30 maggio 2008

Un libro che va a ruba

la storia degli alpiniQuesto è un post molto sofferto. Volevo vantarmi di aver scritto un libro, ma essendo un libro fotografico la parola scrivere mi sembrava fuori luogo. Allora ho pensato di vantarmi delle fotografie, ma poiché non sono mie, ma immagini storiche scattate nei primi anni Quaranta, quando non erano nati nemmeno i miei genitori (figuriamoci io) ho dovuto lasciar perdere. Un vanto però ce l'ho ugualmente: quello di aver raccolto centinaia di immagini - assieme al mio amico Filippo Degasperi - di aver cercato (e trovato) tre alpini ormai ultra novantenni che potessero raccontare questa storia e di aver fermato le loro parole su carta prima che sia troppo tardi.
Ma perché raccontare sessant'anni dopo la storia degli alpini che durante la seconda guerra mondiale costruirono la strada del Doss Trento per ordine del Duce? Per Filippo Degasperi la risposta è semplice: uno di quegli alpini era suo nonno. Per quanto riguarda me, mettiamola così: Filippo Degasperi è mio amico ed è stato un piacere fare qualcosa assieme. Non solo: quei tornanti scavati nella roccia li vedo dalle finestre di casa e mi è sembrato interessante far sapere che chi li ha realizzati - battendo la pietra a mano con martello e scalpello - si è salvato la vita mentre migliaia di soldati morivano al fronte.
Sarà meglio farla breve. Un'anteprima del libro la potete trovare su queste pagine del mio giornale (prima, seconda). Il libro lo potete trovare nelle principali librerie della città oppure qui. Non chiedetemene copie perché me ne hanno consegnate solo cinque: due le ho qui con me, una l'ho dovuta regalare, la terza e la quarta le ho portate in redazione ma qualcuno se l'è fregate perché, signore e signori, questo è un libro che va ruba.

Anche questa è fatta, vado in vacanza.

Nulla da dichiarare?

Invidio molto quelli che sanno compilare, da soli, la dichiarazione dei redditi o che almeno si rendono conto di cosa accade quando con una busta piena di carte si recano al Caf, o dal commercialista, per affidarsi a loro. Io, purtroppo, non ci capisco nulla. Viziato da anni di sollecitudine paterna, in cui lasciavo volentieri a mio padre l’onere di tracciare numeri, calcoli e crocette sommerso da cumuli di carte sul tavolo del soggiorno, viziato da anni successivi in cui a tutto questo pensa l’amico D. anche stavolta sono stato relegato al ruolo di fattorino: corro di qua e di là a recuperare carte indispensabili che, puntualmente, o non ho mai avuto o non riesco più a trovare.
Conosco lo sguardo dell’esperto (o anche solo della persona accorta) che mi compatisce perché non so più dove sono le fatture del dentista, gli scontrini delle medicine o i tagliandi delle polizze assicurative. Il fatto è che so benissimo quanto ho pagato - all’epoca - ma non ho la minima idea di quanto mi possano far risparmiare questi documenti nel momento in cui li presento al Fisco. Per questo li perdo sotto strati di carte, salvo trovarli l’anno successivo, quando non servono più a nulla.
Quest’anno, per capire almeno di che cosa si sta parlando, sono andato dritto alla fonte: mi sono collegato al sito internet dell’Agenzia delle entrate e in meno di un minuto mi sono scaricato l’annuario del contribuente, un tomo di 193 pagine scritte larghe. Con questo - ero sicuro - avrei scoperto tutto. Dovevo imparare ad esempio che cosa vuol dire esattamente scaricare un figlio, visto che mi è sempre rimasto il dubbio - tra me e mia moglie - di averlo scaricato solo per metà, o forse tutto o addirittura due volte, cosa che se fosse vera - ho letto - mi potrebbe provocare guai con la giustizia. Con l’annuario in mano mi sono rassicurato, tutto in regola, ma ho scoperto anche altre cose interessanti che mi saranno di aiuto per capire quanto realmente mi frutterà il figliolo nella busta paga di luglio dopo averlo “detratto” e non “scaricato”: «Per determinare la detrazione effettiva è necessario moltiplicare la detrazione teorica per il coefficiente (assunto nelle prime quattro cifre decimali e arrotondato con il sistema del troncamento) che si ottiene dal rapporto tra 95.000, diminuito del reddito complessivo (al netto dell’abitazione principale e delle sue pertinenze) e 95.000. Se il risultato del rapporto è inferiore o pari a zero, oppure uguale a uno, le detrazioni non spettano». Ottimo.
Ora che mi sto facendo una cultura so qual’è la differenza tra una deduzione e una detrazione, ma mi hanno spiegato di non illudermi perché ciò che quest’anno si detrae l’anno prossimo probabilmente bisognerà dedurlo. La deduzione conviene a chi guadagna molto, la detrazione a chi guadagna poco. Ma non lo metterei per scritto.
Le spese per il veterinario, per esempio, quest’anno si detraggono: «I contribuenti possono detrarre dall’Irpef il 19% delle spese veterinarie fino all’importo di 387,34 euro e limitatamente alla somma che eccede i 129,11 euro: la detrazione spetta per le spese mediche sostenute per gli animali detenuti legalmente a scopo di compagnia o per la pratica sportiva». Questa almeno l’ho capita, tante parole per dire 50 euro al massimo. Peccato non avere un cane.
Ho ancora dieci giorni per correre in banca a farmi stampare il foglio con gli interessi del mutuo, raccoglierò gli scontrini sparsi per la casa e a luglio troverò in busta paga una cifra “x” che - per quanto alta o bassa - non sarò mai in grado di contestare. Allora dirò semplicemente: però!
Uno studio americano che mi hanno insegnato all’università afferma che si pagano le tasse più volentieri (sic!) quando non sono troppo elevate, quando sono ben utilizzate e quando si capisce bene il modo in cui sono calcolate. Per quanto riguarda il punto tre ringrazio l’Agenzia delle entrate perché grazie al suo annuario so quanto vale avere un figlio in casa. Forse.

