Diciamo la verità: abbiamo tutti guardato alla televisione le macerie de L’Aquila e le tendopoli degli sfollati pensando (con sollievo) che per fortuna non era successo a noi. Ci siamo indignati seguendo le telecamere che bussavano alle portiere dei senzatetto chiusi in auto per la notte, ci siamo vergognati quando i microfoni si intrufolavano nelle tende dove i terremotati avevano trovato riparo e abbiamo pensato - con sollievo, continuando a guardare senza mai cambiare canale - che per fortuna non era toccato a noi. Abbiamo guardato il telegiornale con un pizzico d’orgoglio (senza il coraggio di confessarlo) perché le nostre case non le fanno mica con la sabbia di mare sporcata di cemento. Almeno di questo ci illudiamo, noi fortunati che il terremoto ci capita di guardarlo solo alla televisione. Non dobbiamo vergognarci di questa curiosità morbosa, che è poi la stessa debolezza umana che ci porta a rallentare quando passiamo accanto a un incidente stradale per vedere che è successo e magari ci fermiamo, ci uniamo alla piccola folla che non manca mai dove c’è la strada sporca di sangue e ricostruiamo la dinamica mentre più in là, sotto il lenzuolo bianco, c’è ancora la salma dell’autista. In questo gli uomini sono specialisti, mentre le donne si dedicano alle malattie, ai tradimenti e alle sventure familiari. Siamo bravissimi a guardare la tragedia dritta negli occhi - quella degli altri, che non riesce a turbarci nel profondo - per imparare come si fa a starne alla larga.
Così, leggendo le cronache da L’Aquila, ci siamo improvvisati tecnici, spiegando a vicini e colleghi di lavoro come vanno costruite le case a regola d’arte e cosa bisogna fare quando si sente una scossa nel cuore della notte. Abbiamo ascoltato i pompieri (anche i nostri) spiegare come bisogna fuggire, quali cose bisogna tenere a portata di mano, quale via di fuga scegliere verso la salvezza mentre un palazzo oscilla pericolosamente. Abbiamo ascoltato gli ingegneri spiegare come si costruisce un edificio, quanto deve resistere un pilastro e che forma devono avere i tondini di ferro per non sfilarsi via, strappati dal sisma, come uno stuzzicadente infilato nel burro.
Ma la vera lezione da imparare era un’altra. E siamo ancora in tempo. E’ quella che una giovane donna dagli occhi ormai asciutti ha impartito a una telecamera non troppo invadente. Ha spiegato che mentre i suoi vicini di casa si affrettavano verso le macerie per recuperare qualche vestito, le fotografie del matrimonio e del battesimo, i gioielli e i soldi che erano rimasti nel cassetto del comò, magari i giochi dei bambini rimasti a galleggiare tra la calce e le travi spezzate, lei in quelle macerie non aveva più nulla da cercare. Non c’è sciacallo, ormai, che possa farle paura.
Chissà se si è salvata la nuova televisione a schermo piatto, oppure il frigorifero con il congelatore incorporato o ancora i quadri d’autore che messi all’asta avrebbero avuto un loro valore. Forse giù in garage - dov’era parcheggiata l’auto - c’è ancora qualcosa che potrebbe tornare utile: la bicicletta da corsa nuova di zecca, il motorino, oppure gli sci e gli scarponi pronti per l’ultima domenica d’inverno. Dalle macerie - chissà - si potrebbe recuperare qualche vestito firmato oppure le scarpe di marca. Ma lei non cercava più nulla perché - avendo perso il marito e i due figlioli - non aveva più nulla da trovare. Ha detto qualcosa che non ricordo esattamente, ma che riguardava il “senso del possesso” stravolto da un’onda sismica che oltre alla casa le ha portato via gli affetti.
