Può capitare che due genitori fuori moda e fuori dal tempo facciano vedere Heidi al loro figliolo, invece di Nemo o Winnie the Pooh, perché quel cartone animato d'altri tempi non l'hanno mai dimenticato.
Può capitare che un bambino di due anni, a forza di guardare Heidi, immagini un mondo fantastico dove i monti sorridono, le caprette fanno ciao e d'inverno si va a scuola con la slitta.
Può capitare che in un sabato d'autunno i due genitori fuori moda carichino in auto il piccolo pastore promettendogli una giornata memorabile perché andranno in montagna a vedere Heidi, Peter, il nonno di Heidi, le mucche e le caprette che scendono a valle dopo un'estate trascorsa in cima ai monti.
Può capitare infine che il piccolo, di fronte a tale promessa, si addormenti felice sognando i campanacci delle mucche e si risvegli ai margini di un prato di montagna, in mezzo a una piccola folla di turisti, mentre giunge da lontano (ma sempre più vicino) l'inconfondibile "din-don" che annuncia l'arrivo di una mandria. Ed è lì - mentre le mucche sfilano chiassose agghindate a festa con i fiori colorati appesi attorno al collo - che un grido acuto attira l'attenzione del pubblico che smette, ma solo per un attimo, di pigiare i pulsanti delle macchine fotografiche: "Nonno Heidiiiiii!". I turisti ridono (c'è ancora qualcuno che crede alle favole) e si chiedono chi possa essere quel nonno invocato a pieni polmoni da un bambino di città.
La sfilata continua. Ci sono le vacche bianche del passo San Pellegrino che ondeggiano come ballerine di cabaret con una gigantesca stella alpina appesa sopra il capo. Ecco le mucche della provincia autonoma di Trento con lo stemma dell'aquila agganciato in mezzo agli occhi, quelle di Agordo con enormi campanacci che risuonano potenti nella piana di Falcade. Ma il piccolo cittadino non si arrende (è troppo giovane, ancora non sa cosa sia lo scherno) e richiama l'attenzione su un vecchio che là in fondo (perché nessuno l'ha notato?) accompagna le sue bestie bilanciando il peso sugli scarponi da montagna stretti nei lacci rossi: "Nonno Heidiiiiiiii!". I turisti lagunari, giunti in quota la mattina e decisi a tornare a casa prima che cominci il campionato, si danno di gomito: Heidi, chi se la ricorda più? Ma lui no, il vecchio dell'Alpe, prende sul serio quel richiamo, affida le bestie al suo giovane pastore e si avvicina alla folla con quegli scarponi dalla suola grossa, la camicia pesante a scacchi e il cappello di lana cotta verde, proprio quello che fa storcere il naso alle cameriere del bar giù in paese quando si presenta a bere un bicchiere. Ma oggi no, questo è il suo giorno e il vecchio con quella sua barba bianca (è proprio lui!) si fa largo tra la gente per vedere chi lo chiama. Ed è in quel preciso istante che da là sotto, in mezzo a tutte quelle gambe, parte il terzo richiamo ancora più disperato: "Nonno Heidiiiiiii". Allora lui, il vecchio dell'Alpe, proprio quello che in città raccontava le storie di montagna dipinto sullo schermo del computer, solleva quel bambino biondo come se fosse un agnellino e se lo prende in braccio: "Ciao - gli dice - vuoi salire sulle mucche?". Il piccolo è dubbioso, non dice più nulla, fa di no con la testa, troppe emozioni, bisogna pur tenersi qualcosa per la prossima volta, studia il nonno di Heidi come se lo vedesse per la prima volta, lo guarda fisso negli occhi rugosi, è questione di un attimo, appena il tempo di scattare QUESTA FOTO.
30 settembre 2007
16 settembre 2007
Il piccolo demonio
Ogni albergo, ristorante, bar o pizzeria che si rispetti ha la coppia con figli che fa passare la voglia di avere figli alle coppie che figli ancora non ne hanno. La settimana scorsa all'hotel Hohe Gaisl noi eravamo quella coppia.
