Chiusa al pubblico da secoli, come si conviene a una (ex) prigione la torre civica di Trento sarà accessibile per la prima volta ai cittadini dopo il restauro che il Comune si avvia a progettare. Ne parleremo nel 2010. Nel frattempo, se volete sapere com'è lassù, potete dare un'occhiata qui alle foto ufficiali che il fotografo del Trentino ha scattato ieri. Ma salendo sulla torre medievale (43 metri d'altezza sopra piazza Duomo, ci si arriva passando attraverso una piccola botola) ci siamo resi conto che il progetto darà fastidio a qualche persona molto in vista. Ad esempio al signore che talvolta fa colazione qui (imprenditore che preferisce non essere nominato), oppure alla signora che nei giorni di bel tempo prende il sole qui, ma anche al signore che trascorre qui le serate estive e alla signora che esercita il suo pollice verde quassù, per non parlare della famiglia che riceve qui i suoi ospiti o di quella che vive quassù. Si tranquillizzino questi signori: lassù in alto, a turbare la loro privacy sui tetti più cari della città, arriveranno solo piccoli gruppi di 5 persone al massimo, di più non è possibile farne salire sulle strette scale in legno che si arrampicano dentro la torre.
Nella foto, vista di piazza Duomo dalla Torre Civica
30 novembre 2006
29 novembre 2006
SMS=S(mog) M(aledetto) S(mog)
Ok l'ho fatto: anche se vado in giro in bicicletta mi sono iscritto al nuovo servizio comunale. Ho spedito un sms con la scritta "traffico" al numero 346 3060824 e dopo due minuti mi è arrivata la risposta che vedete sullo schermo del telefono qui a fianco (se non la vedete fate un clic sopra la foto e diventerà grande). Grazie Comune, di avermi avvisato che per sei ore al giorno non troverò in giro veicoli a benzina Euro 0 oppure diesel Euro 1 a meno che... non sia l'auto del medico o del veterinario, l'ambulanza, l'auto di polizia o carabinieri, del lattaio o del panettiere, lo scuolabus, il pulmino dei disabili, il postino o il giornalaio, la guardia giurata oppure il detective (?), il camion della spazzatura e addirittura il trattore (ma se proprio non può farne a meno) oppure l'auto dei lavoratori che (per motivi di orario) non possono prendere l'autobus e fanno vedere la giustificazione del datore di lavoro. E in caso di targhe alterne potranno circolare tranquilli anche i preti, ma soltanto se vanno a dire messa o a confessare. Tutto questo, caro Comune, non me l'hai detto nei 160 caratteri del messaggino telefonico ma ti perdono perché me l'hai spiegato qui. Ogni anno la stessa storia, non stupirti quindi se la penso ancora come quando scrissi: La targa? In prestito.
28 novembre 2006
WC/1 Anche ai giudici piace Monica
Ci sono giornalisti che scrivono le recensioni dei ristoranti, altri che si occupano di libri, c'è chi si intende di musica e chi scrive di teatro. Ebbene anch'io mi voglio specializzare e seguendo una mia naturale inclinazione mi occuperò di... wc, quei luoghi in cui mi rifugio con grande urgenza e di cui - vista la frequenza delle mie frequentazioni - sono diventato un grande esperto.
Seguitemi, dunque, lungo i corridoi di palazzo di giustizia - luogo a me noto per motivi di lavoro - dove c'è il paradiso di noi disperati dall'intestino iperattivo. Lasciate perdere il bagno del primo piano dove non c'è lo specchio e nemmeno la chiave per garantirsi la tranquillità necessaria. Superate i bagni della procura - dove il via vai è elevato ed è alto quindi il rischio che qualcuno venga a bussare alla vostra porta sorprendendovi impegnati. Evitate il bagno del tribunale dove i giudici - forse per salvaguardare la loro indipendenza - chiudono la porta con una chiave disponibile solo a pochi eletti. Salite quindi al terzo piano e infilatevi di corsa - perché il tenpo stringe - in un corridoio accogliente, dai soffitti mansardati e rivestiti in legno, che prima scende dritto, poi piega a sinistra per terminare, infine, nel luogo della vostra salvezza.
Non cadete nella tentazione di infilare il bagno delle donne, resistete di fronte all'ampio ingresso del bagno dei disabili ed entrate nell'ultima porta, quella con l'omino maschio. Signori, tirate un sospiro di sollievo e guardatevi attorno: siete nel wc dei magistrati più alti in grado dell'intero palazzo di giustizia. Ecco a voi il gabinetto - non si chiamano anche così gli uffici? - di giudici e funzionari della corte d'appello. Apprezzate la perfetta insonorizzazione, soffermatevi sul sommesso ronzio della potente ventola che non fa rimpiangere l'assenza di finestre, considerate l'ampia scorta di carta igienica che certo non si esaurirà all'improvviso lasciandovi nei guai, rilassatevi certi che a quella porta - così lontana dalle rotte più battute del palazzo - non busserà nessuno cogliendovi sul fatto.
