Caro Babbo Natale, come il bambino povero che fiuta l’aria e chiede un paio di guanti e un berretto, rinunciando al trenino elettrico perché sa che sarebbe un desiderio vano, cercherò con questa lettera di moderare le richieste. Solo cose utili. Anzi, voglio andare sul sicuro: chiederò solo doni necessari, beni che vorrei dare per scontati (e non trovare sotto l’albero) ma visti gli eventi mi sorge qualche dubbio.
Caro Babbo Natale, so che non è affar tuo ma mi piacerebbe molto avere un treno veloce che andando a Roma fermi a Trento, come già avevamo fino a qualche giorno fa, perché alle comodità si fa fatica a rinunciare. Soprattutto a quelle indispensabili. Chiederei quindi che se questo treno dovesse portare alla stazione mia moglie, qualunque donna di famiglia, o anche un’amica o una semplice conoscente io non sia obbligato a passare a prenderla di persona solo perché ha paura di attraversare a piedi piazza Dante.
A nome di un imprenditore che conosco vorrei chiederti di far sì che quando partecipa alle gare d’appalto non si ritrovi sempre come concorrente un rivale che passa ogni giorno nell’ufficio dell’assessore e lo chiama più volte al giorno per discutere del più e del meno, comprese le attività culturali della moglie (del politico) a cui partecipa staccando assegni di tanto in tanto. Sono cose ovvie, lo so, ma preferisco metterti di mezzo per non avere sorprese.
Caro Babbo Natale, quando vedo passare il camion delle immondizie mi piacerebbe storcere il naso solo per il cattivo odore, senza dovermi preoccupare perché a bordo potrebbero esserci (come c’erano in Valsugana) sostanze cancerogene da nascondere nei campi dietro casa. Se ricevo l’avviso di una lettera raccomandata mi piacerebbe andare a ritirarla all’ufficio postale all’orario indicato sul biglietto giallo, senza il rischio di trovare l’ufficio chiuso per “motivi tecnici” con la mia lettera urgente all’interno come mi è accaduto l’altro giorno, in via Scopoli, quando ho scoperto che non c’erano dipendenti a sufficienza per tenere aperto lo sportello.
Mi piacerebbe inoltre, Babbo Natale, poter acquistare una casa come quella in cui sono cresciuto ormai trent’anni fa senza dover fare un mutuo di trent’anni che finirei di pagare solo grazie alla liquidazione, proprio quella che una volta si lasciava ai figli.
Sarebbe bello telefonare per una visita medica - senza urgenza perché non siamo in pericolo di morte - e sentirsi dare appuntamento prima di un anno. Ma se questo proprio non è possibile, caro Babbo Natale, potresti intervenire per evitare che (a pagamento) la stessa signorina, improvvisamente più gentile, ci proponga una visita per il giorno successivo, all’ora che vogliamo.
Sugli autobus non ti chiedo nulla, se non che la gente ci salga sopra. E nemmeno sui parcheggi, se non che gli automobilisti, proprietari di tre auto per famiglia, imparino a considerarli merce rara e non un diritto. Passo quindi alla politica chiedendoti un’altra cosa ovvia, ma che ti confesso un po’ mi inquieta: in vista delle elezioni comunali previste in primavera vorrei tanto che - fissato un giorno - si andasse a votare proprio in quello, senza rinvii, senza che una domenica si voti per metà candidati e la domenica successiva per l’altra metà.
Caro Babbo Natale, so che soddisferai queste mie ragionevoli richieste, come accogli le richieste del bambino povero che con i guanti e il berretto potrà star caldo senza il rischio di ammalarsi. Se tutto andrà bene l’anno prossimo potrei osare di più, chiedendoti un piccolo lusso. Mi piacerebbe davvero molto che i candidati eletti nelle aule della politica, i candidati che anch’io ho eletto, non subissero quella strana trasformazione che li porta ad essere litigiosi cacciatori di poltrone, con la bilancia in mano per misurare quanto spetta ad uno e quanto all’altro. Falli restare come volevano apparire prima del voto, fa’ che rispondano al telefono al primo squillo come facevano in campagna elettorale, fa’ che pensino loro al treno, all’ufficio postale, alle discariche inquinate, ai prezzi della casa, alla visita medica ed agli appalti senza che ci sia bisogno di scrivere una lettera a te, Babbo Natale.
