Cari lettori, corro il rischio di passare per presuntuoso ma non riesco a trattenermi e dico: "Avevo ragione io". Sono anni che sbotto, ogni volta che entro in casa e mi tolgo il giaccone già sudato: "Qui dentro si scoppia, è troppo caldo, siete pazzi, spegnete quella caldaia
maledetta". Ora, finalmente, c'è uno che mi dà corda e mi consegna per decreto l'asso nella manica che mi farà vincere la battaglia del termostato. Quel tale è nientemeno che il ministro che ha ordinato di abbassare di un grado la temperatura negli edifici, preoccupato per gli ucraini che rubano il gas e i russi che chiudono i rubinetti. Io sono pronto, da mercoledì prossimo scatta il ribasso e se qualcuno in casa crede di continuare come prima è avvisato: lo denuncio.
So già cosa pensate ed è bene chiarirci subito: non è questione di soldi. In un anno il nostro contatore segna 600 metri cubi al massimo (se non ci credete vi faccio vedere le bollette) grazie alla stufa a legna, al tetto ben isolato e a quelli di sotto che ci danno dentro come i fuochisti del Titanic. Il fatto è che quei 600 metri cubi mi fanno comunque impressione: son lì sul divano con la bolletta in mano e penso a un edificio largo dieci metri per dieci e alto sei, insomma una casetta a due piani, tutta piena del mio gas. Poi aggiungo i consumi dei vicini di casa e ottengo un palazzo intero stipato di metano, la nostra piazzetta come cisterna avrebbe bisogno del castello del Buonconsiglio, calcolo il fabbisogno di una città e mi immagino un serbatoio grande come il Bondone. Allora mi agito per le sorti del mondo. Qualcosa bisogna pur fare. E io faccio finta di andare in bagno solo per passare fischiettando davanti a quel termostato e allungare la mano per abbassarlo almeno un po'. Poi tiro l'acqua (giusto per essere credibile), esco, controllo con la coda dell'occhio e lui è di nuovo lì, fermo sui venti: "Fa freddo" mi dicono quei due sabotatori, seduti sul divano sotto un piumino spesso un metro, tanto caldo che lì sotto potrebbe sbocciare un oleandro. Sarebbero pronti a riaprire la centrale di Chernobyl pur di crogiolarsi al caldo. La caldaia riparte - con quel clic orrendo e poi, sbanf, la fiammata - e io penso alle caverne immense che restano vuote nel sottosuolo della Siberia mentre noi di Trento bruciamo 2 milioni di metri cubi al giorno. Dalla finestra osservo i camini che sui tetti sbuffano come ciminiere industriali (viviamo in alto e ho imparato a conoscere gli inquilini dai comignoli) chiamo il mio amico ingegnere e mi faccio spiegare che è tutta questione di pressione, che non devo immaginarmi palazzi interi zeppi di gas perché il metano quando è compresso occupa poco spazio e che se i russi non ci boicottano andiamo avanti per decenni, ce n'è più del petrolio. Sarà.
Quando mi avvio verso il centro passo sul ponte di San Lorenzo e sento il solito puzzo di gas vicino a un raccordo - qualcuno la vuole chiudere quella falla? - alzo gli occhi verso un palazzo di sette piani e al terzo vedo le finestre socchiuse: c'è una vittima del riscaldamento centrale che muore dal caldo. Entro nel supermercato e quando la porta scorrevole si apre un soffio tropicale mi investe dall'alto. Caldo, caldo, caldo: ma che c'entrano i venti gradi con l'inverno? In questa crociata verso la sostenibilità del fresco avevo - prima ancora del ministro - un alleato. Uno che ha montato un termostato pieno di bottoni, tanto complicato che senza le istruzioni (che lui tiene sotto chiave) è impossibile metterci mano. Ma è stato sconfitto dagli ospiti (soprattutto le donne, diciamolo) che invitati a cena si mettevano in camicia e si strusciavano contro i termosifoni. Tiepidi.
