28 ottobre 2007

Il computer di Coelho

Il mondo è diventato la mia casa
e il mio computer è la sua porta
attraverso cui le parole scorrono
come i fili che uso per tessere i miei libri.
E' dove le email nutrono il mio blog
come il fiume nutre il mare,
dove le fotografie possono immortalare un attimo.
Il mio computer è un mulino
dove posso interagire
oppure controllare i risultati del calcio
E' la mia finestra verso il mondo...



Non credevo che avrei mai messo fuoridalpalazzo una pubblicità. E invece eccola qui. L'ho vista poco fa alla televisione e l'ho voluta pubblicare subito sul blog perché il computer di Paulo Coelho è proprio come il mio computer. Anche se il mio non è un Hp.

P.S.: ci sono spot pubblicitari che superano di gran lunga i programmi che interrompono. Questo - a mio parere - è uno di quelli.

27 ottobre 2007

Un'ora sola (io) vorrei...

ora legaleC'erano anni in cui l'annuncio di riportare le lancette un'ora indietro evocava notti prolungate (possibilmente tempestose) da godere a letto preferibilmente consapevoli, nel dormiveglia mattutino, del caldo regalo guadagnato in primavera quando quell'ora andò sacrificata.
Di quell'ora ognuno fa ciò che vuole: i bimbi ignari non se n'accorgeranno, i ragazzini apriranno gli occhi di buon mattino e si gireranno (per una volta) dall'altra parte soddisfatti, gli innamorati godranno un'ora d'amore che sembrerà (ahimé) un minuto, i viventi della notte faranno l'alba attraversando in un baleno la notte più lunga dell'anno mentre i macchinisti del treno, fermi sul binario morto di una piccola stazione, priva di bar e servizi igienici, malediranno la sorte che fa cadere sempre il loro nome in quel turno maledetto che prevede sessanta minuti d'attesa prima che venga l'ora di (ri)partire.
Si potrebbe giocare - in una notte come questa - ad inventare la macchina del tempo, togliendo le pile all'orologio per vivere un'ora che in realtà non è mai esistita, magari per trascorrerla al telefono con una persona lontana per ascoltare insieme vecchie canzoni. E invece no: andremo a letto all'ora solita e senza accorgerci che il tempo si è fermato ci sveglieremo all'alba (anzi, un'ora prima) quando il piccolo demonio, che ancora degli orologi non ha capito l'utilità, guarderà dalla finestra e deciderà (come dargli torto?) che giunta è l'ora di giocare perché sono le cinque del mattino (altro che dormire!).
Giochi, sesso, carezze chiacchiere o sane dormite: qualunque uso si faccia di quest'ora regalata, tutti possiamo riflettere sulla possibilità artificiosa - ma reale - di fermare il tempo che fugge implacabile tenendo ferme le lancette con un dito, seduti sulla poltrona più comoda che c'è in soggiorno.
Come quella vecchia di montagna (che poi era mia nonna) abituata a vivere in una stanza dove l'unico cambiamento giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese era l'inclinazione del sole che attraverso le tende misurava tempo e stagioni. Un pomeriggio di novembre - noi soli - ascoltavamo alla televisione notizie di stragi, attentati, crisi economiche e politiche. Lei si alzò dalla sedia, fece due passi malfermi e con un mezzo sorriso tolse la corrente elettrica all'apparecchio: "Spengo la televisione - disse - guardo dalla finestra e so che nulla è mai accaduto".