21 dicembre 2008
15 dicembre 2008
Dis-innevamento artificiale
Mi metto nei panni dei pochi trentini e turisti che ieri passeggiavano tra i banchi della fiera e mi chiedo: ma dov'è finita tutta la neve caduta nei giorni scorsi? Se non sapessi già la risposta, sarebbe un bel mistero: si arriva in città osservando il paesaggio bianco dai finestrini dell'auto, si cerca parcheggio tra i mucchi di neve, si raggiunge il centro storico camminando sui marciapiedi ancora sporchi e ci si ritrova nella zona a traffico limitato a passeggiare in un altro mondo, dove sembra che la neve non sia caduta mai. In realtà la neve c'era, ma l'hanno portata via di peso. Tutta? Tutta.
Prima di proseguire un avvertimento ai lettori: i giornalisti – e chi scrive non fa eccezione – quando si parla di neve diventano faziosi. Se il Comune non spala i marciapiedi intingiamo la penna nel veleno e attacchiamo l'amministrazione. Se invece si mettono d'impegno per pulire l'intero centro storico come se fosse il salotto di casa, ci tocca scaricare la faziosità in direzione contraria, gridando allo scandalo perché ci hanno portato via la neve sotto il naso. Parrebbe un compito difficile quello di attaccare l'amministrazione per un lavoro ben fatto, ma la polemica parte spontanea dopo aver trascorso la notte a seguire dal vivo le grandi pulizie.
Hanno lavorato coperti dal buio. Non certo per farla franca (a rubarci la neve con cui avremmo voluto giocare) ma perché decine di trattori agricoli, ruspe giganti e camion da cava avrebbero dato troppo nell'occhio verso mezzogiorno. A mezzanotte invece abbiamo seguito uno di quei bestioni portare via la neve da via Vannetti, unirsi a un trattorino con rimorchio proveniente da piazzetta d'Arogno e gettare l'odiato carico nelle rive dell'Adigetto. Nulla di nuovo. Da decenni la neve che ingombra la città finisce in via Sanseverino, ma era la neve che impediva la circolazione degli autobus, la sosta delle auto e i movimenti dei pedoni. Mai prima di quest'autunno ci siamo tolti il lusso di asportare la neve con la scopa e la paletta, fin dietro le fontane e sotto le panchine, con precisione scientifica per cancellare le tracce della grande nevicata.
Ma quest'autunno 2008 è uno di quegli anni di svolta, come l'estate bollente del 2003: succedono cose che non avevamo visto mai. O che forse avevamo dimenticato. Hanno portato via la neve per fare posto alle bancarelle della fiera. Ho visto il centro della città pulito, con le periferie imbiancate, e mi sono venute in mente per contrasto le piste da sci bianche con i boschi puliti attorno: se quello dello sci è l'innevamento artificiale, quello che abbiamo visto a Trento è il disinnevamento artificiale, costoso procedimento per consentire ai cittadini di tirare dritto per la loro strada anche se il tempo meteorologico si mette di traverso. Non c'è la neve quando è ora di sciare? La facciamo. C'è troppa neve quando è il giorno della fiera? La facciamo sparire, anche se ne è scesa mezzo metro. Ma il risultato – come spesso accade in questi casi – ci delude: volti tristi quegli degli sciatori che scendono sul nastro bianco in mezzo agli abeti verdi, volti tristi ieri quelli alla fiera fredda e umida, davanti e dietro i banchi. E dire che lo spettacolo dei disinnevatori in azione nel cuore della notte era davvero insuperabile. A modo suo coraggioso, come tutte le lotte impari: provate voi a fare sparire la neve da una città in poche ore. Ce l'hanno fatta. Bisognerebbe forse applaudirli? In realtà c'è mancato poco che mi scappasse davvero il battimano per quel palista (si dice così?) che alle due di notte ha rastrellato tre metri cubi di neve attorno a un alberello, senza nemmeno sfiorarlo, per caricarli nel cassone di un camion senza farne cadere nemmeno un cristallo. Bravi operai, bravi camionisti. Ma la città disinnevata nel modo che abbiamo visto è un fatto innaturale. Se nevica rinunceremo alla fiera (abbiamo visto che la gente è stata a casa ugualmente) e costruiremo un pupazzo in piazza Duomo. A mettersi contro il meteo si sbaglia sempre: ci ha già presi in giro tutti quando – dopo la lessata dell'agosto 2003 – siamo corsi a comprare il condizionatore, per ritrovarci le estati successive bagnati e con il maglione. E' per questo che in questo dicembre storico ho resistito alla tentazione di comprarmi la pala da neve nuova.