Grazie ministro. Per merito suo vinceremo per legge la battaglia domestica dei termostati. Quella del risparmio e della sostenibilità ambientale invece no perché - c'è da scommetterci - nulla (certo non una norma dello Stato di cui gli italiani si fanno beffe) potrà indurre la maggioranza dei cittadini a combattere il freddo semplicemente indossando un maglione. E già penso all'estate quando negli uffici ci sarà chi sentendosi potente, girerà la manopola del condizionatore fino ai 18 - più freddo che in inverno - e adagiandosi sullo schienale con un bel sorriso soddisfatto dirà: "Ah, che bel fresco".
29 gennaio 2006
22 gennaio 2006
Quelle spese indigeste
Attenzione a quell'uomo: appena lo farete entrare in casa dovrete pagargli 40 euro o forse più. Pensateci bene, quindi, quando aprirete la porta, magari offrendogli un caffè per essere gentili, perché quando se ne andrà, comunque sia finita, voi avrete 40 euro in meno e lui altrettanti in più: ve la siete voluta. Tutto comincia quando la vostra lavastoviglie - mettiamo marca X - si blocca all'improvviso con i piatti ancora sporchi. Allora decidete di fare le cose per bene, aprite le pagine gialle cercando il centro assistenza della X, chiamate e fissate un appuntamento con la signorina che non ritiene necessario avvisarvi di quei 40 euro. Poi arriva il ragazzo con il furgoncino, entra in casa, apre lo sportello della lavastoviglie X, svita una manopola, solleva un coperchio di plastica infila un dito in quei meandri e dice: "Ahi Ahi Ahi". Come scusi? "Ahi Ahi Ahi". Può tradurre per favore? "Qui si è bloccato il motore". E quindi? "Bisogna cambiarlo, guarda caso ne ho uno giù nel furgone". A questo punto voi siete spiazzati: non vi ricordate più quanto costava la vostra lavastoviglie acquistata dieci anni fa, non avete la minima idea di quanto costi un modello nuovo, i 200 euro che quel ragazzo di poche parole vi chiede per la riparazione vi suggeriscono una pausa di riflessione durante la quale laverete le scodelle a mano come un tempo, mormorate che volete pensarci su un po' ma lui vi incalza: "Come vuole, intanto fanno quaranta euro". Soldi che non vi saranno restituiti nemmeno se accettate la riparazione, in quel caso vi faranno un piccolo sconto. Nessuno pensa che il ragazzo con il furgone (e soprattutto l'azienda che lo manda in giro per le case) venga a domicilio gratis, ma uno si immagina un conto di 10, 20 euro al massimo, mentre quei 40 euro (77.450 lire) fanno un po' impressione.
Fanno impressione anche i cinquanta euro che vi chiede l'uomo delle caldaie quando viene a farvi l'ispezione periodica mettendovi quel timbro previsto dalla legge. Entra in casa con la borsa a tracolla, vi segue fino alla caldaietta a gas, attacca un paio di tubicini, legge una fila di numeri sul suo strumento, risponde al cellulare e prende un appuntamento con la sua ragazza, compila un modulo e infine vi presenta il conto. Quando se ne va dice orgoglioso: "Queste caldaie sono perfette, non c'è mai bisogno di farci niente". Niente. Quindi la rata annuale di cinquanta euro la dovete pagare per nulla: saperlo è una gran soddisfazione.
Un altro esempio è la revisione dell'auto o della moto: siete dei fanatici del vostro mezzo meccanico, lo portate in officina ogni 15 mila chilometri, se sentite un rumorino correte dal meccanico ma comunque ogni due anni dovete sottoporvi alla revisione: dieci minuti e quaranta euro.