E ora - che siete salvi, comodamente seduti su una tazza pulita, che avrete avuto cura di rivestire con due o tre strati di carta igienica secondo la consueta tecnica - prendetevi il lusso di osservare i dettagli che fanno di questo bagno un wc di prima classe. Alla vostra sinistra ecco un poster gigante di Monica Bellucci, foto d'autore per GQ, che si riflette nello specchio sopra il lavandino regalandovi la piacevole illusione che quell'occhiata provocante - raddoppiata - sia per voi. Ma se preferite una bellezza bionda girate la testa quanto basta, verso destra, per godere il poster di Eva Mendes, la modella, appeso con lo scotch (doppio) proprio lì sopra la tazza.
Fate con comodo, lì dentro non c'è fretta, poi quando uscite e scendete ai piani bassi, come se nulla fosse, ponetevi anche voi l'automatica domanda: ma chi ce l'ha messe Eva e Monica nel bagno degli alti magistrati?
Seguitemi, dunque, lungo i corridoi di palazzo di giustizia - luogo a me noto per motivi di lavoro - dove c'è il paradiso di noi disperati dall'intestino iperattivo. Lasciate perdere il bagno del primo piano dove non c'è lo specchio e nemmeno la chiave per garantirsi la tranquillità necessaria. Superate i bagni della procura - dove il via vai è elevato ed è alto quindi il rischio che qualcuno venga a bussare alla vostra porta sorprendendovi impegnati. Evitate il bagno del tribunale dove i giudici - forse per salvaguardare la loro indipendenza - chiudono la porta con una chiave disponibile solo a pochi eletti. Salite quindi al terzo piano e infilatevi di corsa - perché il tenpo stringe - in un corridoio accogliente, dai soffitti mansardati e rivestiti in legno, che prima scende dritto, poi piega a sinistra per terminare, infine, nel luogo della vostra salvezza.
Non cadete nella tentazione di infilare il bagno delle donne, resistete di fronte all'ampio ingresso del bagno dei disabili ed entrate nell'ultima porta, quella con l'omino maschio. Signori, tirate un sospiro di sollievo e guardatevi attorno: siete nel wc dei magistrati più alti in grado dell'intero palazzo di giustizia. Ecco a voi il gabinetto - non si chiamano anche così gli uffici? - di giudici e funzionari della corte d'appello. Apprezzate la perfetta insonorizzazione, soffermatevi sul sommesso ronzio della potente ventola che non fa rimpiangere l'assenza di finestre, considerate l'ampia scorta di carta igienica che certo non si esaurirà all'improvviso lasciandovi nei guai, rilassatevi certi che a quella porta - così lontana dalle rotte più battute del palazzo - non busserà nessuno cogliendovi sul fatto.
E ora - che siete salvi, comodamente seduti su una tazza pulita, che avrete avuto cura di rivestire con due o tre strati di carta igienica secondo la consueta tecnica - prendetevi il lusso di osservare i dettagli che fanno di questo bagno un wc di prima classe. Alla vostra sinistra ecco un poster gigante di Monica Bellucci, foto d'autore per GQ, che si riflette nello specchio sopra il lavandino regalandovi la piacevole illusione che quell'occhiata provocante - raddoppiata - sia per voi. Ma se preferite una bellezza bionda girate la testa quanto basta, verso destra, per godere il poster di Eva Mendes, la modella, appeso con lo scotch (doppio) proprio lì sopra la tazza.
Fate con comodo, lì dentro non c'è fretta, poi quando uscite e scendete ai piani bassi, come se nulla fosse, ponetevi anche voi l'automatica domanda: ma chi ce l'ha messe Eva e Monica nel bagno degli alti magistrati?
27 novembre 2006
Sindaco, guarda e impara!
Caro sindaco di Trodena, sì tu, proprio tu, incubo degli automobilisti di Cavalese che ogni giorno passano sul tuo territorio e finiscono immortalati dal terribile autovelox che hai fatto installare a passo di San Lugano (anzi terribili, perché sono due, uno per parte: non si scappa!), caro sindaco, dicevamo: guarda qui come si fa! E non mi dire che dalle tue parti non si può perché è troppo freddo... E' vero, questa mattina c'erano 0°C, brina sui prati, ma queste bionde sono scandinave... resistono a ben altro. Ai cittadini che ti chiedono più sicurezza devi rispondere così, come hanno fatto a Copenhagen... e poi vuoi mettere il richiamo turistico?
26 novembre 2006
L'ingiusto processo
Un processo così non si era visto mai. Per l'occasione dagli uffici della procura avevano mandato un giovane pm, di primo pelo si sarebbe detto, se non fosse che era una donna. Davanti a sé, sul primo tavolo dell'aula, teneva un fascicolo smilzo con un numero scritto sopra : 640, cioè truffa, l'odioso reato (che in Italia in realtà non è abbastanza odiato) commesso da chi raggira il prossimo a proprio vantaggio.