Quello che è andato in scena è uno spettacolo già visto di cui conosco il copione in ogni sua variante. Sua maestà il piccolo playboy - l'attore protagonista di questa commedia di cui è autore, regista, sceneggiatore e soprattutto tecnico del suono - si è presentato sul palco dell'albergo altoatesino indossando il suo costume preferito, quei pantaloni di cuoio tirolesi che gli sono valsi subito le simpatie del numeroso pubblico tedesco. Capelli biondi, occhi azzurri, guance rosse è stato accolto da complimenti e sorrisi compiacenti, con quella strana luce che ho imparato a leggere negli occhi delle donne e che su per giù vuol dire nostalgia (se sono troppo vecchie), insofferenza (se sono troppo giovani) o grandi aspettative (se hanno l'età giusta).
Per farla breve il grande show è iniziato all'ora di cena quando il piccolo è salito in piedi sulla sedia con una fetta di speck in mano per farla ammirare a tutti prima di non mangiarla. Oh che bel bambino, si è lasciata scappare una che avrebbe avuto l'età giusta ma era lì con il marito sbagliato, ignara di quello che stava per accadere.
Noi invece sapevamo, e attenti ad evitare guai peggiori (tipo che tirasse l'acqua alla cameriera, colpevole di avergli portato un bicchiere con i manici a lui che ormai è grande e vuole bere a canna) l'abbiamo lasciato libero di scorazzare dalla sala da pranzo all'angolo dei giochi al grido di Heidi, Peter, nonno, caprette, beee, muuuu e din don fa la campana.
Senza trovare complici nei figli dei tedeschi, il piccolo playboy ha continuato lo show snobbando il cibo (mangiare: che gran perdita di tempo) e quel bicchierone di latte che una cameriera premurosa gli aveva portato nel tentativo disperato di calmarlo, probabilmente dopo averci messo una dose di valium di propria iniziativa.
All'improvviso, durante una delle sue incursioni fra i tavoli più appartati, il piccolo demonio è riuscito nella sua specialità: inciampare nelle fughe fra una piastrella e l'altra cadendo a testa in giù, tenendo le manine dietro la schiena per non rovinare l'eleganza del suo volo. Ho sentito il toc della fronte che batteva contro la pietra e ho iniziato il conto alla rovescia per capire quando sarebbe arrivato lo strillo, puntuale come un tuono dopo il fulmine. Ci avrà messo tre o quattro secondi, roba da grandi occasioni, ma infine è arrivato: un acuto lancinante che ha riempito le volte della sala gotica abituate a chiacchiere sommesse.
Un signore dall'aspetto distinto mi ha preceduto nel soccorso rassicurandomi: tranquillo, sono un medico. Ma io l'ho zittito al volo: tranquillo sarà lei, io sono il padre. E ho buttato lì la mia diagnosi: tutta scena, lo conosco, non ha niente. Il piccolo ha sentito gli occhi su di sé e si è giocato le sue ultime carte in un esaltante gran finale: ha chiamato nonna una signora che ci è rimasta molto male (facendo sbellicare dalle risate i suoi amici), ha tirato giù una tovaglia con i piatti che c'erano sopra nel tentativo (fallito) di non cadere un'altra volta e infine si è esibito nella colonna sonora dei tre porcellini cantandola a "miao miao" come solo lui sa fare. La cena è finita quando la proprietaria di un giovane labrador ha lasciato la sala con il marito sotto braccio e lo sguardo di chi pensa: caro, per fortuna noi abbiamo un cane.
Noi invece ci siamo raccolti il figlioletto e ce lo siamo portati in camera dove è crollato esausto. E' stato lì che nel cuore della notte, quando nell'albergo si sentiva solo il ronzio della caldaia e qualche scarico d'acqua lontano, quando anche il titolare aveva spento la luce e in cucina regnava il silenzio più assoluto, è stato in quel momento che un grido ha squarciato l'oscurità totale dei duemila metri di quota, più forte della sirena anti incendio di quell'edificio costruito interamente in legno. Era lui, in piedi sul letto, il volto contratto e i pugni stretti che urlava a pieni polmoni: laaaaatte!