21 ottobre 2007

L'invidia della busta paga

Busta paga, oggetto del mistero che cambia di mese in mese in base a una mole di parametri, tanto che è molto difficile trovarne una uguale all'altra e fare confronti. Ma tutte hanno in comune la proprietà di lasciare insoddisfatti i proprietari, secondo una legge non scritta (ma pienamente dimostrata) che mi enunciò una volta un avvocato da quattro soldi che avrebbe avuto maggior fortuna come psicologo: "I soldi, caro mio, danno assuefazione. Che tu prenda dieci, cento o mille è a quel livello che fisserai il livello minimo di sopravvivenza, anche il giorno successivo al tuo ultimo aumento. E se ti capiterà, un giorno, di fare un salto indietro ti sentirai, insopportabilmente, un poveraccio".
Ci pensavo l'altro giorno sfogliando le pagine di un settimanale che ha dedicato la copertina ai salari degli italiani. In questa corsa al rialzo, che non ammette scivoloni, ci sono i poveri veri che giustamente si lamentano perché con 900 euro al mese non riescono a pagare l'affitto di 600 euro e saldare il conto al supermarket. Ma si lamenta l'impiegato da 1.300 euro al mese che si è dovuto comprare a rate l'ultimo modello di telefonino, non sorride il funzionario da 2.000 euro che senza lo stipendio della moglie (part-time) non ce la farebbe e bisogna comprendere, infine, il medico disperato perché un mutuo da 2 mila euro per la sua villa in collina è cosa che gli toglie il sonno anche se ogni mese l'azienda sanitaria gliene versa più del doppio.
La busta paga è relativa. Così l'amministratore di una società pubblico-privata che ogni tanto mi offre un caffè (so quanto guadagna e non faccio nemmeno il gesto di tirare fuori il portafogli) dovrebbe essere soddisfatto dei 100 mila euro che si aggiungono ogni anno al suo stipendio di professionista. E invece si angoscia perché in giro per l'Italia quelli come lui - tutti a capo di società in perdita - prendono almeno il dieci, venti per cento in più: "Ma ti par giusto?".
Chi vi scrive è sottopagato (ovvio!) e raccoglie di tanto in tanto le confidenze di un padre di famiglia che ha il conto in banca in rosso per pagare al figlio l'affitto in una grande città e le rate dell'università privata: "E' l'unico modo al giorno d'oggi per assicurare a un giovane il futuro". E chi non ha i soldi per mantenere i figli nemmeno alle professionali? Fatti loro.
Ci fu un periodo - un paio d'anni fa - in cui ero molto corteggiato perché sul mio computer custodivo (legalmente) un file enorme con i redditi di tutti i trentini. I guadagni dei ricconi finirono sul giornale, ma ai trentini - stupiti, un po' ammirati, forse scandalizzati di fronte ai redditi da capogiro - interessavano in realtà i guadagni del vicino di casa, di sua moglie o del vecchio compagno di scuola che non erano entrati nell'hit parade. Per questo amici e conoscenti mi telefonavano, con fare un po' carbonaro, e mi chiedevano: "Guarda un po' quanto guadagna il Roberto T....". Fu in quel periodo che maturai un corollario da abbinare alla legge dell'insoddisfazione sulla busta paga: "L'importante è guadagnare un po' di più di chi ti sta vicino".
Avevo iniziato con l'avvocaticchio (così lo chiamano i colleghi, ma io non sono d'accordo) che teorizzava l'assuefazione del denaro e voglio concludere con lui e il metodo che adottò per non restarne schiavo: stabilì che avrebbe lasciato ad altri di lavorare il sabato, la domenica e la sera dopo le sette perché il tempo così guadagnato era una cosa che con i soldi non avrebbe potuto mai comprare. Lo incontrate talvolta a spasso per la città, è quello con la borsa un po' lisa ma - almeno lui - non si lamenta.