Ma queste sono briciole, piccoli esempi di soldi che non vorreste spendere ma non potete farne a meno, incidenti minimi nel bilancio familiare, nulla a confronto con quel campione assoluto delle spese incomprensibili (ingiustificate, irragionevoli) che è il notaio. Sì, quel signore che non vedrete mai (forse per un secondo appena mentre firma) sempre coperto dall'esercito di segretarie e impiegati di cui si avvale. Un giorno - dovendo acquistare un posto auto in un cortile - ho osato pronunciare quella parola proibita in uno studio notarile: preventivo. La signorina (carina) ha sollevato il viso dalla scrivania e mi ha guardato come si guarda un cafone che vuole pagare il conto con due galline in una mano e un mazzo di verdure nell'altra. "Sì, voglio un preventivo" ho confermato, sentendomi un rompiscatole. Ma signore - mi ha spiegato - non è certo in base ai soldi che si sceglie un notaio, quel che conta è la fiducia. Certo - ho replicato - ma io ho tanta fiducia nei notai, in tutti i notai, che per me uno vale l'altro e non avendone visto in faccia mai nessuno (vedo solo le segretarie che mi dicono di firmare qui e lì, poi arriva lui, cerco il suo sguardo fiducioso ma quello è già sparito) sceglierò quello che mi farà pagare meno. "Come vuole signore" ha detto. E ha scritto su un foglietto una cifra che - fra tasse e onorari - era impronunciabile. Quella stessa cifra, poco più o poco meno, l'hanno scritta sui foglietti (nessuno voleva pronunciarla?) le segretarie di quei pochi studi notarili che hanno accettato, storcendo il naso, di farmi un preventivo. Era una buona parte del prezzo di quel posto macchina che è sempre libero sotto casa mia: lo vedo dalla finestra, c'è ancora il cartello rosso con la scritta "vendesi", ormai un po' sbiadita.
Fanno impressione anche i cinquanta euro che vi chiede l'uomo delle caldaie quando viene a farvi l'ispezione periodica mettendovi quel timbro previsto dalla legge. Entra in casa con la borsa a tracolla, vi segue fino alla caldaietta a gas, attacca un paio di tubicini, legge una fila di numeri sul suo strumento, risponde al cellulare e prende un appuntamento con la sua ragazza, compila un modulo e infine vi presenta il conto. Quando se ne va dice orgoglioso: "Queste caldaie sono perfette, non c'è mai bisogno di farci niente". Niente. Quindi la rata annuale di cinquanta euro la dovete pagare per nulla: saperlo è una gran soddisfazione.
Un altro esempio è la revisione dell'auto o della moto: siete dei fanatici del vostro mezzo meccanico, lo portate in officina ogni 15 mila chilometri, se sentite un rumorino correte dal meccanico ma comunque ogni due anni dovete sottoporvi alla revisione: dieci minuti e quaranta euro.
Ma queste sono briciole, piccoli esempi di soldi che non vorreste spendere ma non potete farne a meno, incidenti minimi nel bilancio familiare, nulla a confronto con quel campione assoluto delle spese incomprensibili (ingiustificate, irragionevoli) che è il notaio. Sì, quel signore che non vedrete mai (forse per un secondo appena mentre firma) sempre coperto dall'esercito di segretarie e impiegati di cui si avvale. Un giorno - dovendo acquistare un posto auto in un cortile - ho osato pronunciare quella parola proibita in uno studio notarile: preventivo. La signorina (carina) ha sollevato il viso dalla scrivania e mi ha guardato come si guarda un cafone che vuole pagare il conto con due galline in una mano e un mazzo di verdure nell'altra. "Sì, voglio un preventivo" ho confermato, sentendomi un rompiscatole. Ma signore - mi ha spiegato - non è certo in base ai soldi che si sceglie un notaio, quel che conta è la fiducia. Certo - ho replicato - ma io ho tanta fiducia nei notai, in tutti i notai, che per me uno vale l'altro e non avendone visto in faccia mai nessuno (vedo solo le segretarie che mi dicono di firmare qui e lì, poi arriva lui, cerco il suo sguardo fiducioso ma quello è già sparito) sceglierò quello che mi farà pagare meno. "Come vuole signore" ha detto. E ha scritto su un foglietto una cifra che - fra tasse e onorari - era impronunciabile. Quella stessa cifra, poco più o poco meno, l'hanno scritta sui foglietti (nessuno voleva pronunciarla?) le segretarie di quei pochi studi notarili che hanno accettato, storcendo il naso, di farmi un preventivo. Era una buona parte del prezzo di quel posto macchina che è sempre libero sotto casa mia: lo vedo dalla finestra, c'è ancora il cartello rosso con la scritta "vendesi", ormai un po' sbiadita.