Quello che è andato in scena è uno spettacolo già visto di cui conosco il copione in ogni sua variante. Sua maestà il piccolo playboy - l'attore protagonista di questa commedia di cui è autore, regista, sceneggiatore e soprattutto tecnico del suono - si è presentato sul palco dell'albergo altoatesino indossando il suo costume preferito, quei pantaloni di cuoio tirolesi che gli sono valsi subito le simpatie del numeroso pubblico tedesco. Capelli biondi, occhi azzurri, guance rosse è stato accolto da complimenti e sorrisi compiacenti, con quella strana luce che ho imparato a leggere negli occhi delle donne e che su per giù vuol dire nostalgia (se sono troppo vecchie), insofferenza (se sono troppo giovani) o grandi aspettative (se hanno l'età giusta).
Per farla breve il grande show è iniziato all'ora di cena quando il piccolo è salito in piedi sulla sedia con una fetta di speck in mano per farla ammirare a tutti prima di non mangiarla. Oh che bel bambino, si è lasciata scappare una che avrebbe avuto l'età giusta ma era lì con il marito sbagliato, ignara di quello che stava per accadere.
Noi invece sapevamo, e attenti ad evitare guai peggiori (tipo che tirasse l'acqua alla cameriera, colpevole di avergli portato un bicchiere con i manici a lui che ormai è grande e vuole bere a canna) l'abbiamo lasciato libero di scorazzare dalla sala da pranzo all'angolo dei giochi al grido di Heidi, Peter, nonno, caprette, beee, muuuu e din don fa la campana.
Senza trovare complici nei figli dei tedeschi, il piccolo playboy ha continuato lo show snobbando il cibo (mangiare: che gran perdita di tempo) e quel bicchierone di latte che una cameriera premurosa gli aveva portato nel tentativo disperato di calmarlo, probabilmente dopo averci messo una dose di valium di propria iniziativa.
All'improvviso, durante una delle sue incursioni fra i tavoli più appartati, il piccolo demonio è riuscito nella sua specialità: inciampare nelle fughe fra una piastrella e l'altra cadendo a testa in giù, tenendo le manine dietro la schiena per non rovinare l'eleganza del suo volo. Ho sentito il toc della fronte che batteva contro la pietra e ho iniziato il conto alla rovescia per capire quando sarebbe arrivato lo strillo, puntuale come un tuono dopo il fulmine. Ci avrà messo tre o quattro secondi, roba da grandi occasioni, ma infine è arrivato: un acuto lancinante che ha riempito le volte della sala gotica abituate a chiacchiere sommesse.
Un signore dall'aspetto distinto mi ha preceduto nel soccorso rassicurandomi: tranquillo, sono un medico. Ma io l'ho zittito al volo: tranquillo sarà lei, io sono il padre. E ho buttato lì la mia diagnosi: tutta scena, lo conosco, non ha niente. Il piccolo ha sentito gli occhi su di sé e si è giocato le sue ultime carte in un esaltante gran finale: ha chiamato nonna una signora che ci è rimasta molto male (facendo sbellicare dalle risate i suoi amici), ha tirato giù una tovaglia con i piatti che c'erano sopra nel tentativo (fallito) di non cadere un'altra volta e infine si è esibito nella colonna sonora dei tre porcellini cantandola a "miao miao" come solo lui sa fare. La cena è finita quando la proprietaria di un giovane labrador ha lasciato la sala con il marito sotto braccio e lo sguardo di chi pensa: caro, per fortuna noi abbiamo un cane.
Noi invece ci siamo raccolti il figlioletto e ce lo siamo portati in camera dove è crollato esausto. E' stato lì che nel cuore della notte, quando nell'albergo si sentiva solo il ronzio della caldaia e qualche scarico d'acqua lontano, quando anche il titolare aveva spento la luce e in cucina regnava il silenzio più assoluto, è stato in quel momento che un grido ha squarciato l'oscurità totale dei duemila metri di quota, più forte della sirena anti incendio di quell'edificio costruito interamente in legno. Era lui, in piedi sul letto, il volto contratto e i pugni stretti che urlava a pieni polmoni: laaaaatte!
11 settembre 2007
I volti di mille bambini
C'è un posto in città dove ci sono le foto di quasi mille bimbi appese alle pareti. Chi apre la porta incontra una cornice in vetro con una ventina di piccoli che sorridono all'obiettivo. Lungo il corridoio eccone un'altra, un'altra e un'altra ancora, ciascuna piena di fotografie felici. Chi ha la pazienza di entrare in una stanzetta separata scopre dieci nuovi quadri con duecento piccole fotografie di bimbi sorridenti che guardano il visitatore, alcune con il nome e la data scritti sopra. Quel posto è il reparto di ginecologia dell'ospedale Santa Chiara ma questa storia rende meglio se lo si chiama - come una volta - il reparto di maternità.
