Finché c'era solo il numero del bancomat me la cavavo egregiamente: cinque cifre scritte su un foglietto da leggere e poi distruggere stampandosi bene in testa la combinazione. Facilissimo. Poi arrivò la carta di credito con un altro numero per il prelievo di contante, vietato annotarlo sull'agenda, vietatissimo tenerlo nel portafoglio assieme alla tessera magnetica. Facile, tutto sommato. Quindi fu il turno del telefonino con un altro pin (personal identification number) per attivare l'apparecchio e un altro numeretto, il puk, che serve per sbloccare tutto in caso di errori: abbastanza facile e poi, se non ti garba, basta disattivare la funzione e il tuo telefono non ti chiederà mai più di dare i numeri.
A complicare le cose arrivarono le tessere per il noleggio automatico dei film. In città ci sono due catene di distributori e ognuna ti affida due codici di quattro cifre: uno per noleggiare i film normali, l'altro per i porno (vietato comunicarlo ai figli minorenni). A questo punto - con altri quattro numeri - la faccenda si fece già più seria ma non ci sarebbero stati problemi se al lavoro non avessero messo una password per far partire il computer: anche qui numeri perché delle parole - pare - non ci si può fidare.
Era solo l'inizio. Presto le banche si trasferirono su internet e al telefono dove una voce automatica invece di chiederti nome e cognome - come sarebbe bello - ti ordina di digitare il codice utente e poi - attenzione - la prima e la terza cifra della tua password, oppure la seconda e la quinta, oppure la terza e la quarta. Poi, quando ti ha riconosciuto, la voce ti dice "buongiorno, digiti il pin".
Sempre più difficile, ma in fondo non l'aveva ordinato il dottore di affidare i soldi a una banca che non esiste. Ma anche il medico cominciò ad essere esigente il giorno che dopo la visita, al momento di firmare la ricetta, invece del nome cominciò a chiedere il codice fiscale, quei sedici caratteri fra numeri e lettere che allo Stato forniscono la certezza su chi siamo, più ancora del nome a cui siamo affezionati ma di cui ci sono in giro troppi doppioni.
Son cose che si sanno, direte, basta un piccolo sforzo di memoria per rimanere a galla nella società moderna. Ma parliamone dopo che anche a voi, come a me nei giorni scorsi, sarà capitato di mettere in moto la macchina e scoprire che la batteria vi ha lasciato a piedi. Allora attaccherete i cavi di emergenza, andrete dall'elettrauto a farvi montare una batteria nuova e infine scoprirete che la vostra autoradio - lei che da anni si accende fedele appena la sfiorate - fa finta di non conoscervi e pretende un numero, anzi un codice. Maledetta. Quel codice era scritto su un foglietto, sembra ieri che ce l'avevate in mano: finché non lo ritrovate la vostra radio, rimasta improvvisamente senza corrente elettrica, penserà di essere stata rubata e vi tratterà come dei ladri. Allora correte a casa, aprite il cassetto della cucina zeppo di tessere, di codici, di foglietti: saltano fuori le vecchie ricevute dei bolli auto con i numeri di targa, la tessera della biblioteca con il vostro numero del catalogo bibliografico trentino, la tessera con il numero del seggio elettorale che quand'è il momento di votare si nasconde chissà dove, quei dannati scontrini che avevate conservato per un rimborso e che ora (magia) sono diventati improvvisamente degli inutili, bianchi foglietti dove non si legge più nulla. Ma il numero segreto per sbloccare l'autoradio non c'è e il venditore a cui avete chiesto aiuto disperati vi guarda con sospetto dicendo: "Devo chiedere in assistenza, mi lascia il suo numero di telefono?".
E' a questo punto che cominciate, veramente, a dare i numeri: quando allo sportello del Comune vi chiedono la data di nascita, ve ne uscite sillabando una fila di cifre tipo nove sei sette uno (e il bello è che la segretaria per questo vi sarà grata), al supermercato cominciate a fissare il tabellone con il numero del turno stringendo il foglietto, rimpiangete l'epoca in cui il numero di telefono di casa era composto da cinque cifre (Trento, anni Ottanta, secolo scorso), la notte sognate i contatori della luce con le cifre che si rincorrono impazzite e infine vi svegliate sudati ricordando finalmente quei tre numeri che aprivano il lucchetto della bici che usavate da bambini, quella due ruote che rimase tre giorni attaccata al palo perché la combinazione non voleva saltar fuori il giorno che cominciò per voi - come per tutti - la schiavitù dei numeri.
04 dicembre 2005
27 novembre 2005
Finché la neve resta bianca
Quando vediamo scendere i primi fiocchi cerchiamo sempre di non illuderci: non basta una spruzzata di bianco sui tetti per renderci felici. Noi vogliamo la neve vera, quella che non diventa marrone e non si trasforma in acqua dopo mezz'ora ma che si attacca sulla strada vincendo la sua battaglia con il sale e gli spazzaneve. Questa neve si annuncia con il silenzio: quando le auto nella via si fanno rare, ma soprattutto silenziose, sappiamo che il momento è arrivato. Allora il telefono suona e sento il mio amico D., un tipo taciturno, dire una parola: "Andiamo?". Certo che andiamo. Basta trovare la scusa giusta e in due minuti sono in strada. Il punto di ritrovo è in piazzale Sanseverino dove quattro studenti a bordo di una Clio gialla, probabilmente è l'auto della mamma, hanno già disegnato un paio di otto sull'asfalto tenendo tirato il freno a mano. C'è uno con il fuoristrada nuovo che non vede l'ora di provarlo sulla neve e un altro con un veicolo gigante che sembra appena uscito dal deserto e spera che la città si blocchi per viaggiare solo lui. Infine ci siamo noi, con la nostra Punto bianca e un asso nella manica: quattro gomme chiodate di quelle che dal gommista non le trovi più, anzi mi hanno detto che forse ora sono vietate ma bisogna farle fuori e oggi è il giorno giusto.
Prima di partire facciamo l'inventario: catene? ok. pala da neve? ok. torcia? ok. guanti? ok. C'è tutto, possiamo andare, il Bondone è dietro l'angolo ma la neve fa uno strano effetto e nelle sere come questa a noi piace immaginare di partire per l'Alaska.
Fino a Montevideo va tutto liscio, poi mettiamo la freccia per Sardagna dove superiamo di slancio una vettura che procede a dieci all'ora - siamo o non siamo gente di montagna? - e comincia l'avventura. La radio spiega che le autostrade sono bloccate, che c'è l'obbligo di catene, che è meglio non mettersi in viaggio se non è strettamente necessario ma noi - come ogni anno ai primi fiocchi - dobbiamo arrivare su a Vason e questo per me e il vecchio D. è un motivo più che valido. Al bivio di Candriai l'imprevisto: uno spazzaneve ci rovina la poesia sporcandoci la strada (l'autista direbbe che è lì per pulirla, dipende dai punti di vista). Un'occhiata e siamo già d'accordo: quella luce gialla intermittente che l'assessore Rudari ha spedito su in montagna dobbiamo superarla. Il sorpasso ci impegna per due curve e un interminabile rettilineo, sfioriamo la lama con lo specchietto destro e il bestione ci fa capire - con un colpo di clacson capace di scatenare una valanga - che d'ora in avanti dovremo cavarcela da soli. E di non farci trovare fermi più avanti, magari di traverso, perché lui ci passerà sopra senza chiedere permesso.
Senza spazzaneve il viaggio procede nell'ovatta. Le ruote chiodate affondano senza toccare l'asfalto, a Vaneze attraversiamo una pioggia di palle di neve che si abbatte sui finestrini della Punto, ma proseguiamo fino al Norge dove c'è una macchina bloccata con tre persone che la spingono: "Butta, butta" dicono. Ci fermiamo e diamo una mano a metterla da parte. Il ragazzo che era alla guida tira fuori un ammasso di catene annodate dal bagagliaio e cerca di montarle mentre noi - sotto i fiocchi che cadono sempre più abbondanti - raccontiamo storie di neve. Finisce che uno tira fuori quella nevicata di vent'anni fa, quando nel 1985 i fiocchi sommersero la città, le scuole chiusero per tre giorni e in piazza Duomo ammassarono tutta la neve del centro storico in un mucchio alto come la fontana. Sempre là si va a finire.
Ma dai tornanti più sotto spuntano le luci gialle degli spazzaneve che, pensando di salvarci, mettono a rischio l'avventura. Allora riprendiamo la fuga verso l'alto, via dalla città, via dai palazzi, Vason è poco più su ma quando arriviamo siamo immersi nelle nuvole. Le gomme cigolano schiacciando la neve vera, quella che quando la stringi fra le dita diventa compatta e dura, e con l'auto tracciamo un semicerchio nel parcheggio (l'otto lo facevamo quando eravamo al liceo ma abbiamo perso un po' la mano). Dall'altra parte - dalle Viote - arriva un ritmico ta-tac e poi spunta una Fiesta con le catene molli che battono sul parafango.
Le nuvole a tratti si aprono e in alto si vedono le luci del Palon. Ci guardiamo un attimo: "Scendiamo giù da Garniga?". Ma D. scuote la testa, gli spazzaneve ormai ci stanno catturando, pochi secondi ancora e spunteranno da quella curva riportando la civiltà anche qui in Alaska. Giriamo la Punto verso le luci della città rassegnati ad andare a dormire, sperando che al risveglio la neve non sia diventata già marrone.
Prima di partire facciamo l'inventario: catene? ok. pala da neve? ok. torcia? ok. guanti? ok. C'è tutto, possiamo andare, il Bondone è dietro l'angolo ma la neve fa uno strano effetto e nelle sere come questa a noi piace immaginare di partire per l'Alaska.
Fino a Montevideo va tutto liscio, poi mettiamo la freccia per Sardagna dove superiamo di slancio una vettura che procede a dieci all'ora - siamo o non siamo gente di montagna? - e comincia l'avventura. La radio spiega che le autostrade sono bloccate, che c'è l'obbligo di catene, che è meglio non mettersi in viaggio se non è strettamente necessario ma noi - come ogni anno ai primi fiocchi - dobbiamo arrivare su a Vason e questo per me e il vecchio D. è un motivo più che valido. Al bivio di Candriai l'imprevisto: uno spazzaneve ci rovina la poesia sporcandoci la strada (l'autista direbbe che è lì per pulirla, dipende dai punti di vista). Un'occhiata e siamo già d'accordo: quella luce gialla intermittente che l'assessore Rudari ha spedito su in montagna dobbiamo superarla. Il sorpasso ci impegna per due curve e un interminabile rettilineo, sfioriamo la lama con lo specchietto destro e il bestione ci fa capire - con un colpo di clacson capace di scatenare una valanga - che d'ora in avanti dovremo cavarcela da soli. E di non farci trovare fermi più avanti, magari di traverso, perché lui ci passerà sopra senza chiedere permesso.