15 gennaio 2006
La badante ci ha stregati
Quella donna giunta dall'Est ci ha stregati. E' successo l'anno scorso quando Oxana - questo il nome di questa signora di mezz'età - venne a stare da noi per accudire la nonna anziana. Da quel giorno sono cambiate molte cose. All'inizio erano piccoli dettagli come quei cioccolatini dalla scritta incomprensibile (e dal sapore indefinito) che sono comparsi all'improvviso nella scatola delle caramelle. Poi sono spuntati dei centrini sulla tavola, strani soprammobili e la domenica delle torte a cinque piani che basta una fetta per chiudere lo stomaco.
Un po' di tensione c'è stata, invece, per quella sua abitudine di informarsi sull'Italia e sul mondo guardando il tg di Emilio Fede: "E' l'unico che spiega bene le cose" ha detto lei con uno sguardo ammirato per quel "bell'uomo". E anche a questo abbiamo dovuto fare l'abitudine, come a quelle parole in russo che la nonna ha imparato a pronunciare tagliandoci fuori dal mondo privato che ha creato assieme alla badante.
Chissà cosa si dicono, di certo c'è che la nonna sembra divertirsi come non avveniva più da tempo e questo basta a farci sopportare quella tremenda insalata russa che due volte in settimana ci viene propinata a pranzo e cena. Su questo - lo ammetto - ho commesso io un errore: "Buona" dissi, cercando di essere cortese. Da allora il mio piatto è quello più pieno e la pianta vicino al tavolo - poveretta - comincia a deperire.
Oxana è una donna dai mille segreti che tiene custoditi nella sua camera e confida al telefono - sempre in quella lingua incomprensibile, ma sarà veramente russo? - quando una volta alla settimana chiama casa e ne resta sempre un po' turbata.
Nel tentativo di capire cosa c'è dietro i suoi occhi - tristi anche quando sorride - l'ho pedinata la domenica mattina, quando esce sempre silenziosa senza dire dove va. Camminando raso ai muri come chi si muove in una città nemica - lei davanti io qualche decina di metri indietro - siamo arrivati in un piazzale lungo l'Adige dove c'erano altre donne come lei che facevano la coda davanti a un furgone dalla targa straniera: consegnavano un pacco all'autista e ne ricevevano un altro in cambio. Ho scoperto che i punti dove arrivano quei furgoni sono due, in due parcheggi diversi a seconda della zona di provenienza. Per la spedizione si paga un tanto al chilo e la consegna è assicurata: lettere, piccoli regali, un po' di cibo, giocattoli ma non soldi.
Il pacco di Oxana, una scatola di cartone marrone legata con lo spago, l'ho tenuto bene a mente perché, ne ero sicuro, conteneva un suo segreto. Forse una di quelle magie che mi avevano stupito il mese prima quando da giorni avevo un dolorino al collo che non passava più. Mi alzavo la mattina credevo di essere finalmente libero e - zac - eccolo lì che mi bloccava, tenendomi la testa un po' di lato. Andò avanti a lungo, non c'era medicina che contava, finché la "strega" mossa a compassione mi ordinò di sedermi sullo sgabello e prendendomi da dietro fece un gesto veloce rimettendomi a posto con un crack. Guarito.
Un giorno saltò fuori che doveva fare rientro a casa e successe il finimondo: capimmo che senza di lei non si poteva più stare. Di altre badanti la nonna non ne voleva sapere: "Solo con l'Oxana - disse - mi sento in casa mia". In quella casa, si badi, dove vive da novant'anni. Non era questione di soldi - disse la badante, facendo comunque capire che di questo si poteva pure parlare - ma di un'emergenza da risolvere. Non disse una sillaba in più, anche perché sarebbe stato difficile spiegare l'emergenza con quelle venti parole in italiano che conosce, aprendo quel vocabolario scassato che si porta sempre dietro. Andò e tornò (quando ormai non ci speravamo più) facendoci tirare un sospiro di sollievo perché la nostra vita comoda non era più in pericolo.