Cominciò una madre, vent'anni fa, a portare alle ostetriche una foto di suo figlio per ringraziarle di averla aiutata a mettere al mondo il bimbo. Saranno stati gli anni Ottanta, nessuno lì dentro se lo ricorda più, ma quella foto ne ha chiamate tante altre e l'altro giorno mi sono tolto lo sfizio di contarle: sono quasi mille. E altre ancora attendono in un cassetto di essere appese.
Per l'infanzia sono tempi cupi. Le foto di bambini evocano notizie di abusi, denunce, sequestri di computer e arresti. Può capitare addirittura che un padre debba chiedere il permesso per filmare il proprio bimbo all'asilo o a scuola mentre gioca con i compagni, non sia mai che gli altri genitori non siano d'accordo. Ma lì dentro no: nel reparto di maternità dell'ospedale Santa Chiara i bimbi sorridono sereni e non c'è privacy che impedisca di osservare - ammirati - i bimbi altrui.
Sono soprattutto gli uomini a guardare quelle foto e i motivi sono due. Primo: le donne lì dentro hanno molto altro da fare che stare sul corridoio a passeggiare avanti e indietro. Secondo: gli uomini scoprono solo all'ultimo momento che al mondo esistono anche i bambini, quando ormai è ora di occuparsene. Così devono recuperare il tempo perduto e con l'occhio attento dello scienziato scoprono da quelle foto come sarà la loro vita.
Ci sono i bimbi più piccoli sdraiati sul fasciatoio con lo sguardo perso nel vuoto, quelli più grandi fotografati al mare con la paletta e il secchiello, ci sono i fratelli maggiori con lo sguardo smarrito e preoccupato che tengono stretti gli ultimi arrivati (perché così gli hanno detto di fare), ci sono le foto di Natale con i bambini sotto l'albero (alcuni vestiti da babbo natale, poveretti) e c'è una foto che fa tirare un sospiro di sollievo a tutti gli altri genitori che ingannano l'attesa davanti a quella galleria: è quella in cui ci sono cinque bimbi identici, seduti l'uno accanto all'altro su un divano in cui da quando sono nati non c'è più posto per nessuno.
In quelle foto si legge una realtà trentina fatta di gite in montagna e compleanni festeggiati in giardino. Nelle immagini degli ultimi anni c'è anche qualche bambino colorato, con la madre che ha voluto partecipare all'usanza collettiva come per dire: eccoci qui. E a tutti quelli che pensano che sia il mondo esterno (e non i geni) a fare di una persona ciò che è, consiglio di guardare negli occhi quei bambini che a pochi mesi d'età, senz'aver visto il mondo, hanno già una storia da raccontare. La mia foto lì dentro non c'è (perché sono nato altrove e comunque all'epoca non c'era quest'abitudine) ma non mi dispiacerebbe che ci fosse per raccontare assieme a tutte le altre immagini la storia della nostra città.
Quella galleria di mille foto al terzo piano dell'ospedale Santa Chiara mi aveva già colpito a tempo debito, quando fu il mio turno di presentarmi - padre trafelato - in quel reparto. Sono tornato lì dentro l'altro giorno. Provenivo da un reparto in cui si muore, dov'ero andato per motivi di lavoro, e volevo tirarmi su il morale con una visita nel posto in cui si nasce: funziona.
Nessuno ha avuto niente da ridire quando mi sono messo a contare le foto senza riuscire a trattenere, di fronte a qualche immagine, una risata. Confesso che ho barato: non sono ancora mille, per fare cifra tonda ne mancano almeno un centinaio. Così sono uscito di là determinato a portare al più presto alle ostetriche una delle nostre foto di famiglia, per contribuire a far crescere in città quella gigantesca galleria dove la privacy non esiste e i bimbi ridono felici.
Cominciò una madre, vent'anni fa, a portare alle ostetriche una foto di suo figlio per ringraziarle di averla aiutata a mettere al mondo il bimbo. Saranno stati gli anni Ottanta, nessuno lì dentro se lo ricorda più, ma quella foto ne ha chiamate tante altre e l'altro giorno mi sono tolto lo sfizio di contarle: sono quasi mille. E altre ancora attendono in un cassetto di essere appese.