Lui, l'imputato, non c'era: si sa che in tribunale si presentano solo gli innocenti, a soffrire, mentre i colpevoli stanno lontani perché sanno già come funziona. La vittima, invece, quella giovane gabbata che oltre al danno aveva subito anche la beffa di ritrovarsi sui giornali in una situazione dove - effettivamente - faceva la figura dell'ingenua, lei era presente. Per essere lì in prima fila si era presa una giornata di permesso e aveva gli occhi illuminati di speranza perché era arrivato il suo momento: forse non avrebbe più rivisto i suoi soldi, questo lo capiva, gli eventi infatti le avevano consumato anche le ultime scorte di ottimismo, ma avrebbe avuto giustizia e questa - pensava - era la cosa più importante.
Cominciò il dibattimento e il giudice, magistrato stimato, ormai a fine carriera, stava lì sullo scranno con gli occhi chiusi. Uno spettatore inesperto avrebbe pensato, sbagliando, che si era addormentato, ma la verità è che si stava concentrando per non perdere una battuta di quanto veniva detto.
Parlarono i testimoni che si erano presentati puntuali, saltando una giornata di lavoro. In aula spuntò una vecchia fotografia dell'imputato, quel truffatore noto ormai a mezza città, e i testi che avevano atteso per ore in corridoio, sulla panchetta dura di legno, furono tutti concordi e felici di affermare: "Sissignore, questo è lui".
Il giudice parve allora fare un cenno con la testa (ma su quel movimento non vi fu certezza) e la giovane pm pensò che aveva la vittoria in tasca. La vittima della truffa assaporava già la soddisfazione di veder condannato il furfante che l'aveva messa nel sacco, ma l'avvocato difensore - che aveva rinunciato a prendere qualunque iniziativa - continuava tranquillo a buttare giù appunti su un blocco di fogli che nulla aveva a che fare col processo. Il vecchio maresciallo, unico presente nel settore riservato agli spettatori con l'incarico di garantire l'ordine pubblico, pensò: "Questo qui ha un asso nella manica" compiacendosi di come ormai, dopo tanti anni trascorsi nelle aule di giustizia, era diventato un vero intenditore.
Giunse per la pubblica accusa il momento di chiedere la condanna e l'avvocato difensore, nemmeno in quel momento, tradì la minima emozione limitandosi, senza alzare il capo dagli appunti, ad appellarsi alla bontà del giudice. Quello che segue accadde in un attimo (ma la vittima impiegò alcuni giorni per rendersene conto). Il giudice aprì gli occhi all'improvviso e senza ritirarsi in camera di consiglio tirò fuori la mano destra dalla toga e cominciò a scrivere veloce con la penna biro Bic fornita dal ministero. Quindi prese il foglietto in mano e cominciò a leggere di fronte all'aula dove i quattro presenti, carabiniere incluso, si levarono in piedi rispettosi: “Visti gli articoli del codice penale il tribunale condanna...”. La truffata udì quella parola e sentì il cuore gonfiarsi di gioia, ripagata dell'amarezza e persino (pensò in quell'istante) dei risparmi che aveva perso in quell'affare. Peccato solo che l'imputato fosse assente, perché la sua presenza avrebbe moltiplicato il gusto intenso della rivincita. I pensieri – povera vittima – si rincorrevano veloci nella sua mente. Troppo veloci. Forse per questo non ascoltò il vecchio magistrato che continuava a parlare dicendo “...pena condonata per l'indulto” prima di sedersi stanco, chiudere nuovamente gli occhi e sussurrare: “Avanti il prossimo”.
P.S.: ogni riferimento a fatti realmente accaduti è assolutamente intenzionale.
Lui, l'imputato, non c'era: si sa che in tribunale si presentano solo gli innocenti, a soffrire, mentre i colpevoli stanno lontani perché sanno già come funziona. La vittima, invece, quella giovane gabbata che oltre al danno aveva subito anche la beffa di ritrovarsi sui giornali in una situazione dove - effettivamente - faceva la figura dell'ingenua, lei era presente. Per essere lì in prima fila si era presa una giornata di permesso e aveva gli occhi illuminati di speranza perché era arrivato il suo momento: forse non avrebbe più rivisto i suoi soldi, questo lo capiva, gli eventi infatti le avevano consumato anche le ultime scorte di ottimismo, ma avrebbe avuto giustizia e questa - pensava - era la cosa più importante.
Cominciò il dibattimento e il giudice, magistrato stimato, ormai a fine carriera, stava lì sullo scranno con gli occhi chiusi. Uno spettatore inesperto avrebbe pensato, sbagliando, che si era addormentato, ma la verità è che si stava concentrando per non perdere una battuta di quanto veniva detto.
Parlarono i testimoni che si erano presentati puntuali, saltando una giornata di lavoro. In aula spuntò una vecchia fotografia dell'imputato, quel truffatore noto ormai a mezza città, e i testi che avevano atteso per ore in corridoio, sulla panchetta dura di legno, furono tutti concordi e felici di affermare: "Sissignore, questo è lui".