Senza spazzaneve il viaggio procede nell'ovatta. Le ruote chiodate affondano senza toccare l'asfalto, a Vaneze attraversiamo una pioggia di palle di neve che si abbatte sui finestrini della Punto, ma proseguiamo fino al Norge dove c'è una macchina bloccata con tre persone che la spingono: "Butta, butta" dicono. Ci fermiamo e diamo una mano a metterla da parte. Il ragazzo che era alla guida tira fuori un ammasso di catene annodate dal bagagliaio e cerca di montarle mentre noi - sotto i fiocchi che cadono sempre più abbondanti - raccontiamo storie di neve. Finisce che uno tira fuori quella nevicata di vent'anni fa, quando nel 1985 i fiocchi sommersero la città, le scuole chiusero per tre giorni e in piazza Duomo ammassarono tutta la neve del centro storico in un mucchio alto come la fontana. Sempre là si va a finire.
Ma dai tornanti più sotto spuntano le luci gialle degli spazzaneve che, pensando di salvarci, mettono a rischio l'avventura. Allora riprendiamo la fuga verso l'alto, via dalla città, via dai palazzi, Vason è poco più su ma quando arriviamo siamo immersi nelle nuvole. Le gomme cigolano schiacciando la neve vera, quella che quando la stringi fra le dita diventa compatta e dura, e con l'auto tracciamo un semicerchio nel parcheggio (l'otto lo facevamo quando eravamo al liceo ma abbiamo perso un po' la mano). Dall'altra parte - dalle Viote - arriva un ritmico ta-tac e poi spunta una Fiesta con le catene molli che battono sul parafango.
Le nuvole a tratti si aprono e in alto si vedono le luci del Palon. Ci guardiamo un attimo: "Scendiamo giù da Garniga?". Ma D. scuote la testa, gli spazzaneve ormai ci stanno catturando, pochi secondi ancora e spunteranno da quella curva riportando la civiltà anche qui in Alaska. Giriamo la Punto verso le luci della città rassegnati ad andare a dormire, sperando che al risveglio la neve non sia diventata già marrone.
20 novembre 2005
Maledetto quel sacchetto
Non ci vorrebbe niente a mettere i fondi del caffè da una parte e le lattine di alluminio dall'altra, le bucce d'arancia di qua e la carta di là, non ci vorrebbe niente insomma a fare la raccolta differenziata dei rifiuti se non fosse per il sacchetto, quel maledetto sacchetto che tutti conosciamo e che a tutti - almeno una volta - è rimasto in mano mentre qualche etto di scorze umide e puzzolenti cadeva sul tappeto oppure sul giroscale o ancora - peggio - fuori dal palazzo, sul marciapiede, quando il bidone dell'immondizia era ancora lontano e una signora osservava la scena con la faccia di chi pensa: "Non vorrà mica lasciare tutto lì per terra, vero?".
Non è uno sfogo personale, la pensa così il 30 per cento delle persone intervistate da Trentino Servizi che avendo la possibilità di lamentarsi (al telefono) se l'è presa con quell'orrendo, viscido sacchetto. E dire che nonostante le apparenze si tratta di un oggetto di grande tecnologia e dal costo molto elevato: 3 centesimi l'uno, mentre una volgare e inquinante borsa di plastica, grande uguale, costerebbe venti volte meno e durerebbe (questo è il problema) infinitamente di più.
Quelli della Novamont possiedono il brevetto per la produzione del materiale (lo chiamano mater-bi, si tratta di una pellicola ricavata dagli scarti di lavorazione del mais) e sul loro sito internet si vantano di aver realizzato un sogno.
Sì, perché quel materiale bianco (talvolta verdino, dipende dalle partite di produzione) se lasciato all'aperto si dissolve, insomma è biodegradabile. Il problema è che comincia a biodegradarsi già quando è nel bidone sotto il lavandino di casa. Basta qualche verdura per creare un po' di umidità, il sacchetto si bagna e comincia a funzionare... facendosi da parte. Quando è pieno noi lo solleviamo con fiducia e - trac - lui disperde i rifiuti nell'ambiente.
Se va bene, comincia a gocciolare. Anche da nuovo. Provate a riempirli d'acqua nel lavandino e vedrete che molti sono bucati già quando ve li consegnano. C'è chi per star tranquillo ne mette due, chi scende in strada con il bidone intero, chi utilizza solo quelli bianchi e guarda con sospetto i verdini, chi invece fa il contrario. Ognuno si difende come può. L'ingegnere della Trentino Servizi - che li sperimenta in prima persona a casa sua, come noi tutti - giura che di quei sacchetti non ne ha rotto mai uno e diffonde un consiglio: "Teneteli al buio, lontani dalla luce del sole, così durano di più".
Anche quelli della società dei rifiuti, se potessero, farebbero volentieri a meno di quei sacchetti e risparmierebbero qualcosa come 240 mila euro l'anno (otto milioni di pezzi) ma senza le umide borsine le nostre città sarebbero più sporche e puzzolenti. Comunque ci stanno lavorando e presto potrebbero dirci di buttare i rifiuti sparsi nel bidone, tanto poi passerà un camion con il lavaggio incorporato.
Chi non odia il sacchetto detesta almeno la cordina, quello spaghetto di cotone che dovrebbe servire da chiusura: uno lo prende alle estremità, fa il nodino con le dita e poi - ovviamente - tira. Ma a tirare quello si sfilaccia, inconsistente, perché anche lui è biodegradabile, pronto a dissolversi. Appena lo tocchi lui fa il suo dovere, si distrugge, obbediente al punto da farsi detestare.
Ho chiamato quelli della Trentino Servizi e mi hanno detto che mi capiscono, ma di tenere duro, è per il bene della terra. Già che c'ero mi sono levato un dubbio e gli ho raccontato quella storia che il mio vicino usa come alibi per non differenziare. Dice che dividere i rifiuti fra i bidoni non serve a niente perché tanto poi i camion filano tutti assieme in discarica. Lui lo sa: gliel'ha detto un suo cugino che conosce uno che lavora per la Trentino Servizi.
Anzi, in realtà sua moglie conosce la moglie di quel tale che guida proprio i camion, una fonte diretta insomma. L'ingegnere della società, quando gli ho raccontato la storiella, si è messo a ridere: "Sarà la centesima volta che la sento...". E allora? "Allora se le viene il dubbio faccia così: si presenti nella nostra sede di Lung'Adige San Nicolò durante la settimana, diciamo verso mezzogiorno e guardi quei camion che scaricano l'organico in una buca. Poi vedrà che quella roba viene caricata sui cassoni da trenta metri cubi e la portano via". E quando andrò lì vedrò che non si tratta di vetro, carta, metallo ma solo materia organica? "Mi creda, se durante la sua ispezione il vento tira dalla parte giusta lei non avrà più dubbi".
Non è uno sfogo personale, la pensa così il 30 per cento delle persone intervistate da Trentino Servizi che avendo la possibilità di lamentarsi (al telefono) se l'è presa con quell'orrendo, viscido sacchetto. E dire che nonostante le apparenze si tratta di un oggetto di grande tecnologia e dal costo molto elevato: 3 centesimi l'uno, mentre una volgare e inquinante borsa di plastica, grande uguale, costerebbe venti volte meno e durerebbe (questo è il problema) infinitamente di più.
Quelli della Novamont possiedono il brevetto per la produzione del materiale (lo chiamano mater-bi, si tratta di una pellicola ricavata dagli scarti di lavorazione del mais) e sul loro sito internet si vantano di aver realizzato un sogno.
Sì, perché quel materiale bianco (talvolta verdino, dipende dalle partite di produzione) se lasciato all'aperto si dissolve, insomma è biodegradabile. Il problema è che comincia a biodegradarsi già quando è nel bidone sotto il lavandino di casa. Basta qualche verdura per creare un po' di umidità, il sacchetto si bagna e comincia a funzionare... facendosi da parte. Quando è pieno noi lo solleviamo con fiducia e - trac - lui disperde i rifiuti nell'ambiente.
Se va bene, comincia a gocciolare. Anche da nuovo. Provate a riempirli d'acqua nel lavandino e vedrete che molti sono bucati già quando ve li consegnano. C'è chi per star tranquillo ne mette due, chi scende in strada con il bidone intero, chi utilizza solo quelli bianchi e guarda con sospetto i verdini, chi invece fa il contrario. Ognuno si difende come può. L'ingegnere della Trentino Servizi - che li sperimenta in prima persona a casa sua, come noi tutti - giura che di quei sacchetti non ne ha rotto mai uno e diffonde un consiglio: "Teneteli al buio, lontani dalla luce del sole, così durano di più".
Anche quelli della società dei rifiuti, se potessero, farebbero volentieri a meno di quei sacchetti e risparmierebbero qualcosa come 240 mila euro l'anno (otto milioni di pezzi) ma senza le umide borsine le nostre città sarebbero più sporche e puzzolenti. Comunque ci stanno lavorando e presto potrebbero dirci di buttare i rifiuti sparsi nel bidone, tanto poi passerà un camion con il lavaggio incorporato.
Chi non odia il sacchetto detesta almeno la cordina, quello spaghetto di cotone che dovrebbe servire da chiusura: uno lo prende alle estremità, fa il nodino con le dita e poi - ovviamente - tira. Ma a tirare quello si sfilaccia, inconsistente, perché anche lui è biodegradabile, pronto a dissolversi. Appena lo tocchi lui fa il suo dovere, si distrugge, obbediente al punto da farsi detestare.
Ho chiamato quelli della Trentino Servizi e mi hanno detto che mi capiscono, ma di tenere duro, è per il bene della terra. Già che c'ero mi sono levato un dubbio e gli ho raccontato quella storia che il mio vicino usa come alibi per non differenziare. Dice che dividere i rifiuti fra i bidoni non serve a niente perché tanto poi i camion filano tutti assieme in discarica. Lui lo sa: gliel'ha detto un suo cugino che conosce uno che lavora per la Trentino Servizi.
Anzi, in realtà sua moglie conosce la moglie di quel tale che guida proprio i camion, una fonte diretta insomma. L'ingegnere della società, quando gli ho raccontato la storiella, si è messo a ridere: "Sarà la centesima volta che la sento...". E allora? "Allora se le viene il dubbio faccia così: si presenti nella nostra sede di Lung'Adige San Nicolò durante la settimana, diciamo verso mezzogiorno e guardi quei camion che scaricano l'organico in una buca. Poi vedrà che quella roba viene caricata sui cassoni da trenta metri cubi e la portano via". E quando andrò lì vedrò che non si tratta di vetro, carta, metallo ma solo materia organica? "Mi creda, se durante la sua ispezione il vento tira dalla parte giusta lei non avrà più dubbi".