15 ottobre 2007

Emergenze domestiche

Altro che Icef, frane dolomitiche, studenti ubriachi e sacerdoti gay. Ci sono momenti nella vita in cui tutto passa in secondo piano per affrontare un'emergenza vera, che pretende attenzione ed energie per essere superata senza danno: abbiamo un topo in casa. L'abbiamo scoperto l'altro giorno quando prendendo un sacchetto di pasta dalla soffitta che usiamo come dispensa ci siamo accorti che era un po' troppo leggero e che sul fondo c'era un buchetto rosicchiato con perizia. Ognuno ha il topo che si merita: il nostro è un topo buongustaio perché si è mangiato due pacchi di De Cecco ignorando la Barilla. Ma questi suoi gusti raffinati non basteranno a farlo salvo. Così dopo un rapido consulto (erano anni che tra amici non si discuteva su un tema con tanta passione e diversità di opinioni) sono corso in quel negozio di via Rosmini (dove già mi ero rivolto quando avevo problemi di formiche) per confessare tutta la mia angoscia: «Aiuto! Ho un topo in casa!». Tranquillo - mi ha risposto il giovanotto che stava dietro il banco - sapesse quanti ne arrivano qui agitati come lei. E mi ha guidato vicino a uno scaffale dove c'era tutto quello di cui avevo bisogno. Da un rapido esame degli escrementi (senza bisogno di inviare campioni al Ris di Parma per il test del Dna) abbiamo stabilito che il mio topo è un topolino di campagna e va quindi avvelenato, visto che la mia è una casa di città. Ma prima di passare all'azione mi sono voluto togliere un dubbio: «Scusa tanto, ma come ci è arrivato un topolino in una soffitta al quarto piano per di più senz'ascensore?». Signore mio - è stata la risposta - non c'è nulla di cui stupirsi, lo sa che c'è gente che ha visto i topi arrampicarsi su muri verticali come se fossero lucertole? Quando si tratta di caccia - l'ho capito perfino io - il confine con la leggenda si fa sempre più sottile.
Chi crede che avvelenare un topo sia un compito facile farà bene a leggere oltre. Primo: non bisogna toccare le esche con le dita altrimenti il topo - che ha il cervello piccolo ma non è stupido - diffiderà e continuerà a mangiare la pasta. Secondo, bisogna stare attenti che nessun altro in casa - animali domestici o bambini - faccia la fine che vogliamo fare al topo. Risolti questi due problemi ho piazzato due esche ai lati opposti della soffitta e me ne sono andato a letto. Verso le tre di notte - colto da un presentimento - sono corso in soffitta per scoprire che il veleno era scomparso. Ovvio - si dirà - c'era il topo. Ma le sparizioni fanno comunque un po' impressione. Sono tornato a letto pensando: ora morirà. E senza riuscire a prendere sonno immaginavo quel topo colto da inspiegabili (per lui) emorragie interne cadere stecchito tra le tegole del tetto cercando all'aperto un impossibile sollievo alla sensazione di soffocamento provocata dal veleno. E poi - dicono le istruzioni - finirà mummificato: potenza della chimica, povero topino.
Il giorno successivo mi sono alzato e giusto per scrupolo ho piazzato un'altra esca e un'altra ancora. A mezzogiorno ho verificato che cosa stava accadendo lì dentro (sempre per scrupolo) e ho scoperto - orrore - che erano sparite un'altra volta. Altra esca: sparita. Altra esca: sparita. Così, in preda all'ansia, sono corso al negozio e senza mezzi termini mi sono lamentato: «Il mio topo mi sta prendendo per il culo, prende il veleno ma non muore». Dopo un breve consulto (durante il quale il topino di campagna è diventato un ratto, vista la facilità con cui trasporta i sacchettini velenosi) abbiamo capito qual era il problema: dopo essersi abbuffato di pasta al grano duro quel topo maledetto sta facendo scorte per l'inverno. Porta il veleno nella tana e credendolo una leccornia lo tiene da parte perché è un tipo previdente. Quindi morirà - forse - durante il cenone di Natale. Per il momento me lo tengo e penso con rimpianto a tutte le volte che ho scacciato il gatto dei vicini che veniva a fare la pipì sul gelsomino della mia terrazza e - stanco di essere preso a male parole - non si è fatto più vedere. Un gatto in casa, credetemi, non serve solo a fare le fusa. Ma queste sono saggezze che abbiamo ormai dimenticato.