Inutile nasconderlo, quella donna ci ha reso la vita molto più facile, si può dire che ci ha stregati perché di lei non possiamo più fare a meno.
Ma un giorno che se n'era andata con le amiche - tutte assieme a pregare in una chiesa improvvisata e semi clandestina - decisi di aprire quel pacco di cartone per scoprire il suo segreto.
Bastò sollevare un attimo il coperchio per vedere quelle foto con tante facce come la sua: carnagioni chiare, capelli biondo cenere, occhi azzurri, tutti vestiti a festa e sorridenti, qualche lettera e un ciuffo di capelli. Il segreto di quegli occhi tristi era lì, chiuso in una scatola di cartone sotto il letto.
Un po' di tensione c'è stata, invece, per quella sua abitudine di informarsi sull'Italia e sul mondo guardando il tg di Emilio Fede: "E' l'unico che spiega bene le cose" ha detto lei con uno sguardo ammirato per quel "bell'uomo". E anche a questo abbiamo dovuto fare l'abitudine, come a quelle parole in russo che la nonna ha imparato a pronunciare tagliandoci fuori dal mondo privato che ha creato assieme alla badante.
Chissà cosa si dicono, di certo c'è che la nonna sembra divertirsi come non avveniva più da tempo e questo basta a farci sopportare quella tremenda insalata russa che due volte in settimana ci viene propinata a pranzo e cena. Su questo - lo ammetto - ho commesso io un errore: "Buona" dissi, cercando di essere cortese. Da allora il mio piatto è quello più pieno e la pianta vicino al tavolo - poveretta - comincia a deperire.
Oxana è una donna dai mille segreti che tiene custoditi nella sua camera e confida al telefono - sempre in quella lingua incomprensibile, ma sarà veramente russo? - quando una volta alla settimana chiama casa e ne resta sempre un po' turbata.
Nel tentativo di capire cosa c'è dietro i suoi occhi - tristi anche quando sorride - l'ho pedinata la domenica mattina, quando esce sempre silenziosa senza dire dove va. Camminando raso ai muri come chi si muove in una città nemica - lei davanti io qualche decina di metri indietro - siamo arrivati in un piazzale lungo l'Adige dove c'erano altre donne come lei che facevano la coda davanti a un furgone dalla targa straniera: consegnavano un pacco all'autista e ne ricevevano un altro in cambio. Ho scoperto che i punti dove arrivano quei furgoni sono due, in due parcheggi diversi a seconda della zona di provenienza. Per la spedizione si paga un tanto al chilo e la consegna è assicurata: lettere, piccoli regali, un po' di cibo, giocattoli ma non soldi.
Il pacco di Oxana, una scatola di cartone marrone legata con lo spago, l'ho tenuto bene a mente perché, ne ero sicuro, conteneva un suo segreto. Forse una di quelle magie che mi avevano stupito il mese prima quando da giorni avevo un dolorino al collo che non passava più. Mi alzavo la mattina credevo di essere finalmente libero e - zac - eccolo lì che mi bloccava, tenendomi la testa un po' di lato. Andò avanti a lungo, non c'era medicina che contava, finché la "strega" mossa a compassione mi ordinò di sedermi sullo sgabello e prendendomi da dietro fece un gesto veloce rimettendomi a posto con un crack. Guarito.
Un giorno saltò fuori che doveva fare rientro a casa e successe il finimondo: capimmo che senza di lei non si poteva più stare. Di altre badanti la nonna non ne voleva sapere: "Solo con l'Oxana - disse - mi sento in casa mia". In quella casa, si badi, dove vive da novant'anni. Non era questione di soldi - disse la badante, facendo comunque capire che di questo si poteva pure parlare - ma di un'emergenza da risolvere. Non disse una sillaba in più, anche perché sarebbe stato difficile spiegare l'emergenza con quelle venti parole in italiano che conosce, aprendo quel vocabolario scassato che si porta sempre dietro. Andò e tornò (quando ormai non ci speravamo più) facendoci tirare un sospiro di sollievo perché la nostra vita comoda non era più in pericolo.
Inutile nasconderlo, quella donna ci ha reso la vita molto più facile, si può dire che ci ha stregati perché di lei non possiamo più fare a meno.
Ma un giorno che se n'era andata con le amiche - tutte assieme a pregare in una chiesa improvvisata e semi clandestina - decisi di aprire quel pacco di cartone per scoprire il suo segreto.
Bastò sollevare un attimo il coperchio per vedere quelle foto con tante facce come la sua: carnagioni chiare, capelli biondo cenere, occhi azzurri, tutti vestiti a festa e sorridenti, qualche lettera e un ciuffo di capelli. Il segreto di quegli occhi tristi era lì, chiuso in una scatola di cartone sotto il letto.
08 gennaio 2006
Elogio della lentezza
Per motivi che mi sfuggono - ma che per opportunismo condivido in pieno - esiste una linea di autotrasporti che ogni mattina collega Falcade (Belluno) con Trento arrampicandosi sui ripidi tornanti di passo San Pellegrino. Di quella linea, cinque o sei volte l'anno, sono l'unico cliente: mi presento alle otto di mattina nella piazza di Falcade e salgo a bordo con Giuseppe, l'autista di quel pulmino da venti posti di una ditta privata che in realtà viaggia su quella tratta per conto della Trentino Trasporti.
Spesso ci siamo solo io e lui, a volte una ragazza col borsone che mi pare una studentessa, oppure una donna che nella stagione turistica sale a metà del passo e si ferma poco dopo, di fronte all'albergo in cui lavora.
Un pulmino che valica le Dolomiti semivuoto, giorno dopo giorno, suona strano quasi quanto l'accento romano dell'uomo che lo guida: "Dottò, sono di Viterbo - spiega Giuseppe - guido quassù da nove anni e non mi fermo nemmeno quando vengono giù due metri di neve. L'unica volta che sono tornato indietro c'era la strada chiusa per il pericolo valanghe".
Dopo venti minuti ecco le bandiere di Dellai, il pulmino supera il confine fra le due province (il vecchio confine di Stato) e l'autista si scatena: "Dottò, questo bisogna che lo scrive: lo vede che le strade di montagna le tengono meglio a Belluno che in Trentino?". E indica la striscia d'asfalto che all'improvviso diventa più bianca per la neve.
Quel viaggio è la riscoperta della lentezza: in tre quarti d'ora arrivo a Moena, poi salgo sulla coincidenza che mi porterà nel capoluogo e mi metto comodo tra anziane signore con le borse sul sedile, uomini dal naso rosso (a cui forse hanno tolto la patente) e ragazzi con le cuffiette che urlano sulle orecchie.
Chiudo gli occhi sognando viaggi aerei da un continente all'altro, traversate oceaniche, lunge trasferte autostradali poi uno spiffero gelido mi risveglia e sono alla stazione di Predazzo. Riprendo sonno immaginando corse su ferrovie ad alta velocità, vagoni ristoranti e salette d'aeroporto dove i piedi affondano nella moquette, poi uno scossone mi sorprende e scopro di essere a Tesero.
Osservando laggiù in basso, come un miraggio, la veloce strada di fondovalle riscopro i centri storici di Cavalese e Castello di Fiemme poi a Egna mi illudo che l'autista imbocchi l'autostrada ma lui senza pietà punta il volante verso la statale: c'è da passare nel centro di San Michele dove - lo so già - non sale e scende mai nessuno.
So di non avere scampo e mi rassegno sul mio sedile di corriera come un bambino imprigionato sull'auto del papà: arriveremo a Trento alle 10 e 48, come sempre, quando dalla corriera assieme a me scenderà solo qualche ragazzo che va all'università. Dalla partenza a Falcade, con Giuseppe, sono passate quasi tre ore: con la macchina ci si mette un'ora e mezza, stringo in mano il biglietto da 7 euro e 15 (mica uno scherzo) ma ringrazio comunque che questa linea resista sugli orari dell'azienda dei trasporti.
Chi ha letto fin qui merita una spiegazione: che ci faccio alle otto di mattina sulla corrierina che parte da Falcade? Schiavo dell'auto - e pendolare per diletto e famiglia fra Trento e Belluno - mi ritrovo qualche volta a sbagliare i calcoli fra un viaggio da solo e uno in compagnia e a ritrovarmi con entrambe le vetture di famiglia sotto casa oppure - orrore - nessuna E' allora che mi presento con la mia valigia all'appuntamento con Giuseppe e salgo sul pulmino per un tuffo di tre ore nel mondo dei sogni e della lentezza finché - puntuale alle 10 e 48 con lo stomaco un po' sottosopra - la città mi riassorbirà con la sua velocità.
Spesso ci siamo solo io e lui, a volte una ragazza col borsone che mi pare una studentessa, oppure una donna che nella stagione turistica sale a metà del passo e si ferma poco dopo, di fronte all'albergo in cui lavora.
Un pulmino che valica le Dolomiti semivuoto, giorno dopo giorno, suona strano quasi quanto l'accento romano dell'uomo che lo guida: "Dottò, sono di Viterbo - spiega Giuseppe - guido quassù da nove anni e non mi fermo nemmeno quando vengono giù due metri di neve. L'unica volta che sono tornato indietro c'era la strada chiusa per il pericolo valanghe".
Dopo venti minuti ecco le bandiere di Dellai, il pulmino supera il confine fra le due province (il vecchio confine di Stato) e l'autista si scatena: "Dottò, questo bisogna che lo scrive: lo vede che le strade di montagna le tengono meglio a Belluno che in Trentino?". E indica la striscia d'asfalto che all'improvviso diventa più bianca per la neve.
Quel viaggio è la riscoperta della lentezza: in tre quarti d'ora arrivo a Moena, poi salgo sulla coincidenza che mi porterà nel capoluogo e mi metto comodo tra anziane signore con le borse sul sedile, uomini dal naso rosso (a cui forse hanno tolto la patente) e ragazzi con le cuffiette che urlano sulle orecchie.
Chiudo gli occhi sognando viaggi aerei da un continente all'altro, traversate oceaniche, lunge trasferte autostradali poi uno spiffero gelido mi risveglia e sono alla stazione di Predazzo. Riprendo sonno immaginando corse su ferrovie ad alta velocità, vagoni ristoranti e salette d'aeroporto dove i piedi affondano nella moquette, poi uno scossone mi sorprende e scopro di essere a Tesero.
Osservando laggiù in basso, come un miraggio, la veloce strada di fondovalle riscopro i centri storici di Cavalese e Castello di Fiemme poi a Egna mi illudo che l'autista imbocchi l'autostrada ma lui senza pietà punta il volante verso la statale: c'è da passare nel centro di San Michele dove - lo so già - non sale e scende mai nessuno.
So di non avere scampo e mi rassegno sul mio sedile di corriera come un bambino imprigionato sull'auto del papà: arriveremo a Trento alle 10 e 48, come sempre, quando dalla corriera assieme a me scenderà solo qualche ragazzo che va all'università. Dalla partenza a Falcade, con Giuseppe, sono passate quasi tre ore: con la macchina ci si mette un'ora e mezza, stringo in mano il biglietto da 7 euro e 15 (mica uno scherzo) ma ringrazio comunque che questa linea resista sugli orari dell'azienda dei trasporti.
Chi ha letto fin qui merita una spiegazione: che ci faccio alle otto di mattina sulla corrierina che parte da Falcade? Schiavo dell'auto - e pendolare per diletto e famiglia fra Trento e Belluno - mi ritrovo qualche volta a sbagliare i calcoli fra un viaggio da solo e uno in compagnia e a ritrovarmi con entrambe le vetture di famiglia sotto casa oppure - orrore - nessuna E' allora che mi presento con la mia valigia all'appuntamento con Giuseppe e salgo sul pulmino per un tuffo di tre ore nel mondo dei sogni e della lentezza finché - puntuale alle 10 e 48 con lo stomaco un po' sottosopra - la città mi riassorbirà con la sua velocità.
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