26 maggio 2008

Sono morto già tre volte

tombaCaro Giuseppe Debiasi, proprio tu che ti sei finto morto perché non ti consideravano abbastanza, giocandoti l'asso nella manica, l'ultimo, per catturare un po' d'attenzione: sapessi quante volte sono morto io! Ho cominciato da bambino a immaginare il mio funerale come punizione estrema per tutti quelli - erano molti - che non comprendevano la mia grandezza, i miei bisogni e il dolore di vivere incompreso.
Per avere una bicicletta nuova non bastava mettere il muso per due giorni, non bastava nascondersi nel bosco e fingersi disperso contando i minuti (o le ore?) che ci mettevano prima di correre a cercarmi. Di più, di più, per far pentire mamma e papà dell'affronto subito negandomi il regalo bisognava fare di più. Bisognava, ad esempio, morire. Solo allora, di fronte alla mia piccola bara bianca, tutti i miei detrattori (compresa la maestra) si sarebbero pentiti di non aver assecondato un genio: se solo mi avessero comprato quella bicicletta.
Così, caro pittore, con la mia fantasia immatura, scoprivo il potente antidoto alle frustrazioni, grandi e piccole, che è immaginare il proprio funerale con gli occhi del mondo, per una volta, su di noi.
Metterlo in pratica mai. Me ne mancavano i mezzi e soprattutto il coraggio, ma confesso che ho organizzato altre volte le mie esequie, come quando ho sbagliato il gol della vittoria e mi son chiesto: si placherà l'ira della squadra davanti alla mia bara, ormai non più bianca ma fatta di solido rovere? Si sarebbe placata senza dubbio - cos'è un gol di fronte alla morte? - ma sarebbe stato un peccato dire addio al mondo con una tal vergogna in fondo a un così breve curriculum. Così sono sopravvissuto con la promessa - mantenuta - che non avrei mai più giocato a calcio né guardato le partite alla televisione. E so benissimo che per molti questo equivale alla morte, ma io rispondo: non è vero.
La terza volta che son morto fu per colpa della mia ex ragazza che, lasciandomi, dimostrò di non aver capito nulla. Niente di meglio che un solenne funerale - bara in legno di noce, fiori bianchi, tre preti dietro l'altare e coro parrocchiale - per convincerla dell'errore. Ma ascoltando quella canzone di Niccolò Fabi, quella in cui lei si presenta al funerale di lui indossando un vestito rosso (e non nero) mentre il migliore amico del morto se ne sta tranquillo a casa, mi son detto che non avevo le palle per rischiare: se fosse venuta in rosso sarei morto davvero. Meglio vivere, se non altro per vedere come va a finire.
Da giornalista la tentazione di morire è dietro l'angolo, perché non basterà certo un pezzo come questo per convincere i lettori della grandiosità di tutti noi uomini della comunicazione, convinti di parlare a migliaia (milioni!) di persone. Un bel funerale sarebbe più efficace, magari preceduto da una valanga di necrologi, compresi quello del direttore e dell'amministratore delegato, e da quattro pagine grondanti dolore con le fotografie che mi ritraggono - sguardo intelligente - a battere le dita sul computer.
Ammetto che noi giornalisti in questo siamo più fortunati, altro che la mezza paginetta che abbiamo dedicato a te pittore quando pensavamo che fossi morto per davvero. Moriamo in gloria, ma io saprei fare di meglio, almeno nel pensiero: dovrei andarmene di morte ingiusta, meglio lontana (per far durare di più la notizia in attesa del rientro della salma), possibilmente nell'esercizio delle mie funzioni, nel tentativo di mettere la mia vita sul piatto di molte altre, cosa che senza dubbio farebbe di me un eroe. Ma tutto questo per me, cronista di provincia, è chiedere troppo anche alla fantasia. Quindi vivo. Anche perché crescendo scopri che le lacrime degli altri di fronte alla tua bara più che soddisfazione ti provocano tristezza. E se questo è il prezzo da pagare per essere (finalmente!) al centro dell'attenzione, allora è meglio stare nell'ombra. Insomma morire (per finta) è un gioco da bambini. Vivere, da uomini, è tutta un'altra cosa.

14 maggio 2008

In vacanza nel deserto

Duna a Porto Pino in SardegnaCè un motivo ben preciso che porta molti trentini a prendere le ferie nello stesso periodo (anzi in due) creando qualche grattacapo ai capi ufficio e ai direttori del personale. I periodi sono giugno e settembre e il motivo è presto detto: il trentino medio ama andare in ferie in un luogo immacolato (almeno come i boschi e i pascoli a cui è abituato), possibilmente al mare (perché la montagna ce l’ha già dietro casa), ma soprattutto vuoto. Tanto che al rientro in ufficio la lode più sincera e appassionata che un trentino può spendere per raccontare le vacanze suona più o meno così: "Tei, bellissimo, non c’era nessuno".
E’ un mistero come in un mondo collegato dagli aerei e sempre più popolato i trentini riescano a trovare posti turistici (su questo non c’è dubbio, parliamo di Sardegna, Grecia, Egitto o Tunisia) dove non incontrano mai nessuno.
Naturalmente il "nessuno" va interpretato in senso ampio, significa che non c’è in giro "nessuno come noi", cioè turisti allo sbaraglio. Gente invece ce n’è eccome, ad esempio i cittadini del posto che invitano i trentini (solo loro, par di capire) a gustare vini e formaggi locali nelle loro abitazioni e spiegano le usanze del posto in una lingua, chissà come, ai trentini comprensibile. Questo almeno è quello che i trentini raccontano in ufficio quando in agosto - unici in Italia - si ritrovano a lavorare dietro la scrivania (deserta anche quella) a loro modo furbi, perché non c’è niente da fare.
Il trentino medio si presenta in bassa stagione ai limiti di una bianca spiaggia del Mediterraneo. Poiché l’estate vera deve ancora arrivare (o l’autunno è alle porte, a seconda delle situazioni) può capitare che indossi i calzini bianchi nei sandali tedeschi. Con un’occhiata misura la rena prima a meridione e poi a settentrione, dove però la vista è turbata da una presenza aliena che può rovinare l’illusione: una madre, due bimbi e un ombrellone. Allora si dirige senza indugio in direzione opposta (via dalla pazza folla!) finché doppiata una duna di sabbia che nasconde gli altri turisti, pianta le tende, prende il telefonino e racconta al mondo la sua conquista: "Tei, bellissimo, non c’è nessuno". Anzi: nes-su-no.
Non c’è bellezza naturale, meraviglia della cultura e della tradizione oppure villaggio incontaminato che regga al fascino di una località deserta, come la vogliono i trentini.
C’è anche un motivo economico - inutile negarlo - perché l’idea di pagare 20 o 30 per una vacanza che ad altri, il mese dopo, costerà 100 o 200 riempie il cuore di soddisfazione e fa sentire intelligenti. Quella del prezzo è l’altra variabile che rende la vacanza indimenticabile, tanto che al rientro si esclama felici: "Tei, bellissimo, ho pagato pochissimo".
Anche in una località affollata ci può essere, dietro un promontorio o nella valle accanto, uno spazio deserto che ogni trentino vuole conquistare. Le informazioni su dove si nascondano questi luoghi ameni (introvabili per le grandi masse ottuse, almeno così parrebbe, magari perché sono infestati da vipere o vespe) circolano con grande parsimonia: i luoghi dove non c’è nessuno sono sempre più rari e poiché il trentino medio è abitudinario, punta a tornarci l’anno dopo per ripetere l’esperienza.
Gli amanti di questo genere di vacanza, maltempo a parte, corrono un solo, grosso, rischio: quello di incontrare nella scoperta dei deserti qualcuno che appartiene alla stessa specie. Uno di loro. Peggio: un trentino. Non c’è peggior disgrazia che scoprirsi intelligenti in due, perché ti viene il dubbio di non esserlo per niente. Siamo così pochi che ci conosciamo a vista, così un trentino medio posto di fronte al suo simile ha solo due possibilità: riderci sopra e organizzare qualcosa in compagnia, oppure girarsi dall’altra parte fingendo di non aver visto e bisbigliando alla moglie di fare lo stesso. Allora lei ubbidirà (è trentina), proprio lei che in quella landa desolata, sebbene splendida, si era illusa di aver trovato qualcuno con cui scambiare, finalmente, quattro chiacchiere.

P.S. quello nella foto non è il deserto, bensì una duna della spiaggia di Porto Pino (nel Sulcis, in Sardegna)

05 maggio 2008

Il guardone dei redditi

guardone di redditi
Il sogno di ogni italiano medio si è avverato per me nel cuore della notte, di fronte allo schermo del computer con l’elenco sterminato dei redditi dei trentini. Impossibile dormire, finalmente potevo sapere. Solo non riuscivo a decidere da dove cominciare a sfogare l’istinto guardone con cui tutti, più o meno, dobbiamo fare i conti.
I ricchi li conosciamo già: vediamo le loro case, le loro auto, sappiamo che lavoro fanno, dove vanno in vacanza e in quale scuola mandano a studiare i figli. No, nell’infinita lista le vere curiosità stanno nel mezzo dov’è possibile ingaggiare duelli virtuali (o se preferite guerre tra poveri) a chi possiede più denaro, promuovendo la moneta unità di misura del valore umano.
Seduto in poltrona con il pc portatile sulle ginocchia, in mutande (giusto per rendere l’idea) ho cercato prima me stesso, per stabilire un’arbitraria linea di confine, quindi mi sono lanciato alla ricerca di vicini, conoscenti e infine dei colleghi in una continua sfida che creerà vari problemi ai direttori di quelle aziende (tutte) dove le buste paga arrivano chiuse e cambrettate.
La sfida dei redditi è un gioco stressante: soli di fronte al computer si gode, si soffre e ci si indigna a fasi alterne, rivaleggiando con chi ci sta vicino perché i ricchi veri per noi gente normale sono così distanti che nemmeno con la spinta dell’invidia si possono raggiungere. Il ministro e l’agenzia delle entrate non si illudano: è solo una curiosità morbosa che non farà aumentare le denunce di evasori al numero verde della guardia di finanza.
Dopo mezz’ora di studio attento e scrupoloso (interrotto dalla telefonata di un collega che, come me, tirava tardi ad analizzare buste paga) mi è capitato di stufarmi. In quell’elenco di nomi e numeri non sapevo più chi cercare. Così sono partito dall’inizio, dai miei compagni di scuola, per vedere cos’eravamo diventati, usando il colore del denaro per tracciare il ritratto della mia generazione. Cercando disperatamente di ricordarmi i loro nomi ho ritrovato i secchioni della prima fila che con lo studio matto e disperatissimo si sono conquistati un posto in cattedra al liceo: 23 mila euro lordi l’anno. Ho ritrovato (frugando tra i redditi di un’altra città, su internet c’è di tutto) quella ragazza brava che insegna all’università (50 mila euro destinati a crescere perché negli atenei si parte lenti), un medico vero che si è fermato a 60 mila euro (perché in rianimazione si salvano le vite ma non si effettuano visite a pagamento) e un medico finto (nel senso che non visita nessuno, ma firma certificati per le aziende) che supera di slancio i 100 mila.
Ho rivisto quelle due ragazze che presumo siano sposate, perché con 5 mila euro non si campa se non c’è qualcuno che paga i conti. E quel compagno bocciato alla maturità, su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo, che aveva un reddito di tutto rispetto elencato sotto quello (quadruplo) del padre.
Quello che dicono gli scienziati per la mia classe è vero: i belli (modestamente) guadagnano di più. Ma anche i brutti hanno speranze, come l’avvocato G. (73 mila euro) o quel ragazzo che organizzava gite, feste in discoteca e partite di pallone e ha avuto discreto successo come venditore (60 mila euro).
Ad un certo punto ho scovato A. inchiodato a 9 mila euro di lavoro dipendente, insomma uno sfigato se non sapessi che lavora sei mesi e il resto dell’anno gira il mondo (quella parte del mondo dove la vita costa poco) con una tizia che la pensa come lui. Quando torna riempie la casa di libri e invita gli amici a cena per raccontare storie da cui non caverà mai nulla ma che valgono più di 9 mila euro.
C’era infine al liceo uno che non c’era mai, nel senso che non veniva a scuola. Soprattutto in primavera. Durante i temi in classe copiava e l’ha sempre fatta franca. Nell’enorme lista l’ho beccato alla lettera C., ma è come se non ci fosse, proprio come una volta: reddito zero. A scuola aveva imparato che fare il furbo paga e ha continuato a farlo.