Prima o poi, nella vita, capita a tutti. A me è successo l'altro giorno, a metà mattina, quando lungo le scale ho incontrato le ragazze del piano di sotto, quelle due venute a Trento per studiare: "Scusi, sa l'ora?" mi ha chiesto una all'improvviso. Ho guardato l'orologio, erano le dieci in punto e gliel'ho detto. Poi le ho sentite entrare in casa confabulando qualcosa sul signore del piano di sopra.
Ora, la nostra casa è di quattro piani: al secondo ci sono loro, al terzo e al quarto abito io. Quindi - con un rapido calcolo - mi sono reso conto che il signore del piano di sopra, senza possibilità di appello, era proprio il sottoscritto.
Non porto la cravatta, mi faccio la barba ogni quattro giorni, se fa caldo tengo volentieri la camicia fuori dai pantaloni, i capelli quasi mi arrivano alle spalle e fino all'altro giorno andavo a spasso in moto, mi sfugge - quindi - il motivo per cui una studentessa universitaria senta il bisogno di rivolgersi a me dandomi del "lei" e chiamandomi "signore". Poteva dire il tizio, il tale, il tipo, quello del piano di sopra oppure il papà di Emilio (come mi chiama ormai mezzo quartiere) e invece chiamandomi "signore" ha tracciato un solco tra me e la gioventù: ormai è successo e nulla sarà più come prima.
Non è certo la prima volta che mi danno del "lei". Il primo fu un vigile urbano che mi fermò in via Rosmini per farmi una ramanzina visto che ero passato sulle strisce pedonali senza dare la precedenza ai pedoni. La prima multa non si scorda mai, soprattutto se avevi quattordici anni e andavi a scuola in bicicletta: quel vigile (oltre alla sanzione di 5 mila lire) mi diede del lei per tutto il tempo, come per sottolineare la differenza tra i criminali (io) e i tutori della legge (lui). Si chiamava G. (non scrivo il nome perché ormai è andato in pensione, ma lui forse si riconoscerà) e questa dopo vent'anni è la mia vendetta.
Comunque quella mattina, forte del nuovo titolo ottenuto per anzianità, mi avviai al lavoro pensando alla sera prima quando, rientrando a casa ad ora tarda, avevo trovato il solito gruppo del venerdì che cantava a squarciagola fuori dalla trattoria: "Ragazzi, lassù c'è gente che dorme" avevo pensato infastidito, senza però dir nulla. E subito è stata chiara la distanza che ha portato una di loro a prendere le distanze, con il "lei", da uno come me.
Quel giorno, sul lavoro, mi ero quasi dimenticato di essere vecchio perché facendo il giornalista capita di dare del "tu" a molte persone, ad esempio ai colleghi che chiamano da lontano (chi li ha mai visti?) per chiedere informazioni e si presentano come grandi amici pur di strapparti un'informazione: ciao caro... come stai? ti disturbo? ma no, figurati tutto bene? benissimo mi fa piacere e via dicendo. Oppure i politici che sono abituati a darsi del tu, come se fossero in famiglia, e prendono confidenza anche con il cronista che tavolta - per prudenza - vorrebbe mantenere un po' di distacco, soprattutto quando tira una brutta aria e si sa già che bisognerà scrivere male.
Gli inglesi questo problema l'hanno risolto alla radice: sono una democrazia evoluta, danno del "tu" a tutti, compresa la regina. Noi invece - soprattutto noi del nord Italia, vicini ai tedeschi che a queste cose ancora ci tengono - dobbiamo stare bene attenti a come parliamo, tentando talvolta qualche acrobazia con l'italiano nella speranza che andando avanti nel discorso sia l'altro, per primo, a sbilanciarsi e a decidere se siamo "amici" oppure no.
Sempre quel giorno, decisi di mettermi alla prova per capire se veramente ero passato dall'altra parte. Con un occhio alle vetrine, per individuare eventuali capelli bianchi da estirpare, mi dissi che dovevo andare sul sicuro: inutile rischiare con un adolescente dalle mille sorprese, oppure con uno studente troppo educato e rispettoso degli adulti, meglio puntare su un bambino, uno di quelli che ai grandi danno sempre confidenza anche perché non hanno ancora imparato le malizie della forma di cortesia in terza persona.
Così trovai la mia vittima in attesa al banco del supermercato, convinto di farle un complimento per poi valutare la risposta e tirare le conclusioni: "Ciao piccola" dissi a una bambina che stava seduta nel carrello della mamma. Fu lei - la madre - a farmi capire con un'occhiata che dovevo macinare ancora un po' di strada: primo perché quello era un bambino, secondo perché avendo meno di un anno non poteva rispondermi (beato lui) né con il tu né con il lei.