Per l'infanzia sono tempi cupi. Le foto di bambini evocano notizie di abusi, denunce, sequestri di computer e arresti. Può capitare addirittura che un padre debba chiedere il permesso per filmare il proprio bimbo all'asilo o a scuola mentre gioca con i compagni, non sia mai che gli altri genitori non siano d'accordo. Ma lì dentro no: nel reparto di maternità dell'ospedale Santa Chiara i bimbi sorridono sereni e non c'è privacy che impedisca di osservare - ammirati - i bimbi altrui.
Sono soprattutto gli uomini a guardare quelle foto e i motivi sono due. Primo: le donne lì dentro hanno molto altro da fare che stare sul corridoio a passeggiare avanti e indietro. Secondo: gli uomini scoprono solo all'ultimo momento che al mondo esistono anche i bambini, quando ormai è ora di occuparsene. Così devono recuperare il tempo perduto e con l'occhio attento dello scienziato scoprono da quelle foto come sarà la loro vita.
Ci sono i bimbi più piccoli sdraiati sul fasciatoio con lo sguardo perso nel vuoto, quelli più grandi fotografati al mare con la paletta e il secchiello, ci sono i fratelli maggiori con lo sguardo smarrito e preoccupato che tengono stretti gli ultimi arrivati (perché così gli hanno detto di fare), ci sono le foto di Natale con i bambini sotto l'albero (alcuni vestiti da babbo natale, poveretti) e c'è una foto che fa tirare un sospiro di sollievo a tutti gli altri genitori che ingannano l'attesa davanti a quella galleria: è quella in cui ci sono cinque bimbi identici, seduti l'uno accanto all'altro su un divano in cui da quando sono nati non c'è più posto per nessuno.
In quelle foto si legge una realtà trentina fatta di gite in montagna e compleanni festeggiati in giardino. Nelle immagini degli ultimi anni c'è anche qualche bambino colorato, con la madre che ha voluto partecipare all'usanza collettiva come per dire: eccoci qui. E a tutti quelli che pensano che sia il mondo esterno (e non i geni) a fare di una persona ciò che è, consiglio di guardare negli occhi quei bambini che a pochi mesi d'età, senz'aver visto il mondo, hanno già una storia da raccontare. La mia foto lì dentro non c'è (perché sono nato altrove e comunque all'epoca non c'era quest'abitudine) ma non mi dispiacerebbe che ci fosse per raccontare assieme a tutte le altre immagini la storia della nostra città.
Quella galleria di mille foto al terzo piano dell'ospedale Santa Chiara mi aveva già colpito a tempo debito, quando fu il mio turno di presentarmi - padre trafelato - in quel reparto. Sono tornato lì dentro l'altro giorno. Provenivo da un reparto in cui si muore, dov'ero andato per motivi di lavoro, e volevo tirarmi su il morale con una visita nel posto in cui si nasce: funziona.
Nessuno ha avuto niente da ridire quando mi sono messo a contare le foto senza riuscire a trattenere, di fronte a qualche immagine, una risata. Confesso che ho barato: non sono ancora mille, per fare cifra tonda ne mancano almeno un centinaio. Così sono uscito di là determinato a portare al più presto alle ostetriche una delle nostre foto di famiglia, per contribuire a far crescere in città quella gigantesca galleria dove la privacy non esiste e i bimbi ridono felici.
04 settembre 2007
Ecco come farla franca
Conosco un investigatore che per deformazione professionale immagina sempre che farebbe se fosse coinvolto - come assassino - in un caso di omicidio. Il caso Cogne era il suo preferito, ma con i gialli estivi che si sono ripetuti in questi giorni - ragazze morte, coppie torturate e infine uccise, corpi trovati nel bosco dentro un sacco - ha avuto un bel da fare a ricostruire scene del delitto, alibi e moventi. E io mi sono prestato volentieri a fare la sua spalla, così, se mai mi capiterà di essere nei guai, saprò come venirne fuori. Per dire la verità lavora in un ufficio e le indagini le conosce - quindi - dai giornali, ma ha molto tempo per ragionare sulle tecniche investigative tanto che ha elaborato un manuale che qui riporto ad uso di chi ha (o prima o poi avrà) la coscienza sporca. E per chi obietta che in questo modo si aiutano i colpevoli a farla franca dico quello che mi dice sempre lui, l'inquirente: «Tra noi e loro è una sfida, dobbiamo prenderli ma non possiamo negargli il diritto sacrosanto di fuggire».
