18 giugno 2006

Alla scoperta del fresco

Ogni anno arriva un giorno in cui la città non è più divisa fra ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, italiani ed extracomunitari, studenti e lavoratori ma l'unica distinzione che conta - in quelle prime giornate estive - è fra chi ha il condizionatore e chi invece muore dal caldo. In giugno bastano tre giorni di sole perché il caldo si faccia largo negli edifici e non se ne vada più. Allora, in quelle mattine afose in cui uno apre gli occhi prima ancora che suoni la sveglia, già sudato, con il cielo sereno ma velato d'umidità e il sole minaccioso pronto a riscaldare la città come un forno, in quel momento la città si divide in due grandi gruppi: ci sono quelli delle banche, delle grandi aziende, di molti negozi e degli uffici pubblici (ma non tutti) che si stringono il nodo alla cravatta e non vedono l'ora - per una volta - di entrare in ufficio, premere un bottone e ritrovare l'inverno; poi ci sono tutti gli altri, quelli che si cambiano la camicia mattina e pomeriggio ma quando si siedono alla scrivania ce l'hanno già bagnata, quelli con le perle di sudore sulla fronte, quelli che la camicia (se possono) se la tolgono del tutto e quelli disperati che si portano da casa un ventilatore da mettere sul tavolo, quella specie di condizionatore di serie b che smuove l'aria calda regalando l'illusione che sia fresca ma se ti lasci abbindolare troppo a lungo ti ritrovi la sera con i muscoli bloccati.
Sono i giorni in cui gli umili lavoratori dei magazzini sotterranei - dove la luce non arriva ma almeno si sta freschi - si prendono la rivincita su certi impiegati di mezzo livello a cui l'azienda non ha voluto concedere l'aria condizionata.
Lavorare nei supermercati è un sollievo, nei ristoranti - dove si va avanti e indietro dalla cucina bollente ai tavoli - un vero inferno. Quelli che stanno meglio sono i capi degli uffici e la fila di segretarie e dipendenti che respirano dagli stessi bocchettoni: finestre chiuse per tenere fuori il sole, nel loro ufficio c'è solo un soffice ronzio con il termometro elettronico che segna appena venti gradi, là in fondo appeso al muro. Sono i giorni in cui - anche se è bel tempo - si sta molto meglio dentro che fuori dal palazzo.
Ma da dove viene questa brezza che soffia in certe stanze? Per scoprirlo io e la mia collega M. - che fa la cronaca nera e quindi ama le indagini - abbiamo deciso di andare in uno di quei palazzi di vetro a Centochiavi. Siamo partiti dall'ufficio di un pezzo grosso, dove nei giorni più caldi dell'estate per stare bene bisogna infilarsi un maglioncino (il potere è direttamente proporzionale al fresco: più conti, più bassa è la temperatura del tuo ufficio). Lì dentro c'è una feritoia da cui esce, giorno e notte, un vento artico che ha fatto morire anche le piante, ma quel che importa è che il vestito sia perfetto. Dietro c'è un tubo e per risalire alla fonte del fresco l'abbiamo seguito in giro per il palazzo, da un ufficio all'altro, poi nel vano delle scale, quindi ai piani superiori e infine dietro ad una porta grigia di ferraccio con la scritta "vietato l'ingresso ai non addetti".
Oltrepassata quella porta - i giornalisti quando fanno il loro mestiere sono sempre degli addetti - la moquette lascia il posto al cemento grezzo e i tubi corrono liberi lungo il soffitto per finire, tutti assieme, in una stanza dove rombano i motori. Altro che fresco, lì dentro si soffoca e i contatori di energia elettrica alla parete girano impazziti. Per cercare un po' di sollievo siamo fuggiti su una scaletta metallica un po' traballante e ci siamo ritrovati sul tetto accecati dal sole, ma il vero calore veniva dai camini scintillanti che facevano tremare l'aria come nel deserto, pompando l'afa fuori dal palazzo. Da dove venga l'aria condizionata non l'abbiamo capito, ma ora sappiamo che per stare al fresco quelli dentro il palazzo sono disposti a lessare tutta la città.

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