Nel negozio c'erano questi due signori, piuttosto in là con gli anni, alle prese con un problema per loro esistenziale come l'acquisto del decoder per la televisione digitale. Non era una questione economica, com'era evidente dai modi e dai vestiti di questa coppia affabile. Potevano acquistare il primo decoder della lista, fosse anche il più costoso, e tornare a casa soddisfatti. No, come spiegava lui al commesso, il problema non era quanto spendere piuttosto non avere problemi il giorno della rivoluzione, insomma non rischiare di restare senza trasmissioni: "Perché vede, noi non abbiamo altro che la televisione" diceva, sperando di trovare un briciolo di solidarietà umana, un po' di comprensione, oltre all'assistenza tecnica che dava per scontata, qualcuno che gli confermasse finalmente che senza televisione - non è vero? - ormai non si può stare.
Venne fuori che dovevano acquistare non uno, non due, ma ben tre decoder (pur essendo i due anziani rimasti soli, senza figli) perché quello era il numero di apparecchi televisivi che avevano in casa. Pareva che il passaggio al digitale fosse una rivoluzione organizzata contro di loro - disse l'uomo al commesso - approfittando dell'acquisto per improvvisare una specie di confessione, come talvolta accade nel commercio secondo il principio secondo cui "io cliente pago e tu venditore (almeno) mi ascolti".
Aspettando il mio turno poco distante mi misi anch'io ad ascoltare e venni così a sapere che lui guardava la televisione in salotto: sport, notizie, qualche film e la sera Bruno Vespa. Lei invece guardava la televisione in cucina: telefilm, fiction e verso l'ora di cena Emilio Fede. Il televisore della camera da letto l'accendevano invece solo al momento di andare a dormire perché "fa tanta compagnia" e ormai - dopo tanti anni - senza quella lucina azzurra ad illuminare il soffitto della stanza non riuscivano più a prendere sonno.
Pensai che noi, per non cadere in tentazione, in camera da letto non abbiamo nemmeno fatto installare la presa dell'antenna, con l'elettricista che ci guardava storto pensando che volessimo risparmiare. Meglio chiudere subito il caso, senza che il televisore invada anche quello spazio (magari durante un'influenza, quando può far comodo per passare il tempo a letto) senza più farsi da parte.
Tralasciando la minoranza radicale di quelli capaci di bandire il televisore dalle mura domestiche, ci dividiamo nel partito di quelli che lo guardano pure a letto (magari appeso sul soffitto, come ho visto con orrore a casa di uno che conosco) e quelli che resistono. Diciamo la verità: ormai con quel che passa il convento si resiste senza sforzo. Però per quei due pensionati, separati in casa perché sposati alla tivù e per di più rei confessi ("nella vita non ci è rimasto altro") un po' mi è dispiaciuto.
Aspettando il mio turno in quel negozio ho capito il triste fenomeno che porta la gente a scendere in piazza, come è successo l'altro giorno davanti al commissariato del governo, per la paura di perdere due reti televisive, di cui una si salva solo per i film che manda in seconda serata. Ho capito perché ottomila anziani, terrorizzati all'idea di restare senza Rai2 e Rete4 hanno telefonato al numero verde chiedendo aiuto. Ho capito perché davanti ai negozi di elettronica c'è la fila già di buon mattino.
Pensando ai due anziani spero che l'altro ieri - San Valentino - sia successo qualcosa in quella casa, ma non riesco a crederci nemmeno io, che pure ho molta fantasia. Chissà se a un certo punto uno dei due - guardando sullo schermo tutti i programmi dedicati alla festa degli innamorati - avrà avuto il coraggio (di questo si tratta dopo tanti anni) di spegnere l'apparecchio e andare a vedere gli spettacoli di là, dall'altro, in cucina o in salotto, fa lo stesso, purché insieme. Si tratta solo di un sogno perché conosco i palinsesti e so che insegnano a restare lì inchiodati, mica a spegnere lo schermo oppure a rilassarsi se da questa sera vedremo due canali in meno.