13 novembre 2005
Per fortuna c'è Igor
Da quando ho conosciuto Igor gli annunci che mi promettono la sopravvalutazione della mia auto usata mi lasciano del tutto indifferente. Sarà stato un paio di mesi fa, dovevo vendere una Golf di una decina d'anni e mi sono presentato, umile, nei principali concessionari per proporre lo scambio con un'auto più nuova. La scena era sempre quella: l'uomo di fronte alla scrivania tira fuori un librone tipo elenco telefonico, mi chiede l'anno di immatricolazione della Golf, il modello, i chilometri percorsi, sfoglia le pagine e poi lancia un'occhiata distratta oltre le vetrine. "E' quella là?" chiede. E io faccio sì con la testa, per metà orgoglioso e per metà speranzoso, l'abbiamo sempre tenuta bene quella macchina, con tutti i tagliandi al momento giusto, l'abbiamo portata dal carrozziere per riparare alcuni graffi, frizione quasi nuova e via dicendo ma l'uomo di tutto questo se ne frega, scrive un numero sul foglietto e poi lo gira sulla scrivania per farmelo vedere, con il sorriso ammiccante di uno che sta facendo beneficenza: 800 euro, di cui ne restano la metà dopo aver pagato il passaggio di proprietà.
Inutile proporre quella Golf - come ho fatto - a un altro concessionario perché la scena è sempre la stessa, con qualche piccola variante: oltre all'occhiata fuori dal palazzo c'è stato chi è uscito di persona e si è fatto un giro attorno alla vettura, uno ha dato un paio di calci di punta agli pneumatici (si fa così?), un altro ha aperto la portiera e ha guardato nell'abitacolo, nessuno mi ha chiesto di accendere il motore, tutti, alla fine, mi hanno fatto capire a parole o con la scritta sul foglietto che il valore di quella macchina per me gloriosa era di 800 euro appena, meno il passaggio di proprietà.
Con un moto di ribellione ho pubblicato un annuncio su Bazar, mettendo in evidenza che non c'era l'aria condizionata, che il contachilometri segnava 160 mila e che nel serbatoio ci andava benzina (non il gasolio come ora vogliono tutti, benzina). Il prezzo? Duemila euro, meglio spararla grossa. Ed è stato a questo punto che è entrato in scena Igor, incredibile, di mercoledì, un giorno prima che Bazar uscisse in edicola: ognuno ha i suoi trucchi, lui conosce uno che porta i giornali con il furgone nelle valli del Trentino.
"Ciao chiamo per Golf" mi fa e senza darmi il tempo di rispondere mi chiede quando possiamo vederci. Ecco uno che sa riconoscere un vero affare, penso, e gli do appuntamento in un parcheggio vicino a casa mia. Il giorno dopo lui arriva, gira intorno all'auto, apre il bagagliaio, solleva il cofano, accende il motore, facciamo un giretto di prova (guida lui) e quindi chiede il prezzo. Duemila euro, c'è scritto sull'annuncio. Insiste: "Sì, ma qual è il tuo ultimo prezzo?". E' uno che non vuole perdere tempo e allora gli dico quanto, fin dal primo momento, speravo di incassare: millecinque. Affare fatto e per essere sicuro mi infila nel taschino della camicia una mazzetta con trenta biglietti da cinquanta (più tardi, confesso, ne ho speso uno al bar con il timore che fosse falso, ma non è successo niente).
A Igor il passaggio di proprietà non interessa, vuole solo le targhe della Golf che ufficialmente risulterà demolita, per il ministero dei trasporti italiani non esisterà più, senza l'incubo delle multe che ti arrivano a casa all'improvviso dal sud Italia. Poi domenica, quando arriverà suo cugino dalla Moldavia, caricheranno l'auto su una bisarca e partiranno verso l'Est Europa dove la mia Golf blu metallizzato farà sicuramente un figurone. Assieme a lei ci sarà un'Audi familiare (quasi 200 mila chilometri) e altre due Volkswagen d'occasione.
Il momento brutto è stato dopo la vendita, quando il mio cellulare ha iniziato a squillare come impazzito: era tutta gente che voleva acquistare la mia vecchia Golf, tutti extracomunitari, qualcuno parlava un linguaggio incomprensibile. Il momento migliore è stato quando mi sono presentato di nuovo al concessionario, questa volta senza auto al seguito, per scoprire che quei famosi 800 euro si erano trasformati, tra i sorrisi, in uno sconto molto superiore.
A chi ha un'auto invendibile e vuole chiedere aiuto a Igor posso consigliare solo questo: mettete l'annuncio sul giornale e sarà lui a trovarvi. Ma attenzione, perché a modo suo anche lui è selettivo: ho visto la sua copia di Bazar e con una penna rossa aveva evidenziato solo vecchie auto, meglio se tedesche o giapponesi. Quelle nuove che piacciono a noi nell'Est Europa non le vogliono.
Inutile proporre quella Golf - come ho fatto - a un altro concessionario perché la scena è sempre la stessa, con qualche piccola variante: oltre all'occhiata fuori dal palazzo c'è stato chi è uscito di persona e si è fatto un giro attorno alla vettura, uno ha dato un paio di calci di punta agli pneumatici (si fa così?), un altro ha aperto la portiera e ha guardato nell'abitacolo, nessuno mi ha chiesto di accendere il motore, tutti, alla fine, mi hanno fatto capire a parole o con la scritta sul foglietto che il valore di quella macchina per me gloriosa era di 800 euro appena, meno il passaggio di proprietà.
Con un moto di ribellione ho pubblicato un annuncio su Bazar, mettendo in evidenza che non c'era l'aria condizionata, che il contachilometri segnava 160 mila e che nel serbatoio ci andava benzina (non il gasolio come ora vogliono tutti, benzina). Il prezzo? Duemila euro, meglio spararla grossa. Ed è stato a questo punto che è entrato in scena Igor, incredibile, di mercoledì, un giorno prima che Bazar uscisse in edicola: ognuno ha i suoi trucchi, lui conosce uno che porta i giornali con il furgone nelle valli del Trentino.
"Ciao chiamo per Golf" mi fa e senza darmi il tempo di rispondere mi chiede quando possiamo vederci. Ecco uno che sa riconoscere un vero affare, penso, e gli do appuntamento in un parcheggio vicino a casa mia. Il giorno dopo lui arriva, gira intorno all'auto, apre il bagagliaio, solleva il cofano, accende il motore, facciamo un giretto di prova (guida lui) e quindi chiede il prezzo. Duemila euro, c'è scritto sull'annuncio. Insiste: "Sì, ma qual è il tuo ultimo prezzo?". E' uno che non vuole perdere tempo e allora gli dico quanto, fin dal primo momento, speravo di incassare: millecinque. Affare fatto e per essere sicuro mi infila nel taschino della camicia una mazzetta con trenta biglietti da cinquanta (più tardi, confesso, ne ho speso uno al bar con il timore che fosse falso, ma non è successo niente).
A Igor il passaggio di proprietà non interessa, vuole solo le targhe della Golf che ufficialmente risulterà demolita, per il ministero dei trasporti italiani non esisterà più, senza l'incubo delle multe che ti arrivano a casa all'improvviso dal sud Italia. Poi domenica, quando arriverà suo cugino dalla Moldavia, caricheranno l'auto su una bisarca e partiranno verso l'Est Europa dove la mia Golf blu metallizzato farà sicuramente un figurone. Assieme a lei ci sarà un'Audi familiare (quasi 200 mila chilometri) e altre due Volkswagen d'occasione.
Il momento brutto è stato dopo la vendita, quando il mio cellulare ha iniziato a squillare come impazzito: era tutta gente che voleva acquistare la mia vecchia Golf, tutti extracomunitari, qualcuno parlava un linguaggio incomprensibile. Il momento migliore è stato quando mi sono presentato di nuovo al concessionario, questa volta senza auto al seguito, per scoprire che quei famosi 800 euro si erano trasformati, tra i sorrisi, in uno sconto molto superiore.
A chi ha un'auto invendibile e vuole chiedere aiuto a Igor posso consigliare solo questo: mettete l'annuncio sul giornale e sarà lui a trovarvi. Ma attenzione, perché a modo suo anche lui è selettivo: ho visto la sua copia di Bazar e con una penna rossa aveva evidenziato solo vecchie auto, meglio se tedesche o giapponesi. Quelle nuove che piacciono a noi nell'Est Europa non le vogliono.
06 novembre 2005
Anche il latte è globalizzato
Lo sapevate che la Polenta Valsugana (marchio registrato) la producono in provincia di Lecco per conto di una ditta di Bologna? E che la Polenta del Trentino, quella macinata a pietra e selezionata secondo la migliore tradizione trentina, la fanno nella zona industriale di Lana, in provincia di Bolzano? Quante sorprese può riservare una passeggiata fra gli scaffali di uno dei tanti Supermercati Trentini. Si può scoprire - ad esempio - che gli strangolapreti alla trentina, quelli verdi dell'insospettabile ditta Brugnara di Pergine, li producono e li confezionano in una fabbrica di Quinto di Treviso. E poi il latte, incredibile, il "Latte Trento", quello magro nella confezione da mezzo litro, con le mucche, il fienile e le Dolomiti sullo sfondo, ebbene quel latte è prodotto in uno stabilimento di Savona, così c'è scritto.
In preda al panico giro l'angolo, cerco lo scaffale dei biscotti e con la mano che mi trema prendo un sacchetto di Cuori, da sempre i miei preferiti, quelli della Prada biscotti del Trentino: giro la confezione e leggo che li fanno a Lamar di Gardolo. Almeno quelli.
In attesa che i fagioli di Lamon divengano trentini (con la speranza che continuino a coltivarli lì anche dopo che avranno spostato il confine con il Veneto) prendo atto con soddisfazione che al piano regolatore di Trento ci ha messo mano un urbanista spagnolo, che gli edifici dell'area ex Michelin (l'affare immobiliare più grosso del capoluogo trentino) li ha disegnati un architetto genovese e che la cupola del Mart di Rovereto, quella che è comparsa sulle riviste di tutto il mondo come esempio di grande architettura, l'ha disegnata uno svizzero.
E non è finita: se non ci fossero i raccoglitori dell'Est Europa le mele della valle di Non resterebbero sugli alberi e se per le vacanze di Natale non arrivassero i camerieri da fuori Provincia (quelli che nei ristoranti dolomitici vi servono la polenta e capriolo con il costume locale e l'accento sardo) molti alberghi potrebbero chiudere i battenti.
Bello questo Trentino globalizzato dove se alzate una serranda di via Malvasia trovate una moschea, se attraversate la strada vi offrono una sporta di cibo cinese, dove nella sala d'aspetto del mio dottore (il poliambulatorio di Centochiavi) capita di sentire parlare più spagnolo che italiano e nei cantieri edili è più facile essere ubbiditi se si danno gli ordini in lingua araba. Ma la domanda è questa: di che si occupano i trentini, se la polenta, il latte, gli strangolapreti e le case le fanno gli "stranieri"? Loro, i trentini, sono dentro il palazzo (uno dei tanti) a far funzionare l'autonomia, un meccanismo delicato che richiede il lavoro di migliaia di persone.