11 ottobre 2007

Predicatori inaffidabili

Dubita di chi predicando bene razzola male: motto ingenuo ma veritiero. Così dovremmo dubitare del Comune che invita le mamme a usare i pannolini lavabili (rispettosi dell'ambiente e soprattutto dei cassonetti dei rifiuti) ma lascia che negli asili comunali si accumulino tonnellate di Pampers usa e getta. Nessuna madre si scandalizzerà per questo, conoscendo bene il fenomeno pannolini che non è opportuno, per ragioni di eleganza, affrontare in questo pezzo. Ma è solo l'ultimo esempio di una lunga serie di inviti destinati a cadere nel vuoto.
Ci dicono che per il bene del pianeta non dobbiamo usare l'auto (meglio il treno) e poi costruiscono gallerie e strade a quattro corsie che portano fiumi di veicoli in città mortificando i binari ferroviari. E come se non bastasse - credendo di fare un favore ai residenti - i consiglieri d'amministrazione dell'Autobrennero annunciano sconti ai pendolari che usano l'auto ogni giorno per andare al lavoro. Chi va in treno o in autobus, invece, paghi tranquillo.
Ci dicono di usare i parcheggi di attestamento ai margini della città e poi - quando il servizio navetta comincia a funzionare - ci fanno pagare il prezzo del biglietto. Prezzo simbolico - hanno spiegato, ed è vero - ma chi intasa la città viaggiando sulla sua vettura lo può fare gratis e a piacimento con la speranza di trovare un posto auto visto che stiamo scavando il sottosuolo in varie zone per trovare spazio alle vetture.
Ci dicono di privilegiare i prodotti trentini e poi scopriamo (anzi l'hanno scoperto i cavatori della valle di Cembra con le lacrime agli occhi) che per rifare l'ingresso di uno dei suoi palazzi più importanti la Provincia autonoma di Trento - regno del porfido - ha usato porfido cinese.
Ci dicono di abbassare di un grado o due il termostato e se abbiamo freddo di metterci il maglione. Ma quando siamo andati a controllare la temperatura negli uffici - termometro alla mano - abbiamo scoperto che ai dipendenti pubblici piace il clima tropicale. Anche a gennaio.
Ci dicono che l'acqua del sindaco è buona, anzi ottima, meglio delle acque minerali in bottiglia, ma quando la chiediamo al ristorante ci squadrano come se fossimo dei pezzenti. Su questo la Provincia ha varato una campagna informativa ma quando politici, professori, oratori e via dicendo si ritrovano a convegno sul tavolo hanno sempre una fila di bottiglie d'acqua industriale. A differenza del porfido, quella almeno è trentina.
Ci dicono che stanno studiando il modo di far conciliare famiglia e carriera a chi lavora negli uffici. Peccato che quando le madri fortunate lasciano la scrivania e corrono all'asilo aziendale a prendere il bambino entri in azione una donna molto meno fortunata a svuotare il cestino, una che lavora metà di giorno e metà di notte, che ha un contratto fino a Natale (ma non prende i soldi da quest'estate).
Ci insegnano che è meglio fare vacanze sostenibili - magari in bicicletta - mentre i politici volano in gruppo a studiare le abitudini degli indiani. La sera tutti a dormire nell'albergo occidentale, uguale a quello che c'è a Parigi, Londra e New York.
Ci dicono di spegnere la lucetta della televisione perché messi tutti assieme quei pallini rossi fanno girare le turbine delle centrali elettriche. Ma quando passiamo in via Rosmini in piena notte restiamo abbagliati dai fari della facoltà di Giurisprudenza che illuminano a giorno il palazzo di Mario Botta.
Ci dicono di salire le scale a piedi: fa bene a noi e fa bene anche all'ambiente. Ma quando ci facciamo indicare le scale di un grande palazzo l'usciere perplesso punta il dito verso una porticina d'acciaio grigia (con la scritta "emergenza") che nasconde una serie di rampe deserte e impolverate dove una donna sola avrebbe paura ad avventurarsi.
Ci dicono tante cose, c'è chi le ha chiamate "cose giuste" e ormai sono di gran moda. Mi sono venute in mente l'altro ieri quando mi è arrivata una lettera per annunciare il ritorno della fiera dedicata a queste azioni: ci sarà la folla tra il 2 e il 4 novembre nei padiglioni di Trento Fiere per la rassegna "Fai la cosa giusta". Sarebbe bello se tra la gente che con grande entusiasmo razzola bene ci fosse anche qualche politico di ritorno da un volo transcontinentale.