Si narra che in una valle dolomitica ai confini fra Veneto e Trentino si combattano in notti come questa battaglie a suon di botti in cui vince chi la spara più grossa, come avviene del resto anche in altri settori. L’appuntamento è per questa sera, ore 24 circa, con qualche anticipo giusto per scaldarsi, quando dalle baite disperse tra i pascoli a 2 mila metri di quota partiranno petardi e razzi che poi lasceranno il posto a bombe in piena regola. Chiariamo subito un concetto: per far casino in un vicolo cittadino ci vuol poco, come sa bene ogni monello. Basta gettare un “raudi” in un cassonetto per far credere a chi dorme lì sopra che siamo entrati in guerra. Per ottenere lo stesso effetto in alta quota, tra i pascoli aperti e le pareti di roccia ben lontane, ci vuole tutt’altro impegno.
Dirò quello che ho visto, anzi sentito. Correva l’anno 2000, o giù di lì, quando mi ritrovai da quelle parti ospite del proprietario di una baita, con l’accordo che lui avrebbe pensato al cibo e io avrei provveduto ai botti. Per fare bella figura filai dritto in armeria (scartando senza indugio cartolerie e negozi di giocattoli vari) dove scoprii che per andare sul sicuro bisognava investire in esplosivo un terzo della tredicesima. E così feci.
Con il bagagliaio pieno di armamenti (tutta roba legale, intendiamoci, benché proveniente dalla Cina) mi presentai alla baita all’imbrunire impaziente di dar fuoco alle micce. A mezzanotte in punto feci partire un razzo, quindi i miei onesti fuochi e infine - io, ardimentoso fuochista, certo di avere su di me gli occhi della valle, soprattutto quelli delle donne - seguendo alla lettera le istruzioni accesi il pezzo forte: una specie di mortaio da cui partiva un cipollone che poi esplodeva in cielo facendo piovere una pioggia di scintille colorate. Niente male, mi dissi, e soddisfatto, mi ritirai per il brindisi mentre dal basso mi raggiungeva un tonfo sordo che chiarì subito a tutti cos’erano i botti che avevamo sentito fino a quel momento: umili scoregge.
Un altro boato arrivò dall’altro lato della valle e poi un altro, con un botta e risposta che continuò a lungo. Mi spiegarono che a fronteggiarsi c’erano - come sempre - due rivali montanari che avevano condiviso, probabilmente, lo stesso curriculum dinamitardo: entrambi appartenevano alla categoria di quelli che già all’asilo facevano scoppiare le miccette, quelle rosse in vendita nella scatoletta da cinquanta. Solo che loro - per distinguersi - le tenevano fra le dita durante l’esplosione. Crescendo avevano amplificato la potenza dei petardi più seri - parliamo di “raudi”, “mini ciccioli” ma soprattutto “magnum” - facendoli scoppiare nelle lattine vuote di birra, quindi nelle bottiglie e infine, non contenti, si erano avviati alla carriera di bombaroli acquistando botti regolari solo per aprirli, recuperare la polvere nera e utilizzarla - parole loro - in modo serio, ad esempio compressa all’interno di tubi arrugginiti. Poi trovarono altri canali di approvvigionamento che qui non posso scrivere, soprattutto perché non li conosco.
Comunque, stavo lì umiliato ad ascoltare i due vicini che si “scambiavano gli auguri” finché sentimmo il terreno vibrare forte mentre un lampo illuminava il cielo: «Carburo» disse qualcuno che aveva l’aria di saperla lunga.
Poi altri botti, che potevano essere delle fucilate in serie (da quelle parti, si sa, è pieno di cacciatori) e infine circolò la voce che come sempre accade fu la moglie di uno dei due a mettere termine alla sfida, impedendo al marito di far saltare con una pallottola la bombola del gas oppure - come già aveva minacciato l’anno prima - di tirar fuori dal fienile quella riserva mitica di tritolo, su cui da anni in paese correvano strane voci.
Attorno all’una di notte tornò il silenzio e io pensai: «L’anno prossimo farò di meglio». Invece rimasi fermo al mio livello, mentre ai due professionisti - così dicono le voci - toccò di fronteggiarsi da un letto all’altro di una stanza d’ospedale.
P.S. volete avere un'idea dei botti che si possono ottenere con il carburo? date un'occhiata QUI
31 dicembre 2007
23 dicembre 2007
La mia lista di Natale
Per non restarne vittima ho deciso di affrontare il Natale con professionalità. Così, con largo anticipo, mi sono seduto al tavolo di fronte a un foglio bianco e ho cominciato a compilare la lista di cose da fare entro il 25 dicembre, anzi entro il 23 per non avere brutte sorprese e garantirmi un margine di recupero in caso di emergenze.
Per cominciare al meglio ho usato lo sporco trucco di inserire in cima alla lista un compito già eseguito, quindi ho scritto "albero" e "presepe" e poi - con il morale alle stelle - li ho cancellati al volo tirandogli sopra una riga e me ne sono andato a letto soddisfatto.
Il giorno successivo - e quelli dopo ancora - mi sono concentrato sulla programmazione delle incombenze deciso a mettermi in azione solo quando avrei avuto un quadro completo della situazione. Ma riga dopo riga di fronte a quel listone in crescita, con il Natale che si avvicinava pericolosamente, è cominciata a salirmi un'ansia, anzi un'angoscia che mi prendeva al mattino, appena sveglio eppure già schiacciato dagli impegni che mi ero assunto di fronte al grande evento.
Era giunto il momento di mettersi in moto: accusando le Poste di ritardi e inefficienze ho tirato una riga sulla voce biglietti d'auguri e mi sono sentito molto meglio. Ricordandomi che avevo due regali da riciclare ho dimezzato il parco doni pronto a passare ai punti successivi. Con un'occhiata alle previsioni meteo ho deciso che non era necessario (ancora) montare le gomme da neve sull'auto e con grande soddisfazione ho tirato un'altra riga.
I passi successivi sono venuti di conseguenza: sono sopravvissuto alla cena aziendale (via un'altra riga); mi son detto che quel tizio che ogni tanto mi allunga una notizia potevo salutarlo anche dopo le feste e ho cancellato il suo nome dalla lista; calcolando che noi giornalisti a Natale stiamo a casa appena due giorni ho tirato un po' di righe sui libri che mi ero proposto di leggere e sopraffatto dalla quantità di richieste di denaro che varie associazioni mi avevano spedito ho risolto il problema gettandole nel fuoco e conquistando in un sol colpo cinque righe della lista, dopo una strenua lotta contro i sensi di colpa che mi ha lasciato indebolito.
Volevo andare a fare gli auguri al presidente perché mi hanno detto che a palazzo i giornalisti ricevono il regalo di Natale ma quel giorno ero impegnato fuori dal palazzo e mi sono consolato con una voce in meno sulla lista. Infine ho astutamente delegato a un altro ramo familiare la gestione del cenone di Natale, inviti compresi, disponibile a qualsiasi acrobazia parentale anche per il pranzo ("fate di me ciò che volete") pur di poterci tirare sopra un'altra riga.
Restava il punto dolente: scrivere un "fdp" sul Natale, così li chiamo io i "fuori dal palazzo" quando ne parlo con i colleghi. Due anni fa m'ero salvato perché per un calcolo dei festivi il giornale di domenica non usciva, l'anno scorso la feci franca perché eravamo in sciopero, quest'anno non c'è scampo ma ad occhio e croce tra una trentina di righe potrò considerare esaurito anche questo compito e traccerò l'ultima riga della lista che mi ha rovinato metà dicembre e che si è rivelata inutile, zeppa di incarichi buoni solo a togliere il sonno ma talmente trascurabili da cadere (irrisolti) sotto un tratto di penna senza che il mondo se ne accorga.
In anticipo di due giorni, con questo foglio scarabocchiato (che poi sarebbe la mia lista) a prendere fuoco nel camino posso finalmente rilassarmi e pensare alla mia ultima incombenza, l'unica che veramente mi sta a cuore tanto che per tenerla a mente non l'ho dovuta scrivere su un pezzo di carta. Ognuno di noi di cose così a Natale ne ha almeno una: tutte diverse, grandi e piccole, per noi molto importanti. Basti sapere che il tempo guadagnato gettando via la lista servirà per preparare un regalo di Natale al mio bambino, uno di quelli che non si comprano nei negozi e che richiede un minimo di impegno. Che nessuno tra le vittime delle mie righe, sapendo questo, si senta trascurato.
P.S. Buon Natale a tutti!
P.S. C'era un'altra cosa che mi stava a cuore dire ma l'ho scritta sulla Città invisibile.
Per cominciare al meglio ho usato lo sporco trucco di inserire in cima alla lista un compito già eseguito, quindi ho scritto "albero" e "presepe" e poi - con il morale alle stelle - li ho cancellati al volo tirandogli sopra una riga e me ne sono andato a letto soddisfatto.
Il giorno successivo - e quelli dopo ancora - mi sono concentrato sulla programmazione delle incombenze deciso a mettermi in azione solo quando avrei avuto un quadro completo della situazione. Ma riga dopo riga di fronte a quel listone in crescita, con il Natale che si avvicinava pericolosamente, è cominciata a salirmi un'ansia, anzi un'angoscia che mi prendeva al mattino, appena sveglio eppure già schiacciato dagli impegni che mi ero assunto di fronte al grande evento.
Era giunto il momento di mettersi in moto: accusando le Poste di ritardi e inefficienze ho tirato una riga sulla voce biglietti d'auguri e mi sono sentito molto meglio. Ricordandomi che avevo due regali da riciclare ho dimezzato il parco doni pronto a passare ai punti successivi. Con un'occhiata alle previsioni meteo ho deciso che non era necessario (ancora) montare le gomme da neve sull'auto e con grande soddisfazione ho tirato un'altra riga.
I passi successivi sono venuti di conseguenza: sono sopravvissuto alla cena aziendale (via un'altra riga); mi son detto che quel tizio che ogni tanto mi allunga una notizia potevo salutarlo anche dopo le feste e ho cancellato il suo nome dalla lista; calcolando che noi giornalisti a Natale stiamo a casa appena due giorni ho tirato un po' di righe sui libri che mi ero proposto di leggere e sopraffatto dalla quantità di richieste di denaro che varie associazioni mi avevano spedito ho risolto il problema gettandole nel fuoco e conquistando in un sol colpo cinque righe della lista, dopo una strenua lotta contro i sensi di colpa che mi ha lasciato indebolito.
Volevo andare a fare gli auguri al presidente perché mi hanno detto che a palazzo i giornalisti ricevono il regalo di Natale ma quel giorno ero impegnato fuori dal palazzo e mi sono consolato con una voce in meno sulla lista. Infine ho astutamente delegato a un altro ramo familiare la gestione del cenone di Natale, inviti compresi, disponibile a qualsiasi acrobazia parentale anche per il pranzo ("fate di me ciò che volete") pur di poterci tirare sopra un'altra riga.
Restava il punto dolente: scrivere un "fdp" sul Natale, così li chiamo io i "fuori dal palazzo" quando ne parlo con i colleghi. Due anni fa m'ero salvato perché per un calcolo dei festivi il giornale di domenica non usciva, l'anno scorso la feci franca perché eravamo in sciopero, quest'anno non c'è scampo ma ad occhio e croce tra una trentina di righe potrò considerare esaurito anche questo compito e traccerò l'ultima riga della lista che mi ha rovinato metà dicembre e che si è rivelata inutile, zeppa di incarichi buoni solo a togliere il sonno ma talmente trascurabili da cadere (irrisolti) sotto un tratto di penna senza che il mondo se ne accorga.
In anticipo di due giorni, con questo foglio scarabocchiato (che poi sarebbe la mia lista) a prendere fuoco nel camino posso finalmente rilassarmi e pensare alla mia ultima incombenza, l'unica che veramente mi sta a cuore tanto che per tenerla a mente non l'ho dovuta scrivere su un pezzo di carta. Ognuno di noi di cose così a Natale ne ha almeno una: tutte diverse, grandi e piccole, per noi molto importanti. Basti sapere che il tempo guadagnato gettando via la lista servirà per preparare un regalo di Natale al mio bambino, uno di quelli che non si comprano nei negozi e che richiede un minimo di impegno. Che nessuno tra le vittime delle mie righe, sapendo questo, si senta trascurato.
P.S. Buon Natale a tutti!
P.S. C'era un'altra cosa che mi stava a cuore dire ma l'ho scritta sulla Città invisibile.
17 dicembre 2007
La settimana del signor G.
Il primo giorno di sciopero dei camion il signor G. ascoltò la notizia dei blocchi stradali alla radio, mentre di buon mattino guidava la sua auto per andare al lavoro, e pensò che era una cosa seria. Allora lui - che si vantava di essere un tipo previdente, non per niente nel 1973 quando non aveva ancora trent'anni era passato attraverso la crisi energetica, quelle sì che erano emergenze - mise la freccia a destra e per non sbagliare si fermò alla stazione di servizio a fare il pieno di gasolio: «Dovrei averne per una settimana almeno» disse soddisfatto mentre laggiù al casello autostradale vedeva formarsi le prime colonne di tir.
La sera di quel giorno, ascoltando il radiogiornale, il signor G. pensò che era davvero una cosa seria e si chiese - previdente com'era - se non fosse il caso di studiare un percorso alternativo per il giorno successivo. Avrebbe potuto telefonare al dottore del piano di sopra per accordarsi e dividere in due l'uso dell'auto risparmiando in questo modo il carburante oppure (a mali estremi, estremi rimedi) andare al lavoro con la moglie come non accadeva ormai da vent'anni sebbene facessero, su per giù, la stessa strada: «Deciderò domani mattina» stabilì. E più non ci pensò.
Il secondo giorno di sciopero dei tir, ascoltando la radio mentre viaggiava solo nella sua grande auto con il serbatoio pieno, il signor G. si sentì molto intelligente perché mentre il giornalista raccontava del latte che cominciava a scarseggiare gli venne in mente quel distributore automatico gestito dal contadino del paese dove avrebbe potuto rifornirsi. Ma per non sbagliare mise la freccia a destra e si fermò all'ipermercato dove, previdente come non era stato mai, riempì il bagagliaio di ogni genere di prima necessità che gli veniva in mente, senza badare al prezzo né al luogo di provenienza perché non era certo quello il momento di andare per il sottile. Acquistò anche tre confezioni d'acqua minerale perché non era mai stato convinto che nella sua zona l'acqua del rubinetto - come gli dicevano - fosse la stessa che poi finiva imbottigliata.
La sera di quel giorno, quando ormai era chiaro che l'Italia (Trentino compreso) era in piena emergenza, il signor G. placò l'ansia da automobilista ricordandosi di quegli articoli sulle auto a gasolio che viaggiano con l'olio di semi nel serbatoio, proprio quello in vendita al supermercato: «Mal che vada mi salverò con un paio di bottiglie» pensò rilassandosi sul sedile.
Il terzo giorno di sciopero dei tir - dopo aver gonfiato le gomme della bici che non usava più dal 1973, ma che ora poteva tornargli utile - il signor G. si mise al volante e dopo aver collegato il telefonino al vivavoce (oltre che previdente era un tipo diligente) chiamò l'azienda dei trasporti che lo rassicurò spiegandogli che da casa sua alla città c'era (sorpresa!) un autobus ogni venti minuti e che loro non avevano certo problemi con le scorte di gasolio.
La sera di quel giorno, leggermente diffidente, il signor G. apprese dall'autoradio che i camionisti erano vicini ad un accordo con il governo, ma non volle abbassare la guardia e si coricò beneficato da un'improvvisa illuminazione: «Il treno!» pensò. Quel trenino per pendolari che fermava alla stazione del paese ma che lui - immaginando carrozze piene di massaie e giovani studenti - non aveva preso mai: «Domani potrebbe essere il giorno giusto» mormorò. E dormì beato.
Il quarto giorno di sciopero dei tir il signor G. - seduto nell'auto familiare dove viaggiava sempre solo - apprese che lo sciopero era finito e tirò finalmente un sospiro di sollievo osservando la lancetta del serbatoio semi pieno che lui vedeva mezzo vuoto: basta con gli autobus, car-sharing, bicicletta, carburanti alternativi e addirittura il treno. Dopo una settimana di passione (maledetti camionisti, come si permettono di mettere i pali tra le ruote alla gente che lavora?) poteva tornare, finalmente, alla normalità.
La sera di quel giorno, ascoltando il radiogiornale, il signor G. pensò che era davvero una cosa seria e si chiese - previdente com'era - se non fosse il caso di studiare un percorso alternativo per il giorno successivo. Avrebbe potuto telefonare al dottore del piano di sopra per accordarsi e dividere in due l'uso dell'auto risparmiando in questo modo il carburante oppure (a mali estremi, estremi rimedi) andare al lavoro con la moglie come non accadeva ormai da vent'anni sebbene facessero, su per giù, la stessa strada: «Deciderò domani mattina» stabilì. E più non ci pensò.
Il secondo giorno di sciopero dei tir, ascoltando la radio mentre viaggiava solo nella sua grande auto con il serbatoio pieno, il signor G. si sentì molto intelligente perché mentre il giornalista raccontava del latte che cominciava a scarseggiare gli venne in mente quel distributore automatico gestito dal contadino del paese dove avrebbe potuto rifornirsi. Ma per non sbagliare mise la freccia a destra e si fermò all'ipermercato dove, previdente come non era stato mai, riempì il bagagliaio di ogni genere di prima necessità che gli veniva in mente, senza badare al prezzo né al luogo di provenienza perché non era certo quello il momento di andare per il sottile. Acquistò anche tre confezioni d'acqua minerale perché non era mai stato convinto che nella sua zona l'acqua del rubinetto - come gli dicevano - fosse la stessa che poi finiva imbottigliata.
La sera di quel giorno, quando ormai era chiaro che l'Italia (Trentino compreso) era in piena emergenza, il signor G. placò l'ansia da automobilista ricordandosi di quegli articoli sulle auto a gasolio che viaggiano con l'olio di semi nel serbatoio, proprio quello in vendita al supermercato: «Mal che vada mi salverò con un paio di bottiglie» pensò rilassandosi sul sedile.
Il terzo giorno di sciopero dei tir - dopo aver gonfiato le gomme della bici che non usava più dal 1973, ma che ora poteva tornargli utile - il signor G. si mise al volante e dopo aver collegato il telefonino al vivavoce (oltre che previdente era un tipo diligente) chiamò l'azienda dei trasporti che lo rassicurò spiegandogli che da casa sua alla città c'era (sorpresa!) un autobus ogni venti minuti e che loro non avevano certo problemi con le scorte di gasolio.
La sera di quel giorno, leggermente diffidente, il signor G. apprese dall'autoradio che i camionisti erano vicini ad un accordo con il governo, ma non volle abbassare la guardia e si coricò beneficato da un'improvvisa illuminazione: «Il treno!» pensò. Quel trenino per pendolari che fermava alla stazione del paese ma che lui - immaginando carrozze piene di massaie e giovani studenti - non aveva preso mai: «Domani potrebbe essere il giorno giusto» mormorò. E dormì beato.
Il quarto giorno di sciopero dei tir il signor G. - seduto nell'auto familiare dove viaggiava sempre solo - apprese che lo sciopero era finito e tirò finalmente un sospiro di sollievo osservando la lancetta del serbatoio semi pieno che lui vedeva mezzo vuoto: basta con gli autobus, car-sharing, bicicletta, carburanti alternativi e addirittura il treno. Dopo una settimana di passione (maledetti camionisti, come si permettono di mettere i pali tra le ruote alla gente che lavora?) poteva tornare, finalmente, alla normalità.
08 dicembre 2007
La lampadina fulminata
E' stato un sabato bestiale. Tutto è cominciato l'altra sera quando il vicino – con cui da qualche anno siamo rivali – ha inaugurato la stagione delle feste dando corrente alle luminarie che (sospetto) aveva montato sui balconi già in agosto per non arrivare secondo al grande appuntamento. Così – mio malgrado – sono salito in soffitta a recuperare quello scatolone impolverato in cui teniamo due file di luci di Natale. Dopo una mezz'ora impiegata a sciogliere i grovigli (resta un mistero come i cavi elettrici riescano ad annodarsi in qualunque modo vengano riposti) ho trattenuto il fiato mentre infilavo la spina nella presa di corrente: luce! Ma è stata la seconda fila a tradirmi, priva di vita al primo, secondo, terzo e quarto tentativo finché – ormai in preda allo sconforto – mi sono rassegnato al peggio. Incapace di trovare la lampadina fulminata ho raccolto il cavo e sono corso al negozio, sorvegliato a vista dal vicino che si godeva dal balcone il suo imponente Gran Pavese.
Pensavo di cavarmela sostituendo la lampadina rotta ma poiché noi – inteso come noi uomini moderni – non abbiamo tempo da perdere, ho scoperto che bisogna cambiare l'impianto in blocco, anche perché i cavi come il mio li producono a Taiwan e poi li spediscono in Europa a bordo di una nave. Le lampadine di riserva invece no, le tengono per loro.
Non saranno venti euro a mettermi sul lastrico, ho pensato di fronte al commesso un po' impaziente: “Va bene” ho detto. Ho pagato e sono rimasto a gironzolare nel negozio con due cavi in mano, anche quello guasto, senza riuscire a rassegnarmi a gettare tutte quelle lampadine “mute” sapendole buone (tranne una). Restare è stato l'errore che ha fatto del mio sabato un sabato bestiale. Credevo di avere un televisore quasi nuovo ma ho scoperto di tenere in soggiorno un cassone obsoleto che in poco tempo – giura il commesso – sarà inutilizzabile. Credevo di avere una telecamera decente e ho scoperto di essere il triste proprietario di un giocattolo buono al massimo per immortalare i compleanni visto che – tanto per dirne una – registra le immagini sul nastro invece che su un disco rigido. Credevo di avere un computer al passo con i tempi e ho scoperto che l'apparecchio su cui scrivo gli articoli sarebbe in realtà una scatola imbarazzante per cui – giura il commesso – tra un po' non ci saranno nemmeno in giro i programmi (sic!). Per darmi un tono ho tirato fuori il telefonino (nel ramo telecomunicazioni pensavo di andare sul sicuro: fotocamera, telecamera, lettore musicale, scheda di memoria da due giga) ma l'ho rimesso in tasca al volo quando ho visto un ragazzino, avrà avuto sedici anni, tenere in mano il modello successivo che è doppio in tutto, prezzo compreso.
Lì, in quella giungla di cartelli, offerte e concessioni di pagamenti agevolati, confesso di essermi sentito un po' sfigato. Ho iniziato a immaginare la mia nuova vita con un televisore a schermo piatto appeso al muro. Dimenticando che la sera io lavoro mi sono visto fortunato proprietario di un pacchetto di programmi, calcio compreso (che non guardo), per consolarmi con il telecomando in mano di quant'è dura l'esistenza. E se ancora non mi bastasse – lei mi pare un tipo esigente: parola di commesso – potevo sempre accendere l'home theatre, per godermi un film come se fossi in platea (tanto ormai – dice il commesso – al cine chi ci va più?).
Mi sentivo preso in trappola quando dal cesto dei dvd un po' vecchi e superati, quelli in vendita a 9,90 euro, mi è venuto in soccorso quel film del 1999 in cui Brad Pitt, protagonista di Fight Club (non solo un film, un vero inno contro il consumismo) appoggia la birra al tavolo e dice: “Ehi amico, le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Ciao commesso – gli ho detto – devo pensarci sopra un po'. Così sono corso a casa e prima ancora di rispondere al fuoco luminoso del vicino mi sono rivisto – per la terza volta – Surplus, un documentario di Erik Gandini che le televisioni commerciali non trasmettono (perché non trovano nessuna azienda disposta a metterci la pubblicità nelle pause, ma su internet si trova) che spiega perché, soprattutto quando le strade si riempiono di luci e colori, ci coglie l'ossessione del consumo.
P.S. all'inizio di Surplus (che in Google Video è pubblicato integralmente anche se a bassa risoluzione) vedrete molte immagini girate a Genova nel 2001.
Pensavo di cavarmela sostituendo la lampadina rotta ma poiché noi – inteso come noi uomini moderni – non abbiamo tempo da perdere, ho scoperto che bisogna cambiare l'impianto in blocco, anche perché i cavi come il mio li producono a Taiwan e poi li spediscono in Europa a bordo di una nave. Le lampadine di riserva invece no, le tengono per loro.
Non saranno venti euro a mettermi sul lastrico, ho pensato di fronte al commesso un po' impaziente: “Va bene” ho detto. Ho pagato e sono rimasto a gironzolare nel negozio con due cavi in mano, anche quello guasto, senza riuscire a rassegnarmi a gettare tutte quelle lampadine “mute” sapendole buone (tranne una). Restare è stato l'errore che ha fatto del mio sabato un sabato bestiale. Credevo di avere un televisore quasi nuovo ma ho scoperto di tenere in soggiorno un cassone obsoleto che in poco tempo – giura il commesso – sarà inutilizzabile. Credevo di avere una telecamera decente e ho scoperto di essere il triste proprietario di un giocattolo buono al massimo per immortalare i compleanni visto che – tanto per dirne una – registra le immagini sul nastro invece che su un disco rigido. Credevo di avere un computer al passo con i tempi e ho scoperto che l'apparecchio su cui scrivo gli articoli sarebbe in realtà una scatola imbarazzante per cui – giura il commesso – tra un po' non ci saranno nemmeno in giro i programmi (sic!). Per darmi un tono ho tirato fuori il telefonino (nel ramo telecomunicazioni pensavo di andare sul sicuro: fotocamera, telecamera, lettore musicale, scheda di memoria da due giga) ma l'ho rimesso in tasca al volo quando ho visto un ragazzino, avrà avuto sedici anni, tenere in mano il modello successivo che è doppio in tutto, prezzo compreso.
Lì, in quella giungla di cartelli, offerte e concessioni di pagamenti agevolati, confesso di essermi sentito un po' sfigato. Ho iniziato a immaginare la mia nuova vita con un televisore a schermo piatto appeso al muro. Dimenticando che la sera io lavoro mi sono visto fortunato proprietario di un pacchetto di programmi, calcio compreso (che non guardo), per consolarmi con il telecomando in mano di quant'è dura l'esistenza. E se ancora non mi bastasse – lei mi pare un tipo esigente: parola di commesso – potevo sempre accendere l'home theatre, per godermi un film come se fossi in platea (tanto ormai – dice il commesso – al cine chi ci va più?).
Mi sentivo preso in trappola quando dal cesto dei dvd un po' vecchi e superati, quelli in vendita a 9,90 euro, mi è venuto in soccorso quel film del 1999 in cui Brad Pitt, protagonista di Fight Club (non solo un film, un vero inno contro il consumismo) appoggia la birra al tavolo e dice: “Ehi amico, le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Ciao commesso – gli ho detto – devo pensarci sopra un po'. Così sono corso a casa e prima ancora di rispondere al fuoco luminoso del vicino mi sono rivisto – per la terza volta – Surplus, un documentario di Erik Gandini che le televisioni commerciali non trasmettono (perché non trovano nessuna azienda disposta a metterci la pubblicità nelle pause, ma su internet si trova) che spiega perché, soprattutto quando le strade si riempiono di luci e colori, ci coglie l'ossessione del consumo.
P.S. all'inizio di Surplus (che in Google Video è pubblicato integralmente anche se a bassa risoluzione) vedrete molte immagini girate a Genova nel 2001.
03 dicembre 2007
Vittima dell'autovelox
Sono una vittima dell'autovelox di Egna, uno dei 19 mila automobilisti che nel giro di dodici mesi ha versato 2 milioni di euro nelle casse del piccolo Comune, anche se in realtà le 19 mila multe non corrispondono ad altrettanti cittadini: io - ad esempio - sono stato fotografato due volte in pochi giorni. Dopo la seconda multa, essendo una persona civile, ho accantonato il desiderio di prendere a mazzate quell'occhio elettronico che mi scruta quando passo, ho rinunciato a comprare una bomboletta spray per dipingere il mio dissenso sulla facciata del municipio, ho scartato l'idea (che pure mi era sembrata buona) di sfrecciare sulla statale a 140 all'ora con la targa coperta dalla scritta "bye bye sindaco". Ho acceso invece il computer per scrivere una lettera e dire gentilmente ciò che penso al primo cittadino, Alfred Vedovelli. Poiché non mi ha risposto (e poiché ieri non potevo essere assieme ai miei "colleghi" che in segno di protesta sono sfilati, molto lentamente, per le vie di Egna) eccomi qui a lamentarmi.
Prevedo già il moto di ribellione del lettore che giunto a questo punto dirà: «Giornalista, hai sbagliato, paga e fai silenzio». E invece no, la vicenda merita approfondimento. In quel di Egna ci sono due autovelox: uno sulla statale del Brennero (l'incubo di migliaia di automobilisti) e l'altro sulla statale delle Dolomiti (l'incubo mio e di molti altri trentini diretti in val di Fiemme). Parlerò, naturalmente, del secondo. Quel modello Traffiphot installato in centro abitato per verificare che le auto rispettino il limite di 50 all'ora. Ebbene in quel tratto di strada c'è da tempo immemorabile anche un semaforo "intelligente" che dà il via libera alle auto rispettose dei limiti e ferma quelle fuorilegge: quel giorno - è il caso mio - mentre il semaforo mi dava il via libera l'autovelox mi fotografava mentre superavo il limite di un chilometro (all'andata) e di tre chilometri (al ritorno).
Prendere una multa dove si sa che c'è un autovelox è da stupidi. Prenderla per un chilometro in più è da Fantozzi. Prenderla mentre un semaforo ti rassicura sulla tua (presunta) lentezza fa disperare. E così mi sono sentito io quando mi sono arrivate a casa - una dopo l'altra - due lettere verdi con il conto di 96 euro da pagare. Con quei foglietti in mano mi sono rivisto come in un film viaggiare lento, lentissimo, su quella strada che percorro mille volte, con l'occhio incollato alla lancetta fissa sui 50 all'ora, certo che non avrei mai preso la multa. Anche perché non pensavo che ci fosse in giro qualcuno così perfido da tarare l'autovelox per fare le foto a chi supera il limite di un chilometro appena. E invece c'è. A Egna.
Sentendomi stupido ho composto il numero di telefono che c'era sulla multa perché, come tutti i multati, dovevo urlare a qualcuno il mio dissenso. Ero pronto a insultare il mio interlocutore e invece - sorpresa - mi sono scoperto a consolare prima una donna e poi un uomo che hanno avuto la sventura di rispondere al telefono: «La prego di scusarci - mi hanno detto - non siamo noi che decidiamo queste cose, fa tutto il sindaco. Noi gliel'abbiamo detto che tutto questo ci pare esagerato. Telefonate come la sua ne arrivano ogni giorno, non sappiamo più cosa rispondere, se la può consolare sappia che Vedovelli non risponde nemmeno a noi. Tenga conto che è in buona compagnia: stupidi come lei ce ne sono 19 mila». Ah. Io per la cronaca - caro sindaco - ero il numero 13.014 e 14.027 e quello che mi fa rabbia non sono i soldi che ho dato al Comune di Egna e che saranno usati per il terzo autovelox ma la pingue percentuale pagata ai proprietari (privati) della diabolica macchinetta. A Vedovelli due consigli: 1) rispondere alle lettere non è un dovere ma segno di buona educazione; 2) se vuole battere cassa faccia come il doganiere di quel famoso film con Benigni e Troisi: chi siete? cosa portate? sì, ma quanti siete? un fiorino! Almeno ci faremo una risata.
P.S.: si intitolava Non ci resta che piangere.
P.S.: QUI trovate tutto sul famigerato autovelox.
P.S.: dimenticavo, terzo consiglio al sindaco Vedovelli: perché non si dota di questo modello evoluto di autovelox?
Prevedo già il moto di ribellione del lettore che giunto a questo punto dirà: «Giornalista, hai sbagliato, paga e fai silenzio». E invece no, la vicenda merita approfondimento. In quel di Egna ci sono due autovelox: uno sulla statale del Brennero (l'incubo di migliaia di automobilisti) e l'altro sulla statale delle Dolomiti (l'incubo mio e di molti altri trentini diretti in val di Fiemme). Parlerò, naturalmente, del secondo. Quel modello Traffiphot installato in centro abitato per verificare che le auto rispettino il limite di 50 all'ora. Ebbene in quel tratto di strada c'è da tempo immemorabile anche un semaforo "intelligente" che dà il via libera alle auto rispettose dei limiti e ferma quelle fuorilegge: quel giorno - è il caso mio - mentre il semaforo mi dava il via libera l'autovelox mi fotografava mentre superavo il limite di un chilometro (all'andata) e di tre chilometri (al ritorno).
Prendere una multa dove si sa che c'è un autovelox è da stupidi. Prenderla per un chilometro in più è da Fantozzi. Prenderla mentre un semaforo ti rassicura sulla tua (presunta) lentezza fa disperare. E così mi sono sentito io quando mi sono arrivate a casa - una dopo l'altra - due lettere verdi con il conto di 96 euro da pagare. Con quei foglietti in mano mi sono rivisto come in un film viaggiare lento, lentissimo, su quella strada che percorro mille volte, con l'occhio incollato alla lancetta fissa sui 50 all'ora, certo che non avrei mai preso la multa. Anche perché non pensavo che ci fosse in giro qualcuno così perfido da tarare l'autovelox per fare le foto a chi supera il limite di un chilometro appena. E invece c'è. A Egna.
Sentendomi stupido ho composto il numero di telefono che c'era sulla multa perché, come tutti i multati, dovevo urlare a qualcuno il mio dissenso. Ero pronto a insultare il mio interlocutore e invece - sorpresa - mi sono scoperto a consolare prima una donna e poi un uomo che hanno avuto la sventura di rispondere al telefono: «La prego di scusarci - mi hanno detto - non siamo noi che decidiamo queste cose, fa tutto il sindaco. Noi gliel'abbiamo detto che tutto questo ci pare esagerato. Telefonate come la sua ne arrivano ogni giorno, non sappiamo più cosa rispondere, se la può consolare sappia che Vedovelli non risponde nemmeno a noi. Tenga conto che è in buona compagnia: stupidi come lei ce ne sono 19 mila». Ah. Io per la cronaca - caro sindaco - ero il numero 13.014 e 14.027 e quello che mi fa rabbia non sono i soldi che ho dato al Comune di Egna e che saranno usati per il terzo autovelox ma la pingue percentuale pagata ai proprietari (privati) della diabolica macchinetta. A Vedovelli due consigli: 1) rispondere alle lettere non è un dovere ma segno di buona educazione; 2) se vuole battere cassa faccia come il doganiere di quel famoso film con Benigni e Troisi: chi siete? cosa portate? sì, ma quanti siete? un fiorino! Almeno ci faremo una risata.
P.S.: si intitolava Non ci resta che piangere.
P.S.: QUI trovate tutto sul famigerato autovelox.
P.S.: dimenticavo, terzo consiglio al sindaco Vedovelli: perché non si dota di questo modello evoluto di autovelox?
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