Il giudice parve allora fare un cenno con la testa (ma su quel movimento non vi fu certezza) e la giovane pm pensò che aveva la vittoria in tasca. La vittima della truffa assaporava già la soddisfazione di veder condannato il furfante che l'aveva messa nel sacco, ma l'avvocato difensore - che aveva rinunciato a prendere qualunque iniziativa - continuava tranquillo a buttare giù appunti su un blocco di fogli che nulla aveva a che fare col processo. Il vecchio maresciallo, unico presente nel settore riservato agli spettatori con l'incarico di garantire l'ordine pubblico, pensò: "Questo qui ha un asso nella manica" compiacendosi di come ormai, dopo tanti anni trascorsi nelle aule di giustizia, era diventato un vero intenditore.
Giunse per la pubblica accusa il momento di chiedere la condanna e l'avvocato difensore, nemmeno in quel momento, tradì la minima emozione limitandosi, senza alzare il capo dagli appunti, ad appellarsi alla bontà del giudice. Quello che segue accadde in un attimo (ma la vittima impiegò alcuni giorni per rendersene conto). Il giudice aprì gli occhi all'improvviso e senza ritirarsi in camera di consiglio tirò fuori la mano destra dalla toga e cominciò a scrivere veloce con la penna biro Bic fornita dal ministero. Quindi prese il foglietto in mano e cominciò a leggere di fronte all'aula dove i quattro presenti, carabiniere incluso, si levarono in piedi rispettosi: “Visti gli articoli del codice penale il tribunale condanna...”. La truffata udì quella parola e sentì il cuore gonfiarsi di gioia, ripagata dell'amarezza e persino (pensò in quell'istante) dei risparmi che aveva perso in quell'affare. Peccato solo che l'imputato fosse assente, perché la sua presenza avrebbe moltiplicato il gusto intenso della rivincita. I pensieri – povera vittima – si rincorrevano veloci nella sua mente. Troppo veloci. Forse per questo non ascoltò il vecchio magistrato che continuava a parlare dicendo “...pena condonata per l'indulto” prima di sedersi stanco, chiudere nuovamente gli occhi e sussurrare: “Avanti il prossimo”.
P.S.: ogni riferimento a fatti realmente accaduti è assolutamente intenzionale.
Tre, due, uno.... partenza!
Signore e signori questo blog inizia ora, quello che c'è prima è materiale già uscito sul giornale.
Buona lettura a chi avrà voglia di seguirmi alla scoperta di ciò che c'è... fuori dal palazzo! Il viaggio comincia e continuerà almeno fino quando le scarpe che vedete nella foto (nuove, come il blog) avranno la suola consumata. Poi si vedrà...
Buona lettura a chi avrà voglia di seguirmi alla scoperta di ciò che c'è... fuori dal palazzo! Il viaggio comincia e continuerà almeno fino quando le scarpe che vedete nella foto (nuove, come il blog) avranno la suola consumata. Poi si vedrà...
20 novembre 2006
Mi ricorda qualcosa...
Passavo in galleria Tirrena quando ho incontrato quest'oggetto. Lo guardavo, lo guardavo... e non riuscivo a mettere a fuoco che cosa mi ricordava. Qualche suggerimento?
P.S. si tratta di un'installazione contro il direttore della galleria civica Cavallucci. Per rimuoverla sono arrivati i vigili del fuoco. Se volete "ammirarla" da vicino qui c'è la foto con una risoluzione più elevata e qui ce n'è un'altra.
P.S. si tratta di un'installazione contro il direttore della galleria civica Cavallucci. Per rimuoverla sono arrivati i vigili del fuoco. Se volete "ammirarla" da vicino qui c'è la foto con una risoluzione più elevata e qui ce n'è un'altra.
19 novembre 2006
L'invasione delle voci
Capita spesso, telefonando in giro, di sentire in risposta una voce registrata oppure una musichetta: ormai ci siamo abituati e non ci facciamo caso. Capita più raramente, invece, di essere chiamati da una di quelle voci. A me è successo l'altro giorno quando, sovrappensiero, ho alzato la cornetta del telefono di casa che squillava e ho detto: "Pronto?". Dall'altra parte c'era una voce di donna, prontissima, che ha detto: "Buongiorno". E io, educato: "Buong..." ma non ho fatto in tempo a finire la parola perché quella continuava come se nulla fosse. "Sono Laura" ha aggiunto. "Laura chi?" avrei voluto dire, ma ancora una volta lei mi ha preceduto: "Della De Longhi. Lei è stato selezionato...". Solo allora è stato chiaro che Laura era una di quelle voci e io c'ero cascato, come quei vecchietti un po' duri d'orecchi che parlano con le segreterie telefoniche e si arrabbiano perché non rispondono a tono.
Forse quelli della De Longhi mandano avanti la povera Laura (cioè un computer) perché non hanno il coraggio di chiamarmi di persona: sull'elenco telefonico, accanto al mio nome, non c'è infatti il simbolo che permette di contattarmi per vendermi qualcosa. Ma il punto è un altro: se ora le voci automatiche oltre che rispondere al telefono cominciano pure a prendere l'iniziativa e mettersi a chiamare significa che siamo in grave pericolo. Quei robot sono molto più resistenti di noi umani, potrebbero mandarci in crisi facilmente e soprattutto costano molto meno di una voce in carne e ossa.