Prima di proseguire un avvertimento ai lettori: i giornalisti – e chi scrive non fa eccezione – quando si parla di neve diventano faziosi. Se il Comune non spala i marciapiedi intingiamo la penna nel veleno e attacchiamo l'amministrazione. Se invece si mettono d'impegno per pulire l'intero centro storico come se fosse il salotto di casa, ci tocca scaricare la faziosità in direzione contraria, gridando allo scandalo perché ci hanno portato via la neve sotto il naso. Parrebbe un compito difficile quello di attaccare l'amministrazione per un lavoro ben fatto, ma la polemica parte spontanea dopo aver trascorso la notte a seguire dal vivo le grandi pulizie.
Hanno lavorato coperti dal buio. Non certo per farla franca (a rubarci la neve con cui avremmo voluto giocare) ma perché decine di trattori agricoli, ruspe giganti e camion da cava avrebbero dato troppo nell'occhio verso mezzogiorno. A mezzanotte invece abbiamo seguito uno di quei bestioni portare via la neve da via Vannetti, unirsi a un trattorino con rimorchio proveniente da piazzetta d'Arogno e gettare l'odiato carico nelle rive dell'Adigetto. Nulla di nuovo. Da decenni la neve che ingombra la città finisce in via Sanseverino, ma era la neve che impediva la circolazione degli autobus, la sosta delle auto e i movimenti dei pedoni. Mai prima di quest'autunno ci siamo tolti il lusso di asportare la neve con la scopa e la paletta, fin dietro le fontane e sotto le panchine, con precisione scientifica per cancellare le tracce della grande nevicata.
Ma quest'autunno 2008 è uno di quegli anni di svolta, come l'estate bollente del 2003: succedono cose che non avevamo visto mai. O che forse avevamo dimenticato. Hanno portato via la neve per fare posto alle bancarelle della fiera. Ho visto il centro della città pulito, con le periferie imbiancate, e mi sono venute in mente per contrasto le piste da sci bianche con i boschi puliti attorno: se quello dello sci è l'innevamento artificiale, quello che abbiamo visto a Trento è il disinnevamento artificiale, costoso procedimento per consentire ai cittadini di tirare dritto per la loro strada anche se il tempo meteorologico si mette di traverso. Non c'è la neve quando è ora di sciare? La facciamo. C'è troppa neve quando è il giorno della fiera? La facciamo sparire, anche se ne è scesa mezzo metro. Ma il risultato – come spesso accade in questi casi – ci delude: volti tristi quegli degli sciatori che scendono sul nastro bianco in mezzo agli abeti verdi, volti tristi ieri quelli alla fiera fredda e umida, davanti e dietro i banchi. E dire che lo spettacolo dei disinnevatori in azione nel cuore della notte era davvero insuperabile. A modo suo coraggioso, come tutte le lotte impari: provate voi a fare sparire la neve da una città in poche ore. Ce l'hanno fatta. Bisognerebbe forse applaudirli? In realtà c'è mancato poco che mi scappasse davvero il battimano per quel palista (si dice così?) che alle due di notte ha rastrellato tre metri cubi di neve attorno a un alberello, senza nemmeno sfiorarlo, per caricarli nel cassone di un camion senza farne cadere nemmeno un cristallo. Bravi operai, bravi camionisti. Ma la città disinnevata nel modo che abbiamo visto è un fatto innaturale. Se nevica rinunceremo alla fiera (abbiamo visto che la gente è stata a casa ugualmente) e costruiremo un pupazzo in piazza Duomo. A mettersi contro il meteo si sbaglia sempre: ci ha già presi in giro tutti quando – dopo la lessata dell'agosto 2003 – siamo corsi a comprare il condizionatore, per ritrovarci le estati successive bagnati e con il maglione. E' per questo che in questo dicembre storico ho resistito alla tentazione di comprarmi la pala da neve nuova.