16 febbraio 2009
09 febbraio 2009
Basta così, grazie
Pubblico sul blog questa foto solo per far sapere a chi sta in città quanta neve è caduta in montagna. Qui siamo a Falcade, 1.000 metri di quota. Più su non si poteva salire perché i passi erano chiusi (un'altra volta) per il pericolo di valanghe.
05 febbraio 2009
Due pesi, due misure
È con una certa ansia, lo ammetto, che lascio il piccolo play boy all'asilo la mattina quando apro l'armadietto e ripongo i suoi scarponcini accanto alle ENORMI calzature del suo compagno Klodi.
02 febbraio 2009
Quando il mondo si è fermato
I trentini che l'altro pomeriggio affollavano spensierati le vie del Giro al Sass non se ne sono manco accorti, ma per quaranta minuti almeno - mentre loro guardavano ignari le vetrine - il mondo si è fermato. E' stato quando Google ha cominciato a rifiutarsi di fornire le pagine richieste, sostenendo (lui, Google) che erano pericolose per il computer, al quale avrebbero arrecato grave danno.
La prima volta passi, la seconda anche, ma alla terza volta che Google si è rifiutato di rispondere (cosa mai vista!) si è capito che stava accadendo qualcosa di così grave da riportare il mondo com'era dieci anni fa, quando quel motore di ricerca "onnisciente" non c'era e se ci veniva un dubbio lo dovevamo chiarire con un collega oppure prendere l'enciclopedia e in casi estremi mettercela via. Pare impossibile ma era così.
In quei 40 minuti di black-out Claudio Bortolotti, l'aspirante sindaco, stava stringendo mani vere dietro il suo banchetto in via Oss Mazzurana, dimenticandosi dei suoi molti amici di Facebook divenuti all'improvviso introvabili su internet. Poco male, dirà il lettore, è il trionfo della vita vera su quella virtuale tant'è che dello "stop mondiale" se ne sono accorti in pochi, insomma quelli che erano di fronte ad un computer. Ma sarebbe troppo superficiale chiuderla così. Leggete oltre per capire cosa permette Google a una redazione giornalistica e decidete se il suo black out, pur breve, è davvero poca cosa oppure merita le prime pagine dei giornali telematici (come infatti è avvenuto).
Immaginate di chiamare al telefono il giornale per raccontare una vostra storia. Ebbene chi vi ascolta con buona probabilità sta digitando il vostro nome e cognome in rete per capire chi siete, magari cerca una vostra fotografia in rete per vedere come siete fatti. Attenzione: essere sconosciuti a Google in questo caso non è un vantaggio, perché getterà su di voi un'ombra di sospetto. Ma questo è anche il meccanismo che ci consente di scoprire che Armando De Curtis, presunto docente universitario romano, non può aver scritto una lettera di sostegno a uno scrittore trentino emergente semplicemente perché lui - il docente - non esiste.
E' stato grazie a Google che invece abbiamo trovato (ormai donna) una ragazzina che nel 1966, nei giorni dell'alluvione, piangeva in strada tra le braccia del padre che la teneva in alto perché non si bagnasse: l'abbiamo intervistata quarant'anni dopo chiedendole perché piangeva in quella celebre foto in bianco e nero. Che domanda! A volte nessuno ci supera in banalità, comunque grazie Google che hai scovato Giovanna Aldighieri in Lombardia, dove aveva partecipato a un concorso fotografico.
E' sempre grazie a Google che troviamo una legge, una delibera, una località ma anche i documenti di un movimento che protesta contro le nuove caserme. Se Google non funziona perdiamo la memoria e non osiamo pensare che qualcuno un giorno o l'altro possa spegnerlo o (peggio!) boicottarlo: ci ritroveremmo ignoranti come non lo siamo stati mai. Conosco colleghi che cercano il proprio nome su Google e poi restano delusi se vengono fuori pochi risultati, con l'amor proprio demolito da una macchina.