Già al parcheggio sotterraneo quando è il momento di pagare c'è una voce che dà indicazioni: "Cinque euro e cinquanta centesimi da pagare". Se in quel momento scoprite di non avere soldi, infilate la tessera del bancomat, magari alla rovescia e la voce vi corregge: "Girare la tessera". Questo è un po' umiliante, soprattutto se c'è una voce vera, dietro di voi, che vi sta guardando. Ma la situazione più difficile si incontra telefonando ai centralini delle banche on-line dove per trovare una voce vera bisogna farsi strada in una giungla di robot istruiti apposta per sfiancarti e non passarti mai l'umano che potrebbe (forse) risolvere i tuoi problemi. Il punto è sempre quello: le voci umane costano molto, ma molto più di quelle artificiali.
Per questo mi stupisco sempre quando uscendo dall'Autostrada del Brennero incontro al casello tutti quegli umani pronti a ricevere i miei soldi. Mi dicono che sono ben pagati, perché non è facile resistere otto ore in quella cabina di acciaio, con la finestrella aperta estate e inverno. Forse è per questo (perché la vita lì dentro è dura) che alcuni di loro parlano meno delle voci dei computer.
Comunque, credevo di essermi preso a cuore il loro destino rifiutandomi per anni di acquistare un Telepass e infilarmi per sempre nella corsia automatica, dove non c'è la voce, non c'è la coda ma solo un "bip" che ti dà il via libera. "E' per merito di gente come me se resistono certi posti di lavoro" pensavo. E un giorno mi sono tolto la soddisfazione di dirlo a un sindacalista dei trasporti. Ma lui mi ha guardato con gli occhi sgranati, come se fossi matto, e mi ha aperto gli orizzonti: "Guarda, vai tranquillo, prenditi pure il Telepass. Tra un po' anche i nostri casellanti spariranno, è il futuro, abbiamo già un piano per impiegarli in altre mansioni".
Ma dimenticavo Laura, quella voce prontissima che mi diceva di premere "1" se volevo essere il fortunato proprietario di una macchina per il caffè e poi "2" per parlare con un operatore. E' stato a quel punto, quando mi sono guardato bene dal premere il tasto due, che mi sono reso conto di una cosa: di una voce vera potevo rimanere vittima, forse mi avrebbe convinto, chissà come, a prendermi la macchinetta del caffè; ma è stato facile, invece, riattaccare a quel robot. E' questo che De Longhi, e tutti gli altri, non dovrebbero scordarsi.
Forse quelli della De Longhi mandano avanti la povera Laura (cioè un computer) perché non hanno il coraggio di chiamarmi di persona: sull'elenco telefonico, accanto al mio nome, non c'è infatti il simbolo che permette di contattarmi per vendermi qualcosa. Ma il punto è un altro: se ora le voci automatiche oltre che rispondere al telefono cominciano pure a prendere l'iniziativa e mettersi a chiamare significa che siamo in grave pericolo. Quei robot sono molto più resistenti di noi umani, potrebbero mandarci in crisi facilmente e soprattutto costano molto meno di una voce in carne e ossa.
Già al parcheggio sotterraneo quando è il momento di pagare c'è una voce che dà indicazioni: "Cinque euro e cinquanta centesimi da pagare". Se in quel momento scoprite di non avere soldi, infilate la tessera del bancomat, magari alla rovescia e la voce vi corregge: "Girare la tessera". Questo è un po' umiliante, soprattutto se c'è una voce vera, dietro di voi, che vi sta guardando. Ma la situazione più difficile si incontra telefonando ai centralini delle banche on-line dove per trovare una voce vera bisogna farsi strada in una giungla di robot istruiti apposta per sfiancarti e non passarti mai l'umano che potrebbe (forse) risolvere i tuoi problemi. Il punto è sempre quello: le voci umane costano molto, ma molto più di quelle artificiali.
Per questo mi stupisco sempre quando uscendo dall'Autostrada del Brennero incontro al casello tutti quegli umani pronti a ricevere i miei soldi. Mi dicono che sono ben pagati, perché non è facile resistere otto ore in quella cabina di acciaio, con la finestrella aperta estate e inverno. Forse è per questo (perché la vita lì dentro è dura) che alcuni di loro parlano meno delle voci dei computer.
Comunque, credevo di essermi preso a cuore il loro destino rifiutandomi per anni di acquistare un Telepass e infilarmi per sempre nella corsia automatica, dove non c'è la voce, non c'è la coda ma solo un "bip" che ti dà il via libera. "E' per merito di gente come me se resistono certi posti di lavoro" pensavo. E un giorno mi sono tolto la soddisfazione di dirlo a un sindacalista dei trasporti. Ma lui mi ha guardato con gli occhi sgranati, come se fossi matto, e mi ha aperto gli orizzonti: "Guarda, vai tranquillo, prenditi pure il Telepass. Tra un po' anche i nostri casellanti spariranno, è il futuro, abbiamo già un piano per impiegarli in altre mansioni".