E allora ecco i punti deboli su cui cadono gli assassini. Al primo posto c'è il telefono cellulare che può essere utile a molti scopi. Da quell'apparecchio si capisce con chi avete parlato (quando e per quanto tempo), a chi avete spedito i vostri messaggi, dove siete stati e dove siete in questo momento (sempre che il telefono sia acceso) con un'approssimazione di poche centinaia di metri: se siete dispersi e sperate che qualcuno vi ritrovi un telefono acceso in tasca può tornare molto comodo, ma se siete in fuga liberatevi subito dell'apparecchio senza illudervi che basti cambiare scheda.
Vengono poi le telecamere. Le rapine in banca in questo caso non c'entrano: guardatevi le spalle mentre lasciate la scena del delitto e passate sotto il raggio d'azione della piccola telecamera di un negozio, oppure mentre imboccate l'autostrada sicuri che nessuno vi osservi: una volta - proprio qui in Trentino - hanno arrestato un giovane che aveva appena ucciso la fidanzata a Brescia e l'aveva trasportata nella piana Rotaliana. Gli hanno chiesto: «Dov'eri?». «A casa» ha detto lui, ma è diventato pallido quando gli hanno mostrato il video di una telecamera in autostrada che riprendeva la sua Volvo in viaggio verso nord.
Facciamo finta che su di voi abbiano forti sospetti, tanto che vi hanno già arrestati e portati in caserma per interrogarvi, ma guarda caso vi trattano con i guanti di velluto tanto da mettervi tranquilli in una stanza a parlare con grande discrezione con il vostro complice (hanno beccato pure lui). Tanta gentilezza vi sorprende? Osservazione giusta: probabilmente quel locale è pieno di microfoni, fossi in voi starei zitto senza provare a comunicare a gesti perché da qualche parte hanno nascosto anche una telecamera. Se sequestrano il vostro computer siete nei guai: se siete tipi tecnologici lì dentro troveranno l'intera vostra vita, compresa quella che credevate di avere cancellato gettandola nel cestino.
Denaro. Per un fuggiasco prelevare soldi con il bancomat o con la carta di credito equivale a dire: «Sono qui, venite a prendermi» tanto vale tentare una rapina in banca, anche perché la vostra tessera sicuramente l'avranno già bloccata.
Attenzione infine ai parenti: è tenendo d'occhio i familiari che gli investigatori contano - prima o poi - di acciuffare un latitante. Così arrestarono Peter Paul Rainer - l'altoatesino condannato per omicidio - quando i genitori andarono a trovarlo per le feste nel suo rifugio di Vienna. L'altro famoso latitante altoatesino - Max Leitner, soprannominato il re delle evasioni - non commise lo stesso errore, ma rimase vittima della voglia di casa del suo compagno di fuga meridionale che dall'Africa telefonò in Sicilia per gli auguri di Natale. Presi.
L'ultima cosa che mi insegna sempre il mio amico piedipiatti è che se dopo 48 ore dalla scoperta del delitto non vi hanno ancora incastrato siete salvi: le probabilità scendono quasi a zero. Dice così - e sospira - perché lui è uno che dava la caccia ai criminali ai vecchi tempi, quando il Dna era roba da medici e non da poliziotti, e un po' rimpiange i tempi in cui invece delle tecnologie si usava il fiuto.
E allora ecco i punti deboli su cui cadono gli assassini. Al primo posto c'è il telefono cellulare che può essere utile a molti scopi. Da quell'apparecchio si capisce con chi avete parlato (quando e per quanto tempo), a chi avete spedito i vostri messaggi, dove siete stati e dove siete in questo momento (sempre che il telefono sia acceso) con un'approssimazione di poche centinaia di metri: se siete dispersi e sperate che qualcuno vi ritrovi un telefono acceso in tasca può tornare molto comodo, ma se siete in fuga liberatevi subito dell'apparecchio senza illudervi che basti cambiare scheda.