05 dicembre 2008
La velocità di una città
La velocità di una città si misura (anche) visitando il suo Mc Donald's. Ad esempio quei dilettanti del Mc Donald's di Trento non potrebbero resistere nemmeno un'ora dietro le casse del Mc Donald's di Milano, proprio di fronte alla stazione. L'altro giorno - ore 13 e 11 - c'era una coda di dieci persone che arrivava fino alla porta d'ingresso. Una coda tale - pensavo - che avrei dovuto cercare un altro locale. Ma mentre formulavo questo pensiero la coda si era già ridotta ad otto unità, divenute subito sette (e poi sei) nel tempo che impiegai a contare le persone che avevo di fronte. Tutto merito di Yashawini, un nome che pare una sequenza casuale di lettere e invece stava scritto sulla targhetta appuntata al petto di una ragazza tutta nervi e - più in là - sul tabellone mensile del miglior dipendente di Mc Donald's. Mentre leggevo una seconda volta quel nome la coda di Yashawini si riduceva a cinque persone: stava lottando per ripetere a dicembre la vittoria aziendale di novembre e io mi preparai mentalmente l'ordinazione, ripetendola più volte, per non far perdere tempo prezioso a lei e agli altri clienti in attesa.
Sono un cliente professionista e quando toccò a me ordinai "un numero quattro, con la Coca Cola". Semplice, veloce, efficace. Ma lei mi guardò spazientita chiedendo chiarimenti: normale o maxi? Normale, risposi, mordendomi la lingua perché morivo dalla fame. Patate vertigo o normali? Incalzò Yashawini che cominciava ad essere nervosa. Vertigo, replicai, senza sapere che cos'erano. Con salsa o senza salza? Senza, balbettai, sperando di accelerare. Cinque euro e settanta disse lei, bruciando sul tempo il registratore di cassa e voltandomi la schiena per prendere un panino, un cartone di patatine, un bicchiere di Coca Cola e alcuni tovaglioli che subito si materializzarono sul vassoio. Cinque euro e settanta, sibilò una seconda volta, come se stesse parlando (lei, Yashawini) a uno straniero. Fossi stato a Trento, giunto a questo punto, avrei "rubato" una della mie patatine dal vassoio appoggiato lì sul banco, quindi - con gesto rilassato - avrei portato la mano al portafoglio per saldare il conto. Ma ero a Milano e il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni non c'era più. Colpa mia che, temendo di essere borseggiato, l'avevo infilato nella tasca interna della giacca, dove non lo metto mai. Sarebbe finita lì se nel portafogli ci fossero stati i soldi, invece c'era solo il bancomat perché sentendomi prudente volevo "star leggero". Lo porsi tremando a un'incredula Yashawini che strisciò subito la tessera nella fessura del Pos. Doveva essere il terminale più veloce del mondo perché in tre secondi appena sputò fuori la ricevuta, eppure la fila dietro di me rumoreggiò: avevamo perso il ritmo, Milano parve fermarsi e Yashawini (o come cazzo si chiamava) per colpa mia avrebbe dovuto rinunciare al titolo natalizio di miglior dipendente di Mc Donald's.
La velocità di una città si misura (anche) dai clienti di Mc Donald's e io temo di non essere abbastanza veloce per Milano.