Ma dimenticavo Laura, quella voce prontissima che mi diceva di premere "1" se volevo essere il fortunato proprietario di una macchina per il caffè e poi "2" per parlare con un operatore. E' stato a quel punto, quando mi sono guardato bene dal premere il tasto due, che mi sono reso conto di una cosa: di una voce vera potevo rimanere vittima, forse mi avrebbe convinto, chissà come, a prendermi la macchinetta del caffè; ma è stato facile, invece, riattaccare a quel robot. E' questo che De Longhi, e tutti gli altri, non dovrebbero scordarsi.
11 novembre 2006
Trentenni disperati
Da quando ho aggiunto l'indirizzo email a questo blog arrivano lettere come questa: "Egregio giornalista, le scrivo per raccontarle la mia situazione, cominciando dalla fine: sono un trentenne disperato. Si metta nei miei panni, per acquistare casa qui a Trento città, calcolatrice alla mano, dovrei mettere assieme le mie paghe nette di vent'anni. Calcolando che nel frattempo mi resterebbe la necessità di mangiare, vestirmi e pagare qualche spesa, dovremmo aumentare il tempo del 50 per cento almeno. E fanno trenta. Insomma solo a sessant'anni, se tutto fila liscio, potrò rilassarmi senza debiti rassegnato a lavorare i 5 anni che mi restano per l'ipotetica pensione.
Ma non abbiamo calcolato l'auto che - non è un capriccio - mi serve ogni mattina per andare a lavorare. Non sono uno di grandi pretese mi accontento quindi di una vecchia utilitaria: basta che cammini. Inoltre sono un tipo attento, mai causato incidenti, ma vado in giro con il rosario sul cruscotto, pregando che nessuno mi venga addosso perché in quel caso l'assicurazione mi risarcirebbe l'intero valore del veicolo, quindi niente, e mi ritroverei a piedi.
Per gli altri acquisti posso contare sulle rate: compro oggi, inizio a pagare tra due anni. Tra frigorifero, lavatrice, televisore e personal computer ho perso il conto di quanti elettrodomestici dovrò iniziare a pagare nel 2008, quando - chissà - a causa della rivoluzione tecnologica saranno diventati vecchi e bisognerà sostituirli. Il telefonino è un'altra batosta, ma se voglio restare a galla in questo mondo devo averlo sempre in tasca.
La vita di noi poveracci è dura, ma per me è ancora più complicata: primo perché ho impiegato i miei anni migliori a laurearmi e quando incontro i miei compagni di classe, quelli che dopo le medie hanno iniziato a fare gli artigiani, incrocio il loro sguardo e mi pare di essere preso in giro (ma sono un tipo ansioso, forse mi sbaglio); secondo perché mia moglie comincia a fare discorsi strani, tipo quello sull'orologio biologico che segna l'ora di far figli. Forse sposare una coetanea è stato un errore o forse l'errore è stato quello di sposarsi, ma ci sono problemi oggettivi, tipo che a casa nostra - l'unica che ci possiamo permettere - per i figli non c'è posto. E poi l'asilo nido, perché il Comune sa che siamo poveri ma non abbastanza da evitare una retta mensile di 400 euro. Così quando a mia moglie vengono queste idee strane, penso a mio padre e mi dico: non sono pronto.
Non riesco a reggere il confronto con quell'uomo d'altri tempi che tutti chiamavano dottore, anche se era solo un ragioniere. Con il suo stipendio da impiegato (non era mica capoufficio) poteva permettersi di lasciare la moglie a casa a "far mestieri", così quando rientrava la sera si metteva davanti alla tivù a guardare il telegiornale o la partita di pallone e se qualcuno fiatava lui urlava: zitti L'estate tutti in ferie per un mese, il sabato e la domenica nella nostra casa a Candriai mentre in città noi fratelli avevamo una camera tutta per noi. Ricordo ancora quella sera che i miei genitori stapparono una bottiglia di spumante perché avevano finito di pagare il mutuo: avevano più o meno quarant'anni. Ora che è in pensione, mio padre, guadagna come me e mia moglie messi insieme e se la spassa in giro per il mondo infilando uno dietro l'altro una serie di viaggi che noi non ci possiamo permettere. E il dramma è che al ritorno ci fa vedere i suoi video e le sue fotografie. Potremmo anche chiederli a lui, i soldi che ci servono per mettere su casa, visto che in banca quando vedono i nostri contratti che scadono ogni anno non sembrano intenzionati a darci ascolto. Ma fatico a digerire l'espressione con cui ci guarda, noi giovani d'oggi, come per dire: poche storie, noi sì che ce l'abbiamo avuta dura. In quei momenti, caro giornalista, mi scopro sempre più spesso a domandarmi: ma cos'abbiamo noi trentenni del Duemila in meno dei nostri genitori?".
Ma non abbiamo calcolato l'auto che - non è un capriccio - mi serve ogni mattina per andare a lavorare. Non sono uno di grandi pretese mi accontento quindi di una vecchia utilitaria: basta che cammini. Inoltre sono un tipo attento, mai causato incidenti, ma vado in giro con il rosario sul cruscotto, pregando che nessuno mi venga addosso perché in quel caso l'assicurazione mi risarcirebbe l'intero valore del veicolo, quindi niente, e mi ritroverei a piedi.