Di Trento e del Trentino piace il nome (piace anche me, fin qui l'ho scritto quattordici volte, adesso basta) tanto che le aziende fanno a gara per metterlo sulle confezioni dei loro prodotti e i Comuni che stanno oltre confine organizzano referendum per far parte del gruppo privilegiato (e non solo di nome si tratta, ovviamente). Ma al di là delle parole si fa fatica, ormai, a capire cosa c'è sotto.
Il Dellai lungimirante l'aveva già compreso due anni fa, quando per evitare confusioni e ambiguità diede ordine di installare le bandiere provinciali lungo le strade di confine: un modo chiaro - e vecchio come il mondo - di far capire qual'è la differenza tra qui e là. Le trovate ovunque queste bandiere, quelle che vedete nella foto sono ai 1.900 metri di passo San Pellegrino, fra Trentino (e fanno quindici) e Veneto per avvertire che di qua siamo autonomi: una notizia che forse era meglio non sbandierare, abbiamo visto che succede quando (a fasi cicliche) i vicini se ne accorgono.
Post scriptum: a proposito di polente, sugli scaffali dei Supermercati Trentini vendono anche quella Montanara, in una confezione rustica che promette quel sapore forte che piace a noi trentini. Dove la producono? A Veggiano, 21 metri sul livello del mare, pianura che più pianura non si può, in provincia di Padova, ancora una volta in Veneto, naturalmente.
In preda al panico giro l'angolo, cerco lo scaffale dei biscotti e con la mano che mi trema prendo un sacchetto di Cuori, da sempre i miei preferiti, quelli della Prada biscotti del Trentino: giro la confezione e leggo che li fanno a Lamar di Gardolo. Almeno quelli.
In attesa che i fagioli di Lamon divengano trentini (con la speranza che continuino a coltivarli lì anche dopo che avranno spostato il confine con il Veneto) prendo atto con soddisfazione che al piano regolatore di Trento ci ha messo mano un urbanista spagnolo, che gli edifici dell'area ex Michelin (l'affare immobiliare più grosso del capoluogo trentino) li ha disegnati un architetto genovese e che la cupola del Mart di Rovereto, quella che è comparsa sulle riviste di tutto il mondo come esempio di grande architettura, l'ha disegnata uno svizzero.
E non è finita: se non ci fossero i raccoglitori dell'Est Europa le mele della valle di Non resterebbero sugli alberi e se per le vacanze di Natale non arrivassero i camerieri da fuori Provincia (quelli che nei ristoranti dolomitici vi servono la polenta e capriolo con il costume locale e l'accento sardo) molti alberghi potrebbero chiudere i battenti.
Bello questo Trentino globalizzato dove se alzate una serranda di via Malvasia trovate una moschea, se attraversate la strada vi offrono una sporta di cibo cinese, dove nella sala d'aspetto del mio dottore (il poliambulatorio di Centochiavi) capita di sentire parlare più spagnolo che italiano e nei cantieri edili è più facile essere ubbiditi se si danno gli ordini in lingua araba. Ma la domanda è questa: di che si occupano i trentini, se la polenta, il latte, gli strangolapreti e le case le fanno gli "stranieri"? Loro, i trentini, sono dentro il palazzo (uno dei tanti) a far funzionare l'autonomia, un meccanismo delicato che richiede il lavoro di migliaia di persone.
Di Trento e del Trentino piace il nome (piace anche me, fin qui l'ho scritto quattordici volte, adesso basta) tanto che le aziende fanno a gara per metterlo sulle confezioni dei loro prodotti e i Comuni che stanno oltre confine organizzano referendum per far parte del gruppo privilegiato (e non solo di nome si tratta, ovviamente). Ma al di là delle parole si fa fatica, ormai, a capire cosa c'è sotto.
Il Dellai lungimirante l'aveva già compreso due anni fa, quando per evitare confusioni e ambiguità diede ordine di installare le bandiere provinciali lungo le strade di confine: un modo chiaro - e vecchio come il mondo - di far capire qual'è la differenza tra qui e là. Le trovate ovunque queste bandiere, quelle che vedete nella foto sono ai 1.900 metri di passo San Pellegrino, fra Trentino (e fanno quindici) e Veneto per avvertire che di qua siamo autonomi: una notizia che forse era meglio non sbandierare, abbiamo visto che succede quando (a fasi cicliche) i vicini se ne accorgono.
Post scriptum: a proposito di polente, sugli scaffali dei Supermercati Trentini vendono anche quella Montanara, in una confezione rustica che promette quel sapore forte che piace a noi trentini. Dove la producono? A Veggiano, 21 metri sul livello del mare, pianura che più pianura non si può, in provincia di Padova, ancora una volta in Veneto, naturalmente.
30 ottobre 2005
La targa? In prestito
Non è dalle foglie gialle e dal freddo mattutino che mi accorgo dell'inverno in arrivo, ma dalla telefonata di quel mio cugino che puntuale si fa vivo e mi saluta a modo suo: "Vecchio porco, come va?". Io sto al gioco, gli racconto qualche novità a cui non è interessato e dentro di me penso "su, forza, taglia corto e vieni al dunque". Allora il cugino stringe i tempi e lancia la domanda, sempre quella, ogni novembre: "Ma che targa ha la tua Punto?". Dispari, rispondo, come l'anno scorso e l'anno prima. "Ah, bene, non è che me la presti?".
La risposta la sa già, come potrei negargli quella Fiat tre porte bianca, ma annerita dallo smog, parcheggiata tra due alberi proprio ai margini della zona in cui presto si circolerà a targhe alterne? Se passate di là la notate di sicuro: è quella con uno strato di melma sul tetto, un'enciclopedia di volantini infilati sotto i tergicristalli e le ragnatele che dallo specchietto laterale raggiungono l'asfalto. Non la uso mai, a parte le mattine in cui arriva l'uomo delle foglie a pulire la strada (e devo spostare l'auto) e le giornate riservate alle targhe dispari quando viene il cugino, lascia nel parcheggio la sua auto (ovviamente targa pari) e riparte con la mia che, gonfia d'orgoglio, sculettando verso il centro sembra parlare con il fumo che esce dallo scarico: "Lo vedi che trovo ancora qualcuno che mi guida?" dice mentre la guardo allontanarsi. Uno pensa che le targhe alterne servano per non far circolare le auto, mio cugino con la Punto è invece la dimostrazione che servono a rimetterle in strada. Io gliel'ho detto mille volte: prendi l'autobus Ma gli orari non gli vanno. Vai a piedi "Troppa fatica". Portati una bici all'area Zuffo e vai in città con quella "Troppo complicato". Prenditi un motorino "E quando piove?". Comprati un'auto euro 4 così non ci pensi più "Non ho i soldi". E allora mettiti un impianto a gas "No, perché poi non mi fanno parcheggiare nel garage sotterraneo". L'anno scorso ho provato a suggerirgli di fare come fanno tutti: "Vai alla motorizzazione civile e racconti che ti hanno rubato la targa, oppure ti inventi che è rovinata e le cifre non si leggono più, così con 128 euro te ne danno una nuova, pari o dispari, come vuoi, alla fine a casa hai un'auto per tipo e il problema è risolto". Ma questo vorrebbe dire scendere in città assieme alla moglie, uno sforzo che proprio non riesce a fare perché, dice, il tragitto da casa al lavoro è l'unico momento in cui riesce a stare un po' in pace.
E' fatto così: in città si va con l'auto, gli altri mezzi di trasporto sono roba da sfigati. Nemmeno i parcheggi blu a pagamento o quello di piazza Fiera con i prezzi folli lo spaventano perché lui conosce un posto dove lasciare l'auto gratis, a due passi da via Belenzani, senza il rischio di prendere la multa. Non chiedetegli dov'è, non lo dirà nemmeno sotto tortura: ho il sospetto che ci sia sotto qualcosa d'illegale e preferiscono non approfondire.
Risolto il problema della sosta, l'importante è circolare: se fosse sicuro di avere due gemelli per caricarli in macchina e fare car-pooling direbbe finalmente sì a quella povera moglie che da anni gli chiede un figlio. E quell'idea, quella di vestire due bambole gonfiabili e metterle sui sedili dell'auto per circolare anche nei giorni proibiti? L'ha lanciata lui, quel cugino di cui comincio a vergognarmi.
Tanto impegno, tanta fantasia, mi fanno pensare che ci dev'essere qualcosa in più rispetto alla semplice comodità (comodità?) di viaggiare in auto: lo guardo quando gli consegno le chiavi nella Punto e gli leggo negli occhi quella luce strana, diabolica, di chi vuole mettere nel sacco le istituzioni e gode quando raggiunge l'obiettivo. Non sanno, mio cugino e quelli come lui, che nel sacco mettono quelli che al lavoro ci vanno a piedi, in autobus o in bicicletta. Ma in realtà si fregano da soli, fregano tutti, perché anche i loro davanzali sono neri di smog e anche le loro mogli portano a spasso i bambini nel passeggino, camminando sul marciapiede a due metri dalla statale puzzolente.
Quelli come mio cugino ogni mattina si siedono nell'auto e accendono l'autoradio senza pensare a tutto questo, altrimenti come si spiega, deroghe a parte, che quando ci sono le targhe alterne - una sua due, in teoria il cinquanta per cento - sulle strade della città ci ritroviamo con l'ottanta per cento delle auto in circolazione?
La risposta la sa già, come potrei negargli quella Fiat tre porte bianca, ma annerita dallo smog, parcheggiata tra due alberi proprio ai margini della zona in cui presto si circolerà a targhe alterne? Se passate di là la notate di sicuro: è quella con uno strato di melma sul tetto, un'enciclopedia di volantini infilati sotto i tergicristalli e le ragnatele che dallo specchietto laterale raggiungono l'asfalto. Non la uso mai, a parte le mattine in cui arriva l'uomo delle foglie a pulire la strada (e devo spostare l'auto) e le giornate riservate alle targhe dispari quando viene il cugino, lascia nel parcheggio la sua auto (ovviamente targa pari) e riparte con la mia che, gonfia d'orgoglio, sculettando verso il centro sembra parlare con il fumo che esce dallo scarico: "Lo vedi che trovo ancora qualcuno che mi guida?" dice mentre la guardo allontanarsi. Uno pensa che le targhe alterne servano per non far circolare le auto, mio cugino con la Punto è invece la dimostrazione che servono a rimetterle in strada. Io gliel'ho detto mille volte: prendi l'autobus Ma gli orari non gli vanno. Vai a piedi "Troppa fatica". Portati una bici all'area Zuffo e vai in città con quella "Troppo complicato". Prenditi un motorino "E quando piove?". Comprati un'auto euro 4 così non ci pensi più "Non ho i soldi". E allora mettiti un impianto a gas "No, perché poi non mi fanno parcheggiare nel garage sotterraneo". L'anno scorso ho provato a suggerirgli di fare come fanno tutti: "Vai alla motorizzazione civile e racconti che ti hanno rubato la targa, oppure ti inventi che è rovinata e le cifre non si leggono più, così con 128 euro te ne danno una nuova, pari o dispari, come vuoi, alla fine a casa hai un'auto per tipo e il problema è risolto". Ma questo vorrebbe dire scendere in città assieme alla moglie, uno sforzo che proprio non riesce a fare perché, dice, il tragitto da casa al lavoro è l'unico momento in cui riesce a stare un po' in pace.