Sono un cliente professionista e quando toccò a me ordinai "un numero quattro, con la Coca Cola". Semplice, veloce, efficace. Ma lei mi guardò spazientita chiedendo chiarimenti: normale o maxi? Normale, risposi, mordendomi la lingua perché morivo dalla fame. Patate vertigo o normali? Incalzò Yashawini che cominciava ad essere nervosa. Vertigo, replicai, senza sapere che cos'erano. Con salsa o senza salza? Senza, balbettai, sperando di accelerare. Cinque euro e settanta disse lei, bruciando sul tempo il registratore di cassa e voltandomi la schiena per prendere un panino, un cartone di patatine, un bicchiere di Coca Cola e alcuni tovaglioli che subito si materializzarono sul vassoio. Cinque euro e settanta, sibilò una seconda volta, come se stesse parlando (lei, Yashawini) a uno straniero. Fossi stato a Trento, giunto a questo punto, avrei "rubato" una della mie patatine dal vassoio appoggiato lì sul banco, quindi - con gesto rilassato - avrei portato la mano al portafoglio per saldare il conto. Ma ero a Milano e il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni non c'era più. Colpa mia che, temendo di essere borseggiato, l'avevo infilato nella tasca interna della giacca, dove non lo metto mai. Sarebbe finita lì se nel portafogli ci fossero stati i soldi, invece c'era solo il bancomat perché sentendomi prudente volevo "star leggero". Lo porsi tremando a un'incredula Yashawini che strisciò subito la tessera nella fessura del Pos. Doveva essere il terminale più veloce del mondo perché in tre secondi appena sputò fuori la ricevuta, eppure la fila dietro di me rumoreggiò: avevamo perso il ritmo, Milano parve fermarsi e Yashawini (o come cazzo si chiamava) per colpa mia avrebbe dovuto rinunciare al titolo natalizio di miglior dipendente di Mc Donald's.
La velocità di una città si misura (anche) dai clienti di Mc Donald's e io temo di non essere abbastanza veloce per Milano.
03 dicembre 2008
E' un mondo fai da te
Sono sul treno per Milano senza biglietto in tasca, ovvero "ticket less": quando arriverà il controllore gli dirò un codice di sei cifre acquistato ieri su internet e spero che basti così. Arriverò in stazione alle 13 e 05, salirò sulla metropolitana e andrò a ritirare l'auto "nuova" che ho trovato usata cercandola per un mese su Autoscout.it. Me la vende un commerciante d'auto indiano, tale Anand detto Giuseppe, che tra tutti quelli che ho conosciuto in questo mese (e sono tanti) è quello che parla e scrive meglio l'italiano. Gli farò vedere la ricevuta del bonifico on line, il contrassegno provvisorio della nuova assicurazione on line (pagata il 57 per cento in meno di quella tradizionale) e me ne andrò con la mia Nissan, guidato verso casa dal navigatore satellitare.
Non sono uno sprovveduto: ho fatto le mie verifiche mettendo il numero di targa nella banca dati del Pra su internet, così al costo di 5 euro mi sono tranquillizzato.
La vecchia Land Rover è ormai acqua passata, venduta a un demolitore vicentino che dopo aver visto via email le foto del rottame ha fatto un'offerta da non perdere ed venuto in Trentino con il carro attrezzi per portarsi via l'auto. Ci siamo incontrati al parcheggio del casello autostradale di Trento centro e prima di staccarmi l'assegno si è fotocopiato la mia carta d'identità con il fax che aveva montato sul cruscotto. Povero Freelander, soprannominato "macchina nera" da noi della famiglia per distinguerlo da quella bianca: diventerà pezzi di ricambio, gli stessi che compreremo come nuovi dal "meccanico di fiducia" (un applauso per l'ossimoro).
Per fermare l'attimo scatterò la fotografia che correda questo post, quindi dovrò premere il tasto verde del telefonino e il messaggio finirà dritto sul blog. Per definire tutto questo non ho parole migliori di quelle del mio amico P. (lo trovate su facebook digitando Petermaier) che qualche giorno fa se ne uscì con questa frase: collega, è un mondo fai da te!
Non sono uno sprovveduto: ho fatto le mie verifiche mettendo il numero di targa nella banca dati del Pra su internet, così al costo di 5 euro mi sono tranquillizzato.
La vecchia Land Rover è ormai acqua passata, venduta a un demolitore vicentino che dopo aver visto via email le foto del rottame ha fatto un'offerta da non perdere ed venuto in Trentino con il carro attrezzi per portarsi via l'auto. Ci siamo incontrati al parcheggio del casello autostradale di Trento centro e prima di staccarmi l'assegno si è fotocopiato la mia carta d'identità con il fax che aveva montato sul cruscotto. Povero Freelander, soprannominato "macchina nera" da noi della famiglia per distinguerlo da quella bianca: diventerà pezzi di ricambio, gli stessi che compreremo come nuovi dal "meccanico di fiducia" (un applauso per l'ossimoro).