Per gli altri acquisti posso contare sulle rate: compro oggi, inizio a pagare tra due anni. Tra frigorifero, lavatrice, televisore e personal computer ho perso il conto di quanti elettrodomestici dovrò iniziare a pagare nel 2008, quando - chissà - a causa della rivoluzione tecnologica saranno diventati vecchi e bisognerà sostituirli. Il telefonino è un'altra batosta, ma se voglio restare a galla in questo mondo devo averlo sempre in tasca.
La vita di noi poveracci è dura, ma per me è ancora più complicata: primo perché ho impiegato i miei anni migliori a laurearmi e quando incontro i miei compagni di classe, quelli che dopo le medie hanno iniziato a fare gli artigiani, incrocio il loro sguardo e mi pare di essere preso in giro (ma sono un tipo ansioso, forse mi sbaglio); secondo perché mia moglie comincia a fare discorsi strani, tipo quello sull'orologio biologico che segna l'ora di far figli. Forse sposare una coetanea è stato un errore o forse l'errore è stato quello di sposarsi, ma ci sono problemi oggettivi, tipo che a casa nostra - l'unica che ci possiamo permettere - per i figli non c'è posto. E poi l'asilo nido, perché il Comune sa che siamo poveri ma non abbastanza da evitare una retta mensile di 400 euro. Così quando a mia moglie vengono queste idee strane, penso a mio padre e mi dico: non sono pronto.
Non riesco a reggere il confronto con quell'uomo d'altri tempi che tutti chiamavano dottore, anche se era solo un ragioniere. Con il suo stipendio da impiegato (non era mica capoufficio) poteva permettersi di lasciare la moglie a casa a "far mestieri", così quando rientrava la sera si metteva davanti alla tivù a guardare il telegiornale o la partita di pallone e se qualcuno fiatava lui urlava: zitti L'estate tutti in ferie per un mese, il sabato e la domenica nella nostra casa a Candriai mentre in città noi fratelli avevamo una camera tutta per noi. Ricordo ancora quella sera che i miei genitori stapparono una bottiglia di spumante perché avevano finito di pagare il mutuo: avevano più o meno quarant'anni. Ora che è in pensione, mio padre, guadagna come me e mia moglie messi insieme e se la spassa in giro per il mondo infilando uno dietro l'altro una serie di viaggi che noi non ci possiamo permettere. E il dramma è che al ritorno ci fa vedere i suoi video e le sue fotografie. Potremmo anche chiederli a lui, i soldi che ci servono per mettere su casa, visto che in banca quando vedono i nostri contratti che scadono ogni anno non sembrano intenzionati a darci ascolto. Ma fatico a digerire l'espressione con cui ci guarda, noi giovani d'oggi, come per dire: poche storie, noi sì che ce l'abbiamo avuta dura. In quei momenti, caro giornalista, mi scopro sempre più spesso a domandarmi: ma cos'abbiamo noi trentenni del Duemila in meno dei nostri genitori?".
05 novembre 2006
Quelli che ti fregano
Per fregare la gente bisogna esserci tagliati, altrimenti si finisce come il mio amico G. che è riuscito a sbolognare la sua vecchia carretta a una coppia di vecchietti ma non riesce a darsi pace. In realtà quell'utilitaria maledetta che si fermava non appena cominciava a piovere (senza che nessun meccanico riuscisse a trovare il guasto) lui credeva d'averla venduta alla concessionaria in cambio di uno sconto sull'auto nuova. Di questa sua prodezza, cioè il silenzio su quel difetto misterioso, l'unica furbata della sua vita onesta, l'amico G. si vantò, sebbene un po' agitato: "Gliel'ho messa in quel posto". Peccato che pochi settimane dopo, uscendo dalla messa (e questo dice molto) rivide il suo bidone parcheggiato fuori dalla chiesa con due nonnini arzilli che ci facevano salire sopra i nipotini. Ah, che stretta al cuore guardare in cielo le nuvole minacciose e tremare al pensiero che la pioggia imminente avrebbe potuto fermare la famigliola in tangenziale, dove non c'è nemmeno la corsia d'emergenza.
Perché lui, G., è una persona di buoni sentimenti e a fregare il prossimo ci resta peggio del fregato. Lui non è come quelli che vendono le auto come nuove dopo aver tirato giù i chilometri e dormono tranquilli. Non è come quelli che ti rifanno la fiancata nel parcheggio (duemila euro di danni come niente) e poi fuggono veloci senza lasciare il bigliettino con il numero di telefono. Oppure quelli che ti vendono la casa giurando che è tutto a posto e il giorno dopo ti chiama l'amministratore perché c'è da rifare il tetto.