Vengono poi le telecamere. Le rapine in banca in questo caso non c'entrano: guardatevi le spalle mentre lasciate la scena del delitto e passate sotto il raggio d'azione della piccola telecamera di un negozio, oppure mentre imboccate l'autostrada sicuri che nessuno vi osservi: una volta - proprio qui in Trentino - hanno arrestato un giovane che aveva appena ucciso la fidanzata a Brescia e l'aveva trasportata nella piana Rotaliana. Gli hanno chiesto: «Dov'eri?». «A casa» ha detto lui, ma è diventato pallido quando gli hanno mostrato il video di una telecamera in autostrada che riprendeva la sua Volvo in viaggio verso nord.
Facciamo finta che su di voi abbiano forti sospetti, tanto che vi hanno già arrestati e portati in caserma per interrogarvi, ma guarda caso vi trattano con i guanti di velluto tanto da mettervi tranquilli in una stanza a parlare con grande discrezione con il vostro complice (hanno beccato pure lui). Tanta gentilezza vi sorprende? Osservazione giusta: probabilmente quel locale è pieno di microfoni, fossi in voi starei zitto senza provare a comunicare a gesti perché da qualche parte hanno nascosto anche una telecamera. Se sequestrano il vostro computer siete nei guai: se siete tipi tecnologici lì dentro troveranno l'intera vostra vita, compresa quella che credevate di avere cancellato gettandola nel cestino.
Denaro. Per un fuggiasco prelevare soldi con il bancomat o con la carta di credito equivale a dire: «Sono qui, venite a prendermi» tanto vale tentare una rapina in banca, anche perché la vostra tessera sicuramente l'avranno già bloccata.
Attenzione infine ai parenti: è tenendo d'occhio i familiari che gli investigatori contano - prima o poi - di acciuffare un latitante. Così arrestarono Peter Paul Rainer - l'altoatesino condannato per omicidio - quando i genitori andarono a trovarlo per le feste nel suo rifugio di Vienna. L'altro famoso latitante altoatesino - Max Leitner, soprannominato il re delle evasioni - non commise lo stesso errore, ma rimase vittima della voglia di casa del suo compagno di fuga meridionale che dall'Africa telefonò in Sicilia per gli auguri di Natale. Presi.
L'ultima cosa che mi insegna sempre il mio amico piedipiatti è che se dopo 48 ore dalla scoperta del delitto non vi hanno ancora incastrato siete salvi: le probabilità scendono quasi a zero. Dice così - e sospira - perché lui è uno che dava la caccia ai criminali ai vecchi tempi, quando il Dna era roba da medici e non da poliziotti, e un po' rimpiange i tempi in cui invece delle tecnologie si usava il fiuto.
02 settembre 2007
I conquistatori del Piz Boè
Se ti piace la folla, se non ti danno fastidio l'odore di sudore e gli schiamazzi, se il rumore dei motori a fondovalle per te è una musica, se consideri il tempo passato in coda un'occasione per riposarti, allora sali ai 3.152 metri del Piz Boè in una domenica d'agosto: troverai tremila persone (per la maggior parte arrivate con la vicina funivia del Sass Pordoi) che hanno avuto la stessa, fantastica, idea. Poi incolonnati sul sentiero che ti riporterà a valle, dove avrai lasciato l'auto nell'immenso parcheggio del passo Pordoi e torna a casa soddisfatto per aver vissuto un'esperienza forte: la montagna usa e getta, quella che le agenzie turistiche propongono a chi non ha tempo per una settimana sulle Dolomiti ma deve concentrare in sette giorni Venezia, Riva del Garda, Innsbruck, il Mart di Rovereto e se la stagione è quella giusta - tappa d'obbligo - i mercatini di Natale. Se invece tutto questo ti rende un po' triste, sali lassù di lunedì, magari anche in funivia (che in fondo è una gran comodità) e bevendo un the caldo sulla terrazza della Capanna Fassa scoprirai un'altra montagna.
P.S. le foto dell'escursione sulla montagna usa e getta sono state pubblicate nella galleria del mio giornale a questo indirizzo: ingorgo a 3 mila metri di quota
P.S. le foto dell'escursione sulla montagna usa e getta sono state pubblicate nella galleria del mio giornale a questo indirizzo: ingorgo a 3 mila metri di quota
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