Insomma quella donna parlando del terremoto ci ha descritto un’altra tragedia (la nostra) di gente che si affanna a dedicare la vita intera ad accumulare oggetti che possono restare benissimo sotto le macerie (e nessuno ne sentirà la mancanza) invece di attribuire il giusto valore a tutto quello che diamo sempre per scontato.
Qui sotto alcune "chicche" televisive:
14 aprile 2009
Lo spazio è relativo
Poiché siamo in tre, e presto saremo in quattro, in una casa in cui ai bei tempi si stava bene in due, ci stiamo guardando attorno con sempre maggiore energia per allargarci almeno un po'. Siamo gente esigente: vorremmo avere una camera per uno in cui fare i nostri comodi e - quando veniamo ai ferri corti - ritirarci per farcela passare. Se possibile ci servirebbe anche una stanza - o almeno un ripostiglio - in cui ammucchiare tutti quegli oggetti inutili di cui ci siamo un po' stufati ma che non abbiamo il coraggio di buttare via.
Ieri mattina, dopo averne viste tante, ci siamo ritrovati in una casetta di un ex quartiere popolare dove una volta vivevano le famiglie degli operai trentini: stanza, cucina, bagno, cantina, soffitta e niente parcheggio visto che l'auto, per chi viveva in quei rioni, era un lusso inarrivabile. I tempi sono cambiati. Dove una volta si stringevano due famiglie ora ne vive una delle nostre: due soffitte fanno una mansarda, due cantine fanno una taverna, tutto il resto si raddoppia e per il parcheggio ci si arrangia. Così hanno fatto molti, in varie zone della città, e così avevamo pensato di fare noi. Solo di una cosa il proprietario ci aveva avvisato dandoci appuntamento per le undici: "Abbiamo affittato la casa a una famiglia di stranieri, comunque non c'è nessun problema perché presto se ne andranno e sono disponibili a farvi visitare l'immobile di buon grado".
Così siamo entrati e abbiamo iniziato ad osservare l'edificio con gli occhi del futuro: via quella parete, via quelle piastrelle, sul tetto forse ci faranno alzare un abbaino o almeno aprire una terrazza, le piastrelle del bagno le cambiamo perché così proprio non vanno, il pavimento può restare e via dicendo. Ma mentre gli stranieri - educati e sorridenti, per nulla disturbati visto che erano ancora in pigiama - si spostavano per lasciarci passare da una stanzetta all'altra siamo rimasti colpiti dalla loro numerosità. Poiché si assomigliavano contarli era impossibile (anche perché non sta bene entrare in casa degli altri e fissarli dritti in volto) ma ho ancora in mente il numero dei letti che ho incontrato sul percorso: ce n'erano dappertutto, anche in quello che doveva essere il soggiorno. Forse quanti ce n'erano stati un tempo, quando quella casa era abitata dagli operai trentini.
Lo so, queste sono chiacchiere da bar, l'abbiamo sentito dire mille volte: questi stranieri affittano le case e poi entrano in dieci in un appartamento. Ma poiché ieri mattina non sono andato al bar ma a visitare quella casa dirò quello che ho visto di persona, compresa la televisione a schermo piatto enorme - pari a due mensilità d'affitto - che c'era in una stanza di fronte a un letto matrimoniale con il letto singolo accanto, come capita talvolta nelle stanze d'albergo. Ci dev'essere una relazione fra la condizione sociale e le ore trascorse davanti alla televisione perché - fateci caso - le case dei poveri sono sempre piene di antenne e parabole. Fuochi invece non ne ho visti. Di quei falò che gli stranieri accendono nel bel mezzo del soggiorno, forse per cuocere i missionari nel pentolone, non ne ho visto neanche uno. Eppure al bar me l'hanno raccontata almeno tre volte.
La casa non ci ha convinto perché dove ci stanno otto stranieri noi temiamo di starci stretti anche in quattro soltanto. A dirlo suona brutto, ma è la verità: non è che ci renda migliori fare silenzio su quel che accade dietro la porta dell'edificio all'angolo.