Il mio amico G. non è nemmeno un operatore turistico che spedisce la gente nel favoloso villaggio nei Caraibi a scoprire che attorno al bungalow c'è un cantiere in piena attività. O come quei furfanti che ti invitano con moglie e figli in un salone d'albergo per ritirare il computer nuovo di zecca che voi - proprio voi, che fortuna - avete vinto e lì dentro, con la musica a tutto volume, vi informano che la vincita prevede l'acquisto di un corso di lingue multimediale al modico prezzo di tremila euro: a quel punto l'istinto sarebbe quello di uscire senza nemmeno salutare, ma la trappola è perfetta, vostro figlio inizia a piangere perché le famiglie che vi circondano sono felici e voi siete cattivi, se siete deboli cedete e firmate purché il supplizio sia finito.
Di tipi del genere, purtroppo, ce ne sono in abbondanza e alle persone oneste fanno orrore: quelli che rifilano un giaccone di vero cuoio alle vecchiette (un grande affare) e quando piove si scopre che la pelle era cartone; quelli che ti fanno chiamare un numero di telefono dove c'è la musichetta e quando arriva la bolletta scopri che l'inutile attesa ti è costata due euro al minuto; quelli che ti urtano tra i banchi del mercato scusandosi calorosamente e poi ti accorgi che non hai più il portafoglio; quelli che ti propongono i biglietti per uno spettacolo di beneficenza e poi scopri che tolto il compenso degli attori e pagate le spese del teatro per i bambini affamati dell'Africa dei tuoi venti euro non resta più nulla; quelli che vengono a casa a riparare la lavatrice, dicono che non si può far niente, ti chiedono cento euro per il disturbo e se ne vanno senza lasciare la fattura; quelli che al ristorante presentano un conto diverso se il cliente parla tedesco e guida una Bmw.
Con il mio amico G. ne abbiamo parlato a lungo, perché il pensiero di essere "uno di quelli", assieme all'immagine di nonni e nipoti fermi sull'auto in panne, gli toglie il sonno. Così una domenica di queste si avvicinerà alla sua vecchia utilitaria e fingendo indifferenza avvicinerà i nuovi proprietari nella speranza di togliersi il senso di colpa: "Bella questa macchinetta, così per curiosità, funziona bene? Perché vorrei comprarne una anch'io". Non tutti sono capaci di metterla in quel posto.
Perché lui, G., è una persona di buoni sentimenti e a fregare il prossimo ci resta peggio del fregato. Lui non è come quelli che vendono le auto come nuove dopo aver tirato giù i chilometri e dormono tranquilli. Non è come quelli che ti rifanno la fiancata nel parcheggio (duemila euro di danni come niente) e poi fuggono veloci senza lasciare il bigliettino con il numero di telefono. Oppure quelli che ti vendono la casa giurando che è tutto a posto e il giorno dopo ti chiama l'amministratore perché c'è da rifare il tetto.
Il mio amico G. non è nemmeno un operatore turistico che spedisce la gente nel favoloso villaggio nei Caraibi a scoprire che attorno al bungalow c'è un cantiere in piena attività. O come quei furfanti che ti invitano con moglie e figli in un salone d'albergo per ritirare il computer nuovo di zecca che voi - proprio voi, che fortuna - avete vinto e lì dentro, con la musica a tutto volume, vi informano che la vincita prevede l'acquisto di un corso di lingue multimediale al modico prezzo di tremila euro: a quel punto l'istinto sarebbe quello di uscire senza nemmeno salutare, ma la trappola è perfetta, vostro figlio inizia a piangere perché le famiglie che vi circondano sono felici e voi siete cattivi, se siete deboli cedete e firmate purché il supplizio sia finito.
Di tipi del genere, purtroppo, ce ne sono in abbondanza e alle persone oneste fanno orrore: quelli che rifilano un giaccone di vero cuoio alle vecchiette (un grande affare) e quando piove si scopre che la pelle era cartone; quelli che ti fanno chiamare un numero di telefono dove c'è la musichetta e quando arriva la bolletta scopri che l'inutile attesa ti è costata due euro al minuto; quelli che ti urtano tra i banchi del mercato scusandosi calorosamente e poi ti accorgi che non hai più il portafoglio; quelli che ti propongono i biglietti per uno spettacolo di beneficenza e poi scopri che tolto il compenso degli attori e pagate le spese del teatro per i bambini affamati dell'Africa dei tuoi venti euro non resta più nulla; quelli che vengono a casa a riparare la lavatrice, dicono che non si può far niente, ti chiedono cento euro per il disturbo e se ne vanno senza lasciare la fattura; quelli che al ristorante presentano un conto diverso se il cliente parla tedesco e guida una Bmw.
Con il mio amico G. ne abbiamo parlato a lungo, perché il pensiero di essere "uno di quelli", assieme all'immagine di nonni e nipoti fermi sull'auto in panne, gli toglie il sonno. Così una domenica di queste si avvicinerà alla sua vecchia utilitaria e fingendo indifferenza avvicinerà i nuovi proprietari nella speranza di togliersi il senso di colpa: "Bella questa macchinetta, così per curiosità, funziona bene? Perché vorrei comprarne una anch'io". Non tutti sono capaci di metterla in quel posto.
Iscriviti a:
Post (Atom)