una volta ogni cinquant'anni e per un destino infame arriva proprio quando a dominare la scena c'eri tu.
Sia maledetto Fausto Coppi. Gino Bartali si alza furioso sui pedali, si attacca alla borraccia (non quella dell'acqua, l'altra) manda al diavolo la Madonna e si rituffa sul manubrio. Ma al trentottesimo tornante - quando ne mancano dieci appena, ma sembrano tantissimi - le gambe sono diventate bielle di gomma invece che d'acciaio, lo stomaco non ha più cibo da trasformare in benzina e Fausto Coppi è lì dietro - con la sua caldaia enorme che sbuffa tra i cumuli di neve - a farti saltare i nervi con quei capelli scuri e impomatati. Se fosse solo per quel sapore di sangue che sente in bocca (ha rotto i capillari per lo sforzo) Gino Bartali si accoderebbe alla ruota del nemico e ci resterebbe inchiodato fino alla morte. Ma la bava gli incolla le mascelle, le gambe si incendiano e la nebbia gli scende sugli occhi. Se non fosse che siamo nel 1953 ci sarebbe la televisione a riprenderlo, ma su quella strada di montagna - dove il Giro d'Italia passa per la prima volta (mai erano saliti così in alto!) - Gino Bartali, solo con l'avversario, sente il respiro potente di Fausto Coppi che prende la rincorsa, scatta e lo sorpassa al quarantaquattresimo tornante (quando ne mancano solo quattro alla fine!) lui che invece di una Madonna da pregare ha una bella signora bianca che lo attende giù al traguardo. Gino Bartali lo vede affrontare l'ultima curva su quella bicicletta di colore celeste-Bianchi e poi farsi più distante. Lo può solo immaginare mentre si lancia in discesa con un foglio di giornale sotto la maglietta - e forse neanche quello - per proteggersi dal gelo. Gli spettatori che applaudono sul passo gli leggono negli occhi un velo di tristezza, come se per un attimo (uno soltanto!) avesse pensato al fratello Serse Coppi morto in corsa e alle ossa troppo fragili che lui, Fausto, si ruppe pedalando senza paura sulle strade del Trentino. Bartali ormai è staccato, ma è come se lo vedesse - perché l'ha visto tante volte - stringere il manubrio come le corna di un toro e lanciarsi verso Bormio.
Poi per un attimo - Bartali lo sa - Coppi stacca la mano destra dalla bicicletta e la porta sulla tasca posteriore della maglia per controllare che sia tutto a posto. Quando sarà all'arrivo prenderà quel pettine e lo passerà tra i capelli prima di giungere a tiro dei fotografi.
Bartali invece no. Al tornante numero quarantotto (l'ultimo) rallenta il passo. Siamo nel 1953 e non c'è la televisione, quindi nessuno lo vede mentre con le lacrime agli occhi appoggia un piede a terra (Bartali appoggia un piede a terra!) e con la forza della disperazione...