E' fatto così: in città si va con l'auto, gli altri mezzi di trasporto sono roba da sfigati. Nemmeno i parcheggi blu a pagamento o quello di piazza Fiera con i prezzi folli lo spaventano perché lui conosce un posto dove lasciare l'auto gratis, a due passi da via Belenzani, senza il rischio di prendere la multa. Non chiedetegli dov'è, non lo dirà nemmeno sotto tortura: ho il sospetto che ci sia sotto qualcosa d'illegale e preferiscono non approfondire.
Risolto il problema della sosta, l'importante è circolare: se fosse sicuro di avere due gemelli per caricarli in macchina e fare car-pooling direbbe finalmente sì a quella povera moglie che da anni gli chiede un figlio. E quell'idea, quella di vestire due bambole gonfiabili e metterle sui sedili dell'auto per circolare anche nei giorni proibiti? L'ha lanciata lui, quel cugino di cui comincio a vergognarmi.
Tanto impegno, tanta fantasia, mi fanno pensare che ci dev'essere qualcosa in più rispetto alla semplice comodità (comodità?) di viaggiare in auto: lo guardo quando gli consegno le chiavi nella Punto e gli leggo negli occhi quella luce strana, diabolica, di chi vuole mettere nel sacco le istituzioni e gode quando raggiunge l'obiettivo. Non sanno, mio cugino e quelli come lui, che nel sacco mettono quelli che al lavoro ci vanno a piedi, in autobus o in bicicletta. Ma in realtà si fregano da soli, fregano tutti, perché anche i loro davanzali sono neri di smog e anche le loro mogli portano a spasso i bambini nel passeggino, camminando sul marciapiede a due metri dalla statale puzzolente.
Quelli come mio cugino ogni mattina si siedono nell'auto e accendono l'autoradio senza pensare a tutto questo, altrimenti come si spiega, deroghe a parte, che quando ci sono le targhe alterne - una sua due, in teoria il cinquanta per cento - sulle strade della città ci ritroviamo con l'ottanta per cento delle auto in circolazione?
23 ottobre 2005
Le telefonate proibite
L'ultima di quelle telefonate è arrivata venerdì all'ora di pranzo: un numero anonimo e una voce sconosciuta che voleva vendermi dei mobili già pronti per me, anche su misura, in un mobilificio di Verona. Invece di riattaccare al volo, come avrei dovuto, ho risposto che - no grazie - non avevo intenzione di andare fino in Veneto per comprare una poltrona. Ma la donna, che per essere così veloce e convincente ha frequentato sicuramente un corso di cui teneva il manuale sotto mano, ha replicato che se non volevo prendere l'auto mi portavano giù in pullman, che se preferivo mi avrebbero inviato a casa un arredatore pronto a rivoltarmi l'appartamento (ovviamente senza impegno), che i miei mobili vecchi non erano un problema visto che loro ritirano anche l'usato e che infine se non avevo i soldi potevo pagare in comode rate senza anticipo. Ho provato a interromperla dicendo che i miei mobili mi piacciono e in fondo sono quasi nuovi ma sono rimasto con la frase a metà: "Come può dirlo finché non ha visto i nostri?". E alla mia obiezione - signorina forse stiamo perdendo tempo tutti e due - ha trovato la forza di replicare con quella voce inarrestabile: "La mia azienda non perde mai tempo con clienti come lei, dottor Selva". Allora le ho detto sei forte, fra tutte quelle che mi chiamano ogni due giorni sei sicuramente la migliore, lo so che il tuo è un lavoro duro, tutto il giorno al telefono, diamoci pure del tu e lei mi ha risposto speranzosa: "Grazie mille, dottore, allora lo fissiamo questo appuntamento?". Imbattibile.
Dicevo che per fortuna questa è l'ultima chiamata perché il giorno successivo il postino ha portato il nuovo elenco del telefono e accanto al mio nome non c'è né la piccola busta che autorizza le aziende a mandarmi la pubblicità a casa né la piccola cornetta telefonica che dà il via libera alle telefonate commerciali. Addio alle voci della Bottega dell'Arredamento di Verona, addio per sempre a quei mastini della Bofrost con i loro camioncini pieni di surgelati, a quelli dell'olio d'oliva pugliese e ai loro rivali liguri, a quelli dell'associazione mutilati che mi chiedono un'offerta e vengono anche a prendersela a domicilio, a quelli di Fastweb che vogliono convincermi a fare l'abbonamento con loro, addio anche alla telefonista di Tele2 che mi giura che le sue tariffe sono le più basse e infine addio alla voce di Telecom Italia che mi chiama sospettosa (signor Selva, confessi, l'ha per caso contattata qualcun altro e sta pensando di tradirci?) e mi avverte che con i tempi che corrono è meglio non lasciare la strada vecchia per la nuova. Care voci, addio, d'ora in avanti potrete chiamare solo quell'un per cento di trentini, come Micheletti o Fontanari, che accanto al nome hanno fatto mettere anche la cornetta telefonica. Lo so che ci proverete ancora, che non mi vorrete abbandonare, ma io sarò inflessibile e vi saluterò, non offendetevi.
Il nome no, quello l'ho lasciato, e anche la via e il numero civico: chi mi cerca sa dove trovarmi, basta guardare fra gli altri 192 mila trentini inseriti nell'elenco del telefono. Avere il nome nella lista in passato mi ha fatto comodo e mi sembra un atto di civiltà, di cui non mi sono mai pentito, quello di dire agli altri membri della società: sono io, eccomi qua. Chi di noi - negli anni della scuola - non ha cercato nell'elenco il numero e l'indirizzo della bionda in prima fila per poi farsi un giro da quelle parti - così per caso - e guardare le finestre del palazzo cercando di indovinare quella giusta? Chi non ha composto, almeno una volta, quel numero per poi mettere giù se la voce era di un altro? Il numero di telefono nell'elenco c'era, c'era sempre: se non era sotto il nome del padre bastava scoprire quello della madre e il gioco era fatto.
Ora ci è consentito dire addio a quelle voci fastidiose ma c'è chi prende al volo l'occasione e ne approfitta per cancellarsi dal librone. Magari si toglie del tutto, oppure solo a metà, come quei due Tomasi R. che hanno fatto un passo indietro levando il nome, come se non fosse già abbastanza difficile trovarli fra tutti quei Renati, Remi e Roberti.
Chissà perché tanta prudenza, nella vita una volta sola uno mi ha detto "ti aspetto sotto casa", ma alla fine non è venuto. Avevamo tredici anni: caro M., se ancora non ti è passata, sai dove cercarmi.
Dicevo che per fortuna questa è l'ultima chiamata perché il giorno successivo il postino ha portato il nuovo elenco del telefono e accanto al mio nome non c'è né la piccola busta che autorizza le aziende a mandarmi la pubblicità a casa né la piccola cornetta telefonica che dà il via libera alle telefonate commerciali. Addio alle voci della Bottega dell'Arredamento di Verona, addio per sempre a quei mastini della Bofrost con i loro camioncini pieni di surgelati, a quelli dell'olio d'oliva pugliese e ai loro rivali liguri, a quelli dell'associazione mutilati che mi chiedono un'offerta e vengono anche a prendersela a domicilio, a quelli di Fastweb che vogliono convincermi a fare l'abbonamento con loro, addio anche alla telefonista di Tele2 che mi giura che le sue tariffe sono le più basse e infine addio alla voce di Telecom Italia che mi chiama sospettosa (signor Selva, confessi, l'ha per caso contattata qualcun altro e sta pensando di tradirci?) e mi avverte che con i tempi che corrono è meglio non lasciare la strada vecchia per la nuova. Care voci, addio, d'ora in avanti potrete chiamare solo quell'un per cento di trentini, come Micheletti o Fontanari, che accanto al nome hanno fatto mettere anche la cornetta telefonica. Lo so che ci proverete ancora, che non mi vorrete abbandonare, ma io sarò inflessibile e vi saluterò, non offendetevi.
Il nome no, quello l'ho lasciato, e anche la via e il numero civico: chi mi cerca sa dove trovarmi, basta guardare fra gli altri 192 mila trentini inseriti nell'elenco del telefono. Avere il nome nella lista in passato mi ha fatto comodo e mi sembra un atto di civiltà, di cui non mi sono mai pentito, quello di dire agli altri membri della società: sono io, eccomi qua. Chi di noi - negli anni della scuola - non ha cercato nell'elenco il numero e l'indirizzo della bionda in prima fila per poi farsi un giro da quelle parti - così per caso - e guardare le finestre del palazzo cercando di indovinare quella giusta? Chi non ha composto, almeno una volta, quel numero per poi mettere giù se la voce era di un altro? Il numero di telefono nell'elenco c'era, c'era sempre: se non era sotto il nome del padre bastava scoprire quello della madre e il gioco era fatto.
Ora ci è consentito dire addio a quelle voci fastidiose ma c'è chi prende al volo l'occasione e ne approfitta per cancellarsi dal librone. Magari si toglie del tutto, oppure solo a metà, come quei due Tomasi R. che hanno fatto un passo indietro levando il nome, come se non fosse già abbastanza difficile trovarli fra tutti quei Renati, Remi e Roberti.
Chissà perché tanta prudenza, nella vita una volta sola uno mi ha detto "ti aspetto sotto casa", ma alla fine non è venuto. Avevamo tredici anni: caro M., se ancora non ti è passata, sai dove cercarmi.
16 ottobre 2005
Compri casa? Cambia lingua
Da quando mi sono messo a cercare casa ho capito che il primo passo è imparare il linguaggio degli agenti immobiliari. Qui i prezzi, pur spaventosi, non c'entrano: si tratta di parlare la stessa lingua per evitare di perdere tempo, mettersi le mani addosso oppure cadere in depressione.
Prima regola, attenzione agli aggettivi: se vi offrono un'intima mansarda preparatevi a visitare un sottotetto dove riuscite a stare in piedi solo al centro delle stanze; per definire un bagno finestrato basta che ci sia una piccola fessura affacciata su un cortile; una camera può dirsi matrimoniale se ci sta un letto a una piazza e mezzo; la cucina è abitabile se ci si può fare colazione in piedi e sul pavimento resta lo spazio per la ciotola del gatto.
E veniamo alle zone: centralissimo vuole dire che è in centro storico, centro è tutta la città, vicinanze del centro può essere Gardolo o Mattarello, cinque minuti dal centro significa a Candriai (i tempi forse sono calcolati per quando ci sarà la funivia e loro vi assicurano che c'è già il progetto pronto) e infine se c'è scritto "posizione tranquilla" oppure "ideale per amanti della natura" preparatevi a tutto, anche a trovare le impronte dell'orso sul prato di casa quando uscite la mattina.