Per fermare l'attimo scatterò la fotografia che correda questo post, quindi dovrò premere il tasto verde del telefonino e il messaggio finirà dritto sul blog. Per definire tutto questo non ho parole migliori di quelle del mio amico P. (lo trovate su facebook digitando Petermaier) che qualche giorno fa se ne uscì con questa frase: collega, è un mondo fai da te!
01 dicembre 2008
La bella addormentata
Martedì mattina alle otto e trenta ero sul palco del teatro di Mezzolombardo a parlare di scuola, voto in condotta e tagli alla ricerca con tre professori e i ragazzi dell'istituto superiore Martino Martini. Davanti a me - lo giuro - una ragazza dormiva seduta in prima fila. Sarebbe stata carina se non avesse avuto la testa riversa all'indietro sullo schienale e la bocca semi aperta, in quella posa tipica di chi ronfa beatamente.
Con un colpo di gomito ho indicato la bella addormentata al professore che avevo accanto ma non ha battuto ciglio. Anzi me ne ha fatto notare un altro che dormiva un po' più in là. Ho pensato: poveri prof, innocenti o correi che siano, devono essersi abituati a questi ragazzi così stanchi e annoiati. Ma subito mi è venuto in mente un episodio di almeno quindici anni fa quando in una grande casa di Dimaro, affittata per l'occasione, venne Nando Dalla Chiesa a parlare di politica, invitato dalla Rete. Arrivò nel pomeriggio da Milano e prese posto in una sala affollata di ragazzi che avevano trascorso la nottata a far baldoria.
Ce n'era uno in prima fila che aveva fatto inutilmente le ore piccole, senza vantare grandi conquiste, e stava lì davanti non per diligenza ma perché i posti dietro, più coperti, glieli avevano soffiati tutti gli altri.
Solo, davanti a Nando Dalla Chiesa che parlava di legalità e politica pulita, quel giovanotto lottava disperatamente per non dormirgli in faccia, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare, cambiando posizione di frequente, cercando di tenere dritto il capo che gli ricadeva di continuo avanti, indietro, a destra e a sinistra. Alla fine, fingendo vigliaccamente di concentrarsi al massimo, si arrese al sonno e decise di chiudere gli occhi un secondo (uno soltanto!), appena il tempo di riprendere le energie e arrivare salvo al termine della lezione. Chissà quanto durò. Terrorizzato riaprì gli occhi con un sussulto, risollevando il mento che si era appoggiato sul petto. Poteva essere stato il sonno di un minuto oppure di un'ora, chi lo sa, ma si svegliò giusto in tempo per vedere Nando Dalla Chiesa che, parlando, lo fissava sorridendo sotto i baffi (che all'epoca portava).
Essendo io quel tale addormentato non ho mai smesso di chiedermi se Nando Dalla Chiesa si fosse accorto del discepolo dormiente e - in quel caso - che cosa ne pensasse. Insomma, che effetto fa parlare a un pubblico che sonnecchia? Ora, dopo quel giorno a Mezzolombardo, lo so. Non è la rabbia di chi si alza (per una volta) alle sette del mattino e confida di trovare un po' di attenzione (la merce più preziosa in un'epoca di grandi distrazioni). Non è nemmeno l'umiliazione di parlare al vento, poiché so benissimo che noi grandi (nel senso di adulti) amiamo parlarci addosso solo per dimostrare quante cose sappiamo (e spesso tutti presi a straparlare diamo prova di quante cose NON sappiamo).
No, di fronte alla bella addormentata ho provato incredulità, perché resto convinto che per i giovani d'oggi - tra lavoro precario, blocchi del turn over, tagli alla scuola, crisi economica - non ci sia da dormire sonni tranquilli. Ma, confesso, di fronte a quella ragazza di 17 anni - che sono pur sempre venti (!) meno dei miei - ho provato anche un po' di invidia perché sonnecchiava beata, senza sensi di colpa, più di quanto mi riuscì di fare allora. Chissà che in tempi cupi non abbia ragione lei.