E' anche una questione di ortografia. Nel dubbio se scrivere Irak o Iraq (giusti entrambi) ci rassicura sapere che una maggioranza di 232 milioni sceglie la prima versione. Se digitiamo Shoa, Google gentilmente ci avvisa che "forse volevamo dire Shoah", con l'acca finale.
Così senza di lui che ci prende per mano e ci guida nell'immensità del mondo ci sentiamo sperduti, convinti che il mondo si sia fermato e ci affacciamo alla finestra un po' turbati vedendo che i cittadini - quegli incoscienti! - continuano a passeggiare a braccetto come se nulla fosse.
La prima volta passi, la seconda anche, ma alla terza volta che Google si è rifiutato di rispondere (cosa mai vista!) si è capito che stava accadendo qualcosa di così grave da riportare il mondo com'era dieci anni fa, quando quel motore di ricerca "onnisciente" non c'era e se ci veniva un dubbio lo dovevamo chiarire con un collega oppure prendere l'enciclopedia e in casi estremi mettercela via. Pare impossibile ma era così.
In quei 40 minuti di black-out Claudio Bortolotti, l'aspirante sindaco, stava stringendo mani vere dietro il suo banchetto in via Oss Mazzurana, dimenticandosi dei suoi molti amici di Facebook divenuti all'improvviso introvabili su internet. Poco male, dirà il lettore, è il trionfo della vita vera su quella virtuale tant'è che dello "stop mondiale" se ne sono accorti in pochi, insomma quelli che erano di fronte ad un computer. Ma sarebbe troppo superficiale chiuderla così. Leggete oltre per capire cosa permette Google a una redazione giornalistica e decidete se il suo black out, pur breve, è davvero poca cosa oppure merita le prime pagine dei giornali telematici (come infatti è avvenuto).
Immaginate di chiamare al telefono il giornale per raccontare una vostra storia. Ebbene chi vi ascolta con buona probabilità sta digitando il vostro nome e cognome in rete per capire chi siete, magari cerca una vostra fotografia in rete per vedere come siete fatti. Attenzione: essere sconosciuti a Google in questo caso non è un vantaggio, perché getterà su di voi un'ombra di sospetto. Ma questo è anche il meccanismo che ci consente di scoprire che Armando De Curtis, presunto docente universitario romano, non può aver scritto una lettera di sostegno a uno scrittore trentino emergente semplicemente perché lui - il docente - non esiste.
E' stato grazie a Google che invece abbiamo trovato (ormai donna) una ragazzina che nel 1966, nei giorni dell'alluvione, piangeva in strada tra le braccia del padre che la teneva in alto perché non si bagnasse: l'abbiamo intervistata quarant'anni dopo chiedendole perché piangeva in quella celebre foto in bianco e nero. Che domanda! A volte nessuno ci supera in banalità, comunque grazie Google che hai scovato Giovanna Aldighieri in Lombardia, dove aveva partecipato a un concorso fotografico.
E' sempre grazie a Google che troviamo una legge, una delibera, una località ma anche i documenti di un movimento che protesta contro le nuove caserme. Se Google non funziona perdiamo la memoria e non osiamo pensare che qualcuno un giorno o l'altro possa spegnerlo o (peggio!) boicottarlo: ci ritroveremmo ignoranti come non lo siamo stati mai. Conosco colleghi che cercano il proprio nome su Google e poi restano delusi se vengono fuori pochi risultati, con l'amor proprio demolito da una macchina.
E' anche una questione di ortografia. Nel dubbio se scrivere Irak o Iraq (giusti entrambi) ci rassicura sapere che una maggioranza di 232 milioni sceglie la prima versione. Se digitiamo Shoa, Google gentilmente ci avvisa che "forse volevamo dire Shoah", con l'acca finale.
Così senza di lui che ci prende per mano e ci guida nell'immensità del mondo ci sentiamo sperduti, convinti che il mondo si sia fermato e ci affacciamo alla finestra un po' turbati vedendo che i cittadini - quegli incoscienti! - continuano a passeggiare a braccetto come se nulla fosse.
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