Zona servita significa che c'è la fermata dell'autobus per andare a far la spesa in una zona veramente servita. Zona residenziale vuol dire che ci si torna solo la sera per dormire, se la zona è caratteristica c'è un locale sotto casa che vi terrà svegli fino all'alba. Alcuni, infine, si preoccupano di garantirvi che in quella zona non ci sono case Itea, ma a chi danno fastidio? Magari averne una...
Ci sono - negli annunci immobiliari - quei favolosi ossimori che rendono ampi i miniappartamenti e spaziosi i monolocali. Occhio quando vi assicurano che c'è la possibilità di ricavare la seconda stanza oppure il soppalco: se fosse così semplice l'avrebbero già fatto mettendovelo in conto.
Gli appartamenti offerti dagli agenti immobiliari sono spesso signorili, alcuni sono spettacolari (in particolare le mansarde o gli attici), hanno viste favolose e finiture di pregio oppure c'è la possibilità di scegliere le finiture ma il prezzo - ve ne accorgerete - non sarà più quello di prima. Se vi dicono "pari al nuovo" vuole dire che l'appartamento è usato ma lo pagherete come se l'avessero appena costruito.
Quando sull'annuncio c'è scritto "prezzo impegnativo" credeteci. Qualcuno scrive invece "prezzo interessante" e anche in questo caso hanno ragione: per chi acquista i soldi sono spesso l'elemento più importante. Chissà perché talvolta gli agenti immobiliari sottolineano che la casa è "da vedere", ci mancherebbe che prima di comprarla non andassimo a darci un'occhiata... Attenzione inoltre a chi vi assicura che un appartamento è "ideale scopo investimento": significa che ci abita un inquilino con un contratto per i prossimi dieci anni. L'eventuale garage (ovviamente da pagare a parte) spesso è una presa in giro perché l'unica alternativa è lasciare la macchina nella piazza del paese e farsi un chilometro a piedi.
E ancora: la trattativa è riservata quando hanno paura che un altro agente si finga compratore per subentrare nell'affare. Fateci caso: dopo qualche settimana di lettura degli annunci immobiliari saprete riconoscere lo stesso appartamento che spunta dalle righe pubblicitarie di varie agenzie. Se lo stesso immobile ve lo propongono dopo sei mesi vuole dire che c'è qualcosa sotto. Per gli appartamenti più costosi scrivono "info solo in ufficio": vogliono guardarvi in faccia, vedere che auto guidate e che marca di vestiti indossate, prima di imbarcarsi in una trattativa. Ma l'appartamento dei miei sogni, quello che ancora non ho smesso di cercare con gli occhi quando giro la città e vedo le piante spuntare dalle terrazze sui tetti, la casa che io voglio (vorrei) è quella di cui gli agenti immobiliari non danno informazioni nemmeno in ufficio. Quando un appartamento così arriva sul mercato c'è già qualcuno che l'ha comprato, senza il bisogno di andare in banca e fare le pratiche del mutuo.
Prima regola, attenzione agli aggettivi: se vi offrono un'intima mansarda preparatevi a visitare un sottotetto dove riuscite a stare in piedi solo al centro delle stanze; per definire un bagno finestrato basta che ci sia una piccola fessura affacciata su un cortile; una camera può dirsi matrimoniale se ci sta un letto a una piazza e mezzo; la cucina è abitabile se ci si può fare colazione in piedi e sul pavimento resta lo spazio per la ciotola del gatto.
E veniamo alle zone: centralissimo vuole dire che è in centro storico, centro è tutta la città, vicinanze del centro può essere Gardolo o Mattarello, cinque minuti dal centro significa a Candriai (i tempi forse sono calcolati per quando ci sarà la funivia e loro vi assicurano che c'è già il progetto pronto) e infine se c'è scritto "posizione tranquilla" oppure "ideale per amanti della natura" preparatevi a tutto, anche a trovare le impronte dell'orso sul prato di casa quando uscite la mattina.
Zona servita significa che c'è la fermata dell'autobus per andare a far la spesa in una zona veramente servita. Zona residenziale vuol dire che ci si torna solo la sera per dormire, se la zona è caratteristica c'è un locale sotto casa che vi terrà svegli fino all'alba. Alcuni, infine, si preoccupano di garantirvi che in quella zona non ci sono case Itea, ma a chi danno fastidio? Magari averne una...
Ci sono - negli annunci immobiliari - quei favolosi ossimori che rendono ampi i miniappartamenti e spaziosi i monolocali. Occhio quando vi assicurano che c'è la possibilità di ricavare la seconda stanza oppure il soppalco: se fosse così semplice l'avrebbero già fatto mettendovelo in conto.
Gli appartamenti offerti dagli agenti immobiliari sono spesso signorili, alcuni sono spettacolari (in particolare le mansarde o gli attici), hanno viste favolose e finiture di pregio oppure c'è la possibilità di scegliere le finiture ma il prezzo - ve ne accorgerete - non sarà più quello di prima. Se vi dicono "pari al nuovo" vuole dire che l'appartamento è usato ma lo pagherete come se l'avessero appena costruito.
Quando sull'annuncio c'è scritto "prezzo impegnativo" credeteci. Qualcuno scrive invece "prezzo interessante" e anche in questo caso hanno ragione: per chi acquista i soldi sono spesso l'elemento più importante. Chissà perché talvolta gli agenti immobiliari sottolineano che la casa è "da vedere", ci mancherebbe che prima di comprarla non andassimo a darci un'occhiata... Attenzione inoltre a chi vi assicura che un appartamento è "ideale scopo investimento": significa che ci abita un inquilino con un contratto per i prossimi dieci anni. L'eventuale garage (ovviamente da pagare a parte) spesso è una presa in giro perché l'unica alternativa è lasciare la macchina nella piazza del paese e farsi un chilometro a piedi.
E ancora: la trattativa è riservata quando hanno paura che un altro agente si finga compratore per subentrare nell'affare. Fateci caso: dopo qualche settimana di lettura degli annunci immobiliari saprete riconoscere lo stesso appartamento che spunta dalle righe pubblicitarie di varie agenzie. Se lo stesso immobile ve lo propongono dopo sei mesi vuole dire che c'è qualcosa sotto. Per gli appartamenti più costosi scrivono "info solo in ufficio": vogliono guardarvi in faccia, vedere che auto guidate e che marca di vestiti indossate, prima di imbarcarsi in una trattativa. Ma l'appartamento dei miei sogni, quello che ancora non ho smesso di cercare con gli occhi quando giro la città e vedo le piante spuntare dalle terrazze sui tetti, la casa che io voglio (vorrei) è quella di cui gli agenti immobiliari non danno informazioni nemmeno in ufficio. Quando un appartamento così arriva sul mercato c'è già qualcuno che l'ha comprato, senza il bisogno di andare in banca e fare le pratiche del mutuo.
09 ottobre 2005
Nella giungla delle offerte
Cari signori Poli, Sait, Orvea, Superstore e via dicendo, i casi sono due: o vi sta fregando il postino, oppure vi state fregando da soli. Capita, infatti, di ritrovarsi con la casella della posta piena delle vostre offerte, riunite tutte assieme in un mazzo di carta colorata che strilla più della sala delle grida nella borsa di Wall Street. Se volete conquistare il consumatore, voi soli, in esclusiva, dovete studiare un altro piano.
Dice quel Ferrante del sindacato che in Trentino non c'è concorrenza fra i supermercati alimentari, chissà se lui riceve i vostri bollettini periodici. Noi sì, e quando accade li portiamo tutti in casa per distenderli sul grande tavolo della cucina come un generale farebbe con le carte geografiche prima della battaglia. Poi prendiamo il pennarello rosso e - zac - evidenziamo il caffè crema e gusto a 5 euro al chilo, poi i tortellini Rana (zac) a un euro e ottanta, l'olio d'oliva del Garda a 6 euro, la cioccolata lillà a 0,70 e i Pampers midi scontati del 30 per cento che se il bambino cresce troppo in fretta e non vanno più bene troviamo subito qualcuno a cui girarli (zac, zac, zac). L'acqua frizzante Pejo invece no, ne abbiamo già un paio di ettolitri su in soffitta e fino all'estate prossima dovremmo essere a posto: l'abbiamo comprata in luglio a 0,27 la bottiglia, un vero affare di cui ci vantiamo il sabato sera con gli amici.
Caro assessore, l'osservatorio dei prezzi, quello vero, è fuori del palazzo, ad esempio sul tavolo della nostra cucina. E caro sindacato, che vorresti convincerci a fare la spesa a Verona per protesta, con i soldi della benzina facciamo il pieno alla Punto e giriamo la città dieci volte a caccia di offerte. Non siamo mica gli unici, basta guardare gli scaffali vuoti dove c'è il cartellino rosso dello sconto, oppure quegli spazi nei frigoriferi dove c'erano i piselli in offerta speciale. Li chiamano prezzi civetta perché sperano che il cliente, accecato dalla convenienza di un prodotto, riempia il carrello anche del resto. Fateci caso, la merce che vi serve veramente, quella di cui non potete fare a meno come lo zucchero, il sale, la farina, quella la nascondono nell'angolo più remoto del supermercato, in quelle confezioni bianche o grigie che per trovarle dovete chiedere aiuto o fare due volte il giro del negozio e poi vi tocca mettervi pancia a terra per riuscire a prendere un barattolo o una scatola. I biscotti del Mulino Bianco invece no, eccoli lì proprio all'altezza degli occhi, con l'offerta in bella vista sotto le confezioni colorate.
Bando alle tentazioni, noi ormai compriamo solo le offerte: se la carne è cara si mangia pesce, se la pasta De Cecco è a prezzi da saldo andiamo avanti a fusilli per un mese. Per avere lo sconto, però, vi chiedono la tessera, quella magnetica con cui registrano tutto ciò che fate: giorno, ora, tipo di prodotti acquistati, totale dei soldi spesi. Se siete alcolizzati e ogni due giorni fate il pieno di liquori il direttore del supermercato lo scoprirà prima dei vostri parenti e del vostro medico. Noi quelle tessere, è ovvio, le abbiamo tutte: duplicard, carta cooperazione, tessera fedeltà, abbiamo persino la tessera del caffè così il decimo lo beviamo gratis, quella della libreria e della pizza al taglio, tutte intestate alla nonna novantenne che sui computer dei signori Poli, Sait eccetera, risulterà - mistero - la consumatrice più consumante del Trentino.