POST SCRIPTUM riservato agli studenti dell'istituto Martino Martini che quel giorno erano presenti in sala e ai loro professori, compreso quello con cui ho litigato (privatamente) perché sosteneva, senza prove, che noi giornalisti siamo faziosi e lo facciamo apposta. Mi scuso se di voi tutti ne ho citata una soltanto ma - come ci siamo detti quel mattino, ricordate? - l'informazione ha le sue regole e di 600 ragazzi svegli e battaglieri fa notizia solo quella che dorme.
Con un colpo di gomito ho indicato la bella addormentata al professore che avevo accanto ma non ha battuto ciglio. Anzi me ne ha fatto notare un altro che dormiva un po' più in là. Ho pensato: poveri prof, innocenti o correi che siano, devono essersi abituati a questi ragazzi così stanchi e annoiati. Ma subito mi è venuto in mente un episodio di almeno quindici anni fa quando in una grande casa di Dimaro, affittata per l'occasione, venne Nando Dalla Chiesa a parlare di politica, invitato dalla Rete. Arrivò nel pomeriggio da Milano e prese posto in una sala affollata di ragazzi che avevano trascorso la nottata a far baldoria.
Ce n'era uno in prima fila che aveva fatto inutilmente le ore piccole, senza vantare grandi conquiste, e stava lì davanti non per diligenza ma perché i posti dietro, più coperti, glieli avevano soffiati tutti gli altri.
Solo, davanti a Nando Dalla Chiesa che parlava di legalità e politica pulita, quel giovanotto lottava disperatamente per non dormirgli in faccia, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare, cambiando posizione di frequente, cercando di tenere dritto il capo che gli ricadeva di continuo avanti, indietro, a destra e a sinistra. Alla fine, fingendo vigliaccamente di concentrarsi al massimo, si arrese al sonno e decise di chiudere gli occhi un secondo (uno soltanto!), appena il tempo di riprendere le energie e arrivare salvo al termine della lezione. Chissà quanto durò. Terrorizzato riaprì gli occhi con un sussulto, risollevando il mento che si era appoggiato sul petto. Poteva essere stato il sonno di un minuto oppure di un'ora, chi lo sa, ma si svegliò giusto in tempo per vedere Nando Dalla Chiesa che, parlando, lo fissava sorridendo sotto i baffi (che all'epoca portava).
Essendo io quel tale addormentato non ho mai smesso di chiedermi se Nando Dalla Chiesa si fosse accorto del discepolo dormiente e - in quel caso - che cosa ne pensasse. Insomma, che effetto fa parlare a un pubblico che sonnecchia? Ora, dopo quel giorno a Mezzolombardo, lo so. Non è la rabbia di chi si alza (per una volta) alle sette del mattino e confida di trovare un po' di attenzione (la merce più preziosa in un'epoca di grandi distrazioni). Non è nemmeno l'umiliazione di parlare al vento, poiché so benissimo che noi grandi (nel senso di adulti) amiamo parlarci addosso solo per dimostrare quante cose sappiamo (e spesso tutti presi a straparlare diamo prova di quante cose NON sappiamo).
No, di fronte alla bella addormentata ho provato incredulità, perché resto convinto che per i giovani d'oggi - tra lavoro precario, blocchi del turn over, tagli alla scuola, crisi economica - non ci sia da dormire sonni tranquilli. Ma, confesso, di fronte a quella ragazza di 17 anni - che sono pur sempre venti (!) meno dei miei - ho provato anche un po' di invidia perché sonnecchiava beata, senza sensi di colpa, più di quanto mi riuscì di fare allora. Chissà che in tempi cupi non abbia ragione lei.
POST SCRIPTUM riservato agli studenti dell'istituto Martino Martini che quel giorno erano presenti in sala e ai loro professori, compreso quello con cui ho litigato (privatamente) perché sosteneva, senza prove, che noi giornalisti siamo faziosi e lo facciamo apposta. Mi scuso se di voi tutti ne ho citata una soltanto ma - come ci siamo detti quel mattino, ricordate? - l'informazione ha le sue regole e di 600 ragazzi svegli e battaglieri fa notizia solo quella che dorme.
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