Dopo averlo scritto sul giornale bisognerà chiamare il proprietario e fargli sapere di persona che dopo questa visita siamo tornati in tre nel nostro appartamento, quello dove presto saremo in quattro e dove ai bei tempi stavamo benissimo in due, ci siamo seduti sul divano a riordinare le idee davanti alla nostra televisione spenta e ci siamo sentiti improvvisamente larghi.
Ieri mattina, dopo averne viste tante, ci siamo ritrovati in una casetta di un ex quartiere popolare dove una volta vivevano le famiglie degli operai trentini: stanza, cucina, bagno, cantina, soffitta e niente parcheggio visto che l'auto, per chi viveva in quei rioni, era un lusso inarrivabile. I tempi sono cambiati. Dove una volta si stringevano due famiglie ora ne vive una delle nostre: due soffitte fanno una mansarda, due cantine fanno una taverna, tutto il resto si raddoppia e per il parcheggio ci si arrangia. Così hanno fatto molti, in varie zone della città, e così avevamo pensato di fare noi. Solo di una cosa il proprietario ci aveva avvisato dandoci appuntamento per le undici: "Abbiamo affittato la casa a una famiglia di stranieri, comunque non c'è nessun problema perché presto se ne andranno e sono disponibili a farvi visitare l'immobile di buon grado".
Così siamo entrati e abbiamo iniziato ad osservare l'edificio con gli occhi del futuro: via quella parete, via quelle piastrelle, sul tetto forse ci faranno alzare un abbaino o almeno aprire una terrazza, le piastrelle del bagno le cambiamo perché così proprio non vanno, il pavimento può restare e via dicendo. Ma mentre gli stranieri - educati e sorridenti, per nulla disturbati visto che erano ancora in pigiama - si spostavano per lasciarci passare da una stanzetta all'altra siamo rimasti colpiti dalla loro numerosità. Poiché si assomigliavano contarli era impossibile (anche perché non sta bene entrare in casa degli altri e fissarli dritti in volto) ma ho ancora in mente il numero dei letti che ho incontrato sul percorso: ce n'erano dappertutto, anche in quello che doveva essere il soggiorno. Forse quanti ce n'erano stati un tempo, quando quella casa era abitata dagli operai trentini.
Lo so, queste sono chiacchiere da bar, l'abbiamo sentito dire mille volte: questi stranieri affittano le case e poi entrano in dieci in un appartamento. Ma poiché ieri mattina non sono andato al bar ma a visitare quella casa dirò quello che ho visto di persona, compresa la televisione a schermo piatto enorme - pari a due mensilità d'affitto - che c'era in una stanza di fronte a un letto matrimoniale con il letto singolo accanto, come capita talvolta nelle stanze d'albergo. Ci dev'essere una relazione fra la condizione sociale e le ore trascorse davanti alla televisione perché - fateci caso - le case dei poveri sono sempre piene di antenne e parabole. Fuochi invece non ne ho visti. Di quei falò che gli stranieri accendono nel bel mezzo del soggiorno, forse per cuocere i missionari nel pentolone, non ne ho visto neanche uno. Eppure al bar me l'hanno raccontata almeno tre volte.
La casa non ci ha convinto perché dove ci stanno otto stranieri noi temiamo di starci stretti anche in quattro soltanto. A dirlo suona brutto, ma è la verità: non è che ci renda migliori fare silenzio su quel che accade dietro la porta dell'edificio all'angolo.
Dopo averlo scritto sul giornale bisognerà chiamare il proprietario e fargli sapere di persona che dopo questa visita siamo tornati in tre nel nostro appartamento, quello dove presto saremo in quattro e dove ai bei tempi stavamo benissimo in due, ci siamo seduti sul divano a riordinare le idee davanti alla nostra televisione spenta e ci siamo sentiti improvvisamente larghi.
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