Tutto questo fino all'altro giorno, quando sono uscito di casa e dall'altra parte della strada ho visto il ragazzo del panificio che mi ha fatto un cenno di saluto. Stava lì, sulla porta del negozio, senza lavoro, con il berretto bianco in testa e le mani affondate sotto il grembiule nelle tasche dei pantaloni. Mi ha guardato serio, con uno sguardo indagatore e ha chiesto. "Allora, finite le ferie?". Ho allargato le braccia imbarazzato, facendo segno che purtroppo erano finite già da un pezzo. "Bon, allora ti metto via il pane la mattina" ha detto, con il tono di chi non vuol sentire repliche. L'ho salutato con un gesto, ci vediamo domani, e sono corso in casa salendo i gradini a quattro, pensando a tutte le volte che quel negozietto sotto casa ci aveva salvato per una cena organizzata all'ultimo minuto, alle colazioni con le brioches fresche la mattina, al sacchetto di pane riservato. "Basta con i supermercati" ho detto a mia moglie che stava studiando le carte per la battaglia quotidiana delle offerte. "Finite le scorte si torna alla vecchia, vedrai che alla fine consumeremo anche un po' meno...". Stavo ancora finendo la frase quando lei ha preso tutta quella carta e l'ha gettata nella stufa. Mi pareva che sorridesse quando ha detto piano: "Finalmente".
Dice quel Ferrante del sindacato che in Trentino non c'è concorrenza fra i supermercati alimentari, chissà se lui riceve i vostri bollettini periodici. Noi sì, e quando accade li portiamo tutti in casa per distenderli sul grande tavolo della cucina come un generale farebbe con le carte geografiche prima della battaglia. Poi prendiamo il pennarello rosso e - zac - evidenziamo il caffè crema e gusto a 5 euro al chilo, poi i tortellini Rana (zac) a un euro e ottanta, l'olio d'oliva del Garda a 6 euro, la cioccolata lillà a 0,70 e i Pampers midi scontati del 30 per cento che se il bambino cresce troppo in fretta e non vanno più bene troviamo subito qualcuno a cui girarli (zac, zac, zac). L'acqua frizzante Pejo invece no, ne abbiamo già un paio di ettolitri su in soffitta e fino all'estate prossima dovremmo essere a posto: l'abbiamo comprata in luglio a 0,27 la bottiglia, un vero affare di cui ci vantiamo il sabato sera con gli amici.
Caro assessore, l'osservatorio dei prezzi, quello vero, è fuori del palazzo, ad esempio sul tavolo della nostra cucina. E caro sindacato, che vorresti convincerci a fare la spesa a Verona per protesta, con i soldi della benzina facciamo il pieno alla Punto e giriamo la città dieci volte a caccia di offerte. Non siamo mica gli unici, basta guardare gli scaffali vuoti dove c'è il cartellino rosso dello sconto, oppure quegli spazi nei frigoriferi dove c'erano i piselli in offerta speciale. Li chiamano prezzi civetta perché sperano che il cliente, accecato dalla convenienza di un prodotto, riempia il carrello anche del resto. Fateci caso, la merce che vi serve veramente, quella di cui non potete fare a meno come lo zucchero, il sale, la farina, quella la nascondono nell'angolo più remoto del supermercato, in quelle confezioni bianche o grigie che per trovarle dovete chiedere aiuto o fare due volte il giro del negozio e poi vi tocca mettervi pancia a terra per riuscire a prendere un barattolo o una scatola. I biscotti del Mulino Bianco invece no, eccoli lì proprio all'altezza degli occhi, con l'offerta in bella vista sotto le confezioni colorate.
Bando alle tentazioni, noi ormai compriamo solo le offerte: se la carne è cara si mangia pesce, se la pasta De Cecco è a prezzi da saldo andiamo avanti a fusilli per un mese. Per avere lo sconto, però, vi chiedono la tessera, quella magnetica con cui registrano tutto ciò che fate: giorno, ora, tipo di prodotti acquistati, totale dei soldi spesi. Se siete alcolizzati e ogni due giorni fate il pieno di liquori il direttore del supermercato lo scoprirà prima dei vostri parenti e del vostro medico. Noi quelle tessere, è ovvio, le abbiamo tutte: duplicard, carta cooperazione, tessera fedeltà, abbiamo persino la tessera del caffè così il decimo lo beviamo gratis, quella della libreria e della pizza al taglio, tutte intestate alla nonna novantenne che sui computer dei signori Poli, Sait eccetera, risulterà - mistero - la consumatrice più consumante del Trentino.
Tutto questo fino all'altro giorno, quando sono uscito di casa e dall'altra parte della strada ho visto il ragazzo del panificio che mi ha fatto un cenno di saluto. Stava lì, sulla porta del negozio, senza lavoro, con il berretto bianco in testa e le mani affondate sotto il grembiule nelle tasche dei pantaloni. Mi ha guardato serio, con uno sguardo indagatore e ha chiesto. "Allora, finite le ferie?". Ho allargato le braccia imbarazzato, facendo segno che purtroppo erano finite già da un pezzo. "Bon, allora ti metto via il pane la mattina" ha detto, con il tono di chi non vuol sentire repliche. L'ho salutato con un gesto, ci vediamo domani, e sono corso in casa salendo i gradini a quattro, pensando a tutte le volte che quel negozietto sotto casa ci aveva salvato per una cena organizzata all'ultimo minuto, alle colazioni con le brioches fresche la mattina, al sacchetto di pane riservato. "Basta con i supermercati" ho detto a mia moglie che stava studiando le carte per la battaglia quotidiana delle offerte. "Finite le scorte si torna alla vecchia, vedrai che alla fine consumeremo anche un po' meno...". Stavo ancora finendo la frase quando lei ha preso tutta quella carta e l'ha gettata nella stufa. Mi pareva che sorridesse quando ha detto piano: "Finalmente".
25 settembre 2005
Non riesco a dire "no"
Sul mio comodino ci sono tre libri che ancora non ho letto e prendono la polvere in attesa che qualcuno si occupi di loro. Si intitolano "Luna Park Rwanda", "Leggende dell'Africa" e "Leggende dell'Africa" (esatto, due sono uguali). Me li ha venduti un marocchino (dico così, mi scuserà, anche se è nero e viene dal Senegal) che di tanto in tanto mi attende in via Oss Mazzurana. Mi vede con un fascio di giornali sotto il braccio e fa di me la sua preda preferita. E' tardi, ormai, quando mi accorgo di lui e cerco di allungare il passo per tuffarmi in una via laterale e darmela a gambe. E' tardi, perché lui previene ogni mia mossa, mi abbaglia con un sorriso bianco che gli si allarga nel volto scuro, mi chiude il cammino rapido come un ghepardo quindi mi prende sotto braccio e dice: "Ciao amico, come va?". Disperato raccolgo le forze e cerco di tirare dritto ma con la coda dell'occhio, incuriosito, sbircio i libri che tiene fra le mani, lui se ne accorge e affonda il colpo: "Belli eh? Comprane uno, amico, cinque euro, un vero affare". Provo a spiegargli che libri come quelli li ho già comprati, ma lui non si arrende: "Questo è nuovo amico, di sicuro non ce l'hai". Mi mette in mano uno di quei libri colorati, io lo prendo (errore) e lui si rilassa perché sa che ha vinto. L'ho salutato l'altro giorno con cinque euro in meno nel portafoglio e un altro dei suoi libri. Sul comodino, nella pila dei "non letti", fanno quattro.
Sarà perché non so dire "no" che guardo con un misto di rabbia e invidia quelli che si fanno largo in centro storico avanzando tra la folla dei questuanti come in una giungla col machete. Rabbia perché non è questo il mondo che vorrei, invidia perché bisognerebbe, di tanto in tanto, trovare il coraggio di rifiutare senza comunque abbassare gli occhi, scartare di lato, cambiare strada o tentare la fuga vergognandosi di avere uno stipendio fisso a fine mese.
Quel "no" - così difficile da opporre a chi ha la miseria disegnata sul volto - viene spontaneo per quelli che ti chiedono la firma per la lotta all'aids o contro la fame nel mondo, sapendo che la loro attività si basa su uno sporco trucco: dopo aver scritto di tuo pugno nome e cognome su quel foglio, dopo aver appoggiato la loro causa con tutto te stesso (non è forse il tuo l'ultimo nome della lista?) come puoi rifiutare quei pochi euro che ti chiedono per sostenere la loro attività? E' lo stesso trucco che usano i mendicanti quando ti mettono in mano un oggettino, un fiore o un foglietto con una poesia dicendoti: "E' un regalo" e poi invocano l'elemosina sfruttando il principio della riconoscenza che è naturale negli esseri umani.
Ce ne sono molti in città, come sa bene chi frequenta le strade, fuori dai palazzi, ma i senegalesi sono una categoria a parte: niente trucchi, niente inganni, ciao amico, prendi una collana, un braccialetto e se non vuoi niente dammi almeno i soldi per mangiare. Quelli che vendono gli ombrelli sotto i portici di piazza Duomo sono la categoria più misteriosa. Compaiono tempestivi mentre scendono le prime gocce di pioggia, se li assumessero a Meteotrentino la qualità delle previsioni avrebbe un'impennata, ma la domanda è questa: dove si nascondono, con i loro ombrelli, quando splende il sole? Il prezzo è onesto: cinque euro quelli piccoli, il doppio quelli grandi eppure c'è chi si ferma a contrattare, penso solo per il gusto di far vedere chi è il più forte in una sfida ad armi impari. Ce n'è stato uno - l'ho visto di persona - che si è portato via un ombrello grande per otto euro dopo una trattativa di dieci minuti. Così l'altro giorno, quando pioveva a dirotto e per rientrare a casa asciutto ho deciso di diventare cliente dei senegalesi, mi sono avvicinato fiducioso, stringendo in tasca una banconota da dieci euro, deciso ad arrivare ad otto: "Se ce l'ha fatta quello posso riuscirci anch'io" pensavo. Quando mi hanno visto col cappuccio in testa e le spalle bagnate mi hanno allungato veloci i loro ombrelli, grandi e piccoli. "Questo qui" ho detto, indicandone uno grande a quadrati scozzesi. "Quanto fa?". "Dodici euro". "Ma come - ho protestato - fino all'altro giorno erano dieci...". Lui mi ha guardato e ha allargato il suo sorriso bianco: "Sì, amico, ma non vedi oggi come piove?". Non faceva una grinza, ho guardato la piazza bagnata, ho tirato fuori i soldi e sono corso via sconfitto.
Sarà perché non so dire "no" che guardo con un misto di rabbia e invidia quelli che si fanno largo in centro storico avanzando tra la folla dei questuanti come in una giungla col machete. Rabbia perché non è questo il mondo che vorrei, invidia perché bisognerebbe, di tanto in tanto, trovare il coraggio di rifiutare senza comunque abbassare gli occhi, scartare di lato, cambiare strada o tentare la fuga vergognandosi di avere uno stipendio fisso a fine mese.
Quel "no" - così difficile da opporre a chi ha la miseria disegnata sul volto - viene spontaneo per quelli che ti chiedono la firma per la lotta all'aids o contro la fame nel mondo, sapendo che la loro attività si basa su uno sporco trucco: dopo aver scritto di tuo pugno nome e cognome su quel foglio, dopo aver appoggiato la loro causa con tutto te stesso (non è forse il tuo l'ultimo nome della lista?) come puoi rifiutare quei pochi euro che ti chiedono per sostenere la loro attività? E' lo stesso trucco che usano i mendicanti quando ti mettono in mano un oggettino, un fiore o un foglietto con una poesia dicendoti: "E' un regalo" e poi invocano l'elemosina sfruttando il principio della riconoscenza che è naturale negli esseri umani.
Ce ne sono molti in città, come sa bene chi frequenta le strade, fuori dai palazzi, ma i senegalesi sono una categoria a parte: niente trucchi, niente inganni, ciao amico, prendi una collana, un braccialetto e se non vuoi niente dammi almeno i soldi per mangiare. Quelli che vendono gli ombrelli sotto i portici di piazza Duomo sono la categoria più misteriosa. Compaiono tempestivi mentre scendono le prime gocce di pioggia, se li assumessero a Meteotrentino la qualità delle previsioni avrebbe un'impennata, ma la domanda è questa: dove si nascondono, con i loro ombrelli, quando splende il sole? Il prezzo è onesto: cinque euro quelli piccoli, il doppio quelli grandi eppure c'è chi si ferma a contrattare, penso solo per il gusto di far vedere chi è il più forte in una sfida ad armi impari. Ce n'è stato uno - l'ho visto di persona - che si è portato via un ombrello grande per otto euro dopo una trattativa di dieci minuti. Così l'altro giorno, quando pioveva a dirotto e per rientrare a casa asciutto ho deciso di diventare cliente dei senegalesi, mi sono avvicinato fiducioso, stringendo in tasca una banconota da dieci euro, deciso ad arrivare ad otto: "Se ce l'ha fatta quello posso riuscirci anch'io" pensavo. Quando mi hanno visto col cappuccio in testa e le spalle bagnate mi hanno allungato veloci i loro ombrelli, grandi e piccoli. "Questo qui" ho detto, indicandone uno grande a quadrati scozzesi. "Quanto fa?". "Dodici euro". "Ma come - ho protestato - fino all'altro giorno erano dieci...". Lui mi ha guardato e ha allargato il suo sorriso bianco: "Sì, amico, ma non vedi oggi come piove?". Non faceva una grinza, ho guardato la piazza bagnata, ho tirato fuori i soldi e sono corso via sconfitto.
18 settembre 2005
L'uomo delle foglie
Ci sono giorni in cui ringrazio di non essere un cacciatore e di non avere, quindi, un fucile chiuso nell'armadio, perché so che sarebbe forte la tentazione di afferrarlo, caricarlo a palla, spalancare la finestra, prendere la mira e fare fuoco. Quei giorni cominciano sempre di buon mattino, quando dalla finestra aperta arriva un ronzio lontano e intermittente, peggio di mille mosche, che si insinua in casa senza tregua facendosi largo nel sonno dell'alba. Allora apro un occhio, guardo il cielo che comincia a farsi luminoso, poi l'orologio, sono le sei, e so che è arrivato lui: l'uomo delle foglie.
Mi coglie sempre di sorpresa, tanto che ogni volta mi domando ingenuo: ma cos'è questo rumore? Prima lontano, che per sentirlo quasi mi devo concentrare, poi più vicino tanto che penso "è già qui sotto" e invece è ancora sull'altro lato della piazza che sbuffa col suo soffione meccanico - un tubo in mano e il motore appeso sulla schiena - per scacciare le foglie secche dagli angoli nascosti, da sotto le auto in sosta e farne un mucchio al centro della strada.
Bzzz Bzzz Bzzz Se avessi quel fucile... ma sono un obiettore, rifiuto le armi e così mi giro nel letto senza difesa da quello sciame d'api che mi investe a più riprese. Poi per un attimo torna il silenzio, e quasi mi illudo, ottimista, che la bufera sia passata, ma ho imparato che non dura. L'uomo ha scoperto un giacimento di larghe foglie di ippocastano dietro la cabina telefonica, va e le cattura soddisfatto. Bzzz Bzzz Bzzz
Mi immagino i suoi colleghi di una volta, quelli con la ramazza e il carrettino che si aggiravano indulgenti per le strade fumando sigarette, senza preoccuparsi se qualche foglia restava a marcire sull'asfalto. Lui no, al mio torturatore non sfugge nemmeno un germoglio, un pezzettino di corteccia, un mozzicone di sigaretta: li individua e - bzzz - li spedisce lì nel mucchio. Poi arriva il suo collega, quello col grosso camion che spazza l'asfalto e aspira l'immondizia: rumore sordo del motore e fruscio di spazzole sul terreno, quindi parte l'aspiratore. Ormai so tutto e mi immagino la scena steso a letto, se la Trentino Servizi volesse assumermi potrei cominciare anche domani.
Passa il camion ma il calvario - Bzzz - continua e mi raggiunge raddoppiato dalla radiolina di mio figlio - Bzzz - che nella sua - Bzzz - cameretta dorme ignaro. Allora accade una cosa nuova e di cui un po' mi vergogno: prendo la macchina fotografica, che poi è il mio fucile, infilo i pantaloni e scendo in strada dove ci siamo solo io e lui, pronti al duello. Mi siedo su una panchina e punto l'obiettivo tra le nuvole di polvere. Guerriglia fredda, scena di violenza urbana. Lui, volto coperto, vede la luce dell'autofocus che si accende, alza il canone al cielo come per arrendersi ma continua a soffiar foglie.
No amico, non ce l'ho con te ma col motore che porti sulle spalle, con quei rumori che ormai conosco a memoria eppure ogni volta mi sorprendono nel sonno. Il più temibile è l'uomo del vetro: arriva silenzioso e prepara l'attacco indisturbato. Aggancia la campana blu e la solleva sopra il suo camion mentre noi dormiamo inconsapevoli poi d'un tratto preme un bottone, sgancia il carico di frantumi nel cassone e - crash - fugge via lasciando noi cittadini sotto shock. Oppure ci sono quelli dei cinquantini smarmittati che arrivano veloci (scoppiettìo di motore in rilascio), affrontano la curva dopo la staccata (quiete prima della tempesta) e poi fuggono spalancando l'acceleratore (colonna sonora da rettilineo di Misano). C'è infine la serranda della trattoria, quella di ferraccio arrugginito che si abbassa ben dopo mezzanotte nel silenzio rotto talvolta dai lamenti degli ubriachi: la attendo fiducioso - vraaaaan - e so che è ora di andare a letto. In centro c'è chi non sopporta le campane del Duomo, puntuali ogni domenica mattina; c'è chi odia i pub coi tavoli all'aperto o i vicini che fanno i contadini con il tosaerba prima di andare in ufficio. A ognuno il suo, a me è toccato l'uomo delle foglie.
Caro uomo delle foglie, sono io quello che l'altra mattina ti ha puntato contro la macchina fotografica alle sei del mattino e ora - se non te l'eri immaginato - sai il perché.
Mi coglie sempre di sorpresa, tanto che ogni volta mi domando ingenuo: ma cos'è questo rumore? Prima lontano, che per sentirlo quasi mi devo concentrare, poi più vicino tanto che penso "è già qui sotto" e invece è ancora sull'altro lato della piazza che sbuffa col suo soffione meccanico - un tubo in mano e il motore appeso sulla schiena - per scacciare le foglie secche dagli angoli nascosti, da sotto le auto in sosta e farne un mucchio al centro della strada.
Bzzz Bzzz Bzzz Se avessi quel fucile... ma sono un obiettore, rifiuto le armi e così mi giro nel letto senza difesa da quello sciame d'api che mi investe a più riprese. Poi per un attimo torna il silenzio, e quasi mi illudo, ottimista, che la bufera sia passata, ma ho imparato che non dura. L'uomo ha scoperto un giacimento di larghe foglie di ippocastano dietro la cabina telefonica, va e le cattura soddisfatto. Bzzz Bzzz Bzzz
Mi immagino i suoi colleghi di una volta, quelli con la ramazza e il carrettino che si aggiravano indulgenti per le strade fumando sigarette, senza preoccuparsi se qualche foglia restava a marcire sull'asfalto. Lui no, al mio torturatore non sfugge nemmeno un germoglio, un pezzettino di corteccia, un mozzicone di sigaretta: li individua e - bzzz - li spedisce lì nel mucchio. Poi arriva il suo collega, quello col grosso camion che spazza l'asfalto e aspira l'immondizia: rumore sordo del motore e fruscio di spazzole sul terreno, quindi parte l'aspiratore. Ormai so tutto e mi immagino la scena steso a letto, se la Trentino Servizi volesse assumermi potrei cominciare anche domani.
Passa il camion ma il calvario - Bzzz - continua e mi raggiunge raddoppiato dalla radiolina di mio figlio - Bzzz - che nella sua - Bzzz - cameretta dorme ignaro. Allora accade una cosa nuova e di cui un po' mi vergogno: prendo la macchina fotografica, che poi è il mio fucile, infilo i pantaloni e scendo in strada dove ci siamo solo io e lui, pronti al duello. Mi siedo su una panchina e punto l'obiettivo tra le nuvole di polvere. Guerriglia fredda, scena di violenza urbana. Lui, volto coperto, vede la luce dell'autofocus che si accende, alza il canone al cielo come per arrendersi ma continua a soffiar foglie.
No amico, non ce l'ho con te ma col motore che porti sulle spalle, con quei rumori che ormai conosco a memoria eppure ogni volta mi sorprendono nel sonno. Il più temibile è l'uomo del vetro: arriva silenzioso e prepara l'attacco indisturbato. Aggancia la campana blu e la solleva sopra il suo camion mentre noi dormiamo inconsapevoli poi d'un tratto preme un bottone, sgancia il carico di frantumi nel cassone e - crash - fugge via lasciando noi cittadini sotto shock. Oppure ci sono quelli dei cinquantini smarmittati che arrivano veloci (scoppiettìo di motore in rilascio), affrontano la curva dopo la staccata (quiete prima della tempesta) e poi fuggono spalancando l'acceleratore (colonna sonora da rettilineo di Misano). C'è infine la serranda della trattoria, quella di ferraccio arrugginito che si abbassa ben dopo mezzanotte nel silenzio rotto talvolta dai lamenti degli ubriachi: la attendo fiducioso - vraaaaan - e so che è ora di andare a letto. In centro c'è chi non sopporta le campane del Duomo, puntuali ogni domenica mattina; c'è chi odia i pub coi tavoli all'aperto o i vicini che fanno i contadini con il tosaerba prima di andare in ufficio. A ognuno il suo, a me è toccato l'uomo delle foglie.
Caro uomo delle foglie, sono io quello che l'altra mattina ti ha puntato contro la macchina fotografica alle sei del mattino e ora - se non te l'eri immaginato - sai il perché.
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