19 febbraio 2006

Nelle stanze dei bottoni

Per una rubrica che si chiama "Fuori dal palazzo" un'incursione nelle stanze dei Palazzi (quelli con la "p" maiuscola che incutono rispetto, a volte timore) sembrerà strana ma ugualmente andremo lì dentro a farci un giro, con la promessa di mantenere lo spirito di chi da quelle stanze preferisce stare fuori, almeno la domenica.
Questo giro comincia - è ovvio - da piazza Dante, dove il palazzo della Provincia è il più ambizioso e lo fa capire al primo sguardo con i suoi marmi, i pavimenti con il legno a spina di pesce che scricchiola per dimostrare che è roba vera, le sale affrescate, il seminterrato con le pietre a vista, l'ufficio presidenziale di Dellai grande quanto un mini appartamento e quelle crepe sugli stucchi delle porte (nessuno è perfetto) che non hanno retto al primo inverno col riscaldamento accesso. Dall'altra parte della strada c'è il palazzo della Regione dove un giro fra i corridoi non mantiene le promesse della grande architettura esterna: aria di smobilitazione, uffici deserti, sono anni ormai che lì dentro non si decide più nulla.
Al terzo piano di palazzo Geremia, in via Belenzani, si arriva all'ufficio del sindaco calpestando un pavimento di legno d'abete chiaro che se vi cade una moneta resta il segno. Però è bello, si intona con le travi a vista sul soffitto e con le finestre antiche affacciate sui tetti del centro storico. Mentre aspettate Pacher, vi faranno accomodare su uno dei quattro divani fuori del suo ufficio e poi - se è Natale e siete giornalisti - scenderete al piano di sotto per parlare davanti al caminetto acceso.
Un palazzo dove è meglio non andare è quello di giustizia, in Largo Pigarelli, dove le porte dei pubblici ministeri hanno la telecamera per vedere chi c'è fuori. Quella del procuratore è doppia e con l'imbottitura per non far scappare fuori nemmeno un bisbiglio, bei quadri alle pareti (ma sono del Comune), la bandiera d'Italia vicino alla scrivania dove c'è anche uno strano bidone che prende i fogli e li riduce a striscioline: una volta un cronista trovò una carta segreta nel cestino e da allora usano i distruggi-documenti. Ma non sempre.
I corridoi del Commissariato del Governo sembrano più grandi di quanto servirebbe, ma i lampadari delle sale di rappresentanza, i tappeti rossi nei corridoi e gli arredi di prestigio dell'ufficio di De Muro incutono rispetto. Nelle stanze dei carabinieri, in via Barbacovi, c'è la foto del presidente Ciampi ovunque. In quelle degli agenti della questura invece no e mancano molte altre cose: i rinforzi ai pavimenti che vibrano pericolosamente quando ci camminate sopra - ad esempio - ma si fa prima a dire che manca una questura nuova, una dove i fili elettrici corrono sicuri dentro i muri invece di penzolare da un piano all'altro come in una via napoletana.
I più lussuosi fra questi palazzi hanno in comune un vantaggio: il caffè del bar interno costa meno di quello bevuto fuori (dove possono andare tutti) e non si capisce il perché. Ma in tutti i palazzi pubblici c'è una cosa che i loro inquilini a volte si dimenticano. Una cosa che invece le donne delle pulizie hanno ben presente quando la sera tardi (oppure la mattina all'alba) alzano i tappeti per scopare anche là sotto, sollevano le lampade per togliere la polvere dalla scrivania, mettono in ordine le sedie e si chinano sotto i tavoli delle riunioni per pulire i pavimenti. E' allora che vedono quelle etichette con il numero appiccicate su ogni oggetto, nessuno escluso, lo stesso numero che compare nell'elenco affisso in ogni stanza. Voi - visitatori occasionali - a quella lista non farete caso ma c'è sempre, magari dietro una tenda o vicino alla finestra, per ricordare agli inquilini provvisori che quello che c'è là dentro è pubblico e lì deve restare, in attesa del prossimo abitante che - presto o tardi - arriverà dentro il palazzo.

1 commento:

Bersn ha detto...

Io direi...uhm uhm...via Belenzani?

PS. colgo l'occasione, ho saputo cos'era quel palazzone grigio misterioso